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Intervista ad Augusto Del Noce (17 febbraio 1983)

Ore 15. 30-17. 30. Sono presenti Roberto Cipriani e Consuelo Corradi. Lo stesso Del Noce viene ad

aprire 1a porta di casa. Ci fa passare subito nel soggiorno, dove ci sediamo. Cipriani gli consegna la trascrizione dell’intervista precedente, specificando che si tratta di 28 pagine dattiloscritte. Del Noce si mostra stupito: “ma allora lei ha ampliato molto” dice. Poi offre una sigaretta e ne accende per sé. La conversazione inizia con Del Noce che chiede a Cipriani di che cosa si occupi attualmente. C’è un certo imbarazzo che Del Noce non riesce a celare. Poco dopo l’intervistando chiede anche a Corradi se sia una ricercatrice. Corradi risponde negativamente, aggiungendo però che si sta preparando al concorso per il dottorato di ricerca. Del Noce chiede spiegazioni al riguardo. Qui inizia la registrazione. Il registratore è collocato su un tavolino in mezzo a due divani: da una parte siede Del Noce, di fronte i due intervistatori.

Corradi. … sociale che comprende cinque grandi temi, sui quali verranno poi organizzati dei corsi ed è della durata di tre anni. E sarebbe una preparazione all’insegnamento universitario, la vecchia libera docenza intendo.

Cipriani. Sì, loro avranno questi tre anni di preparazione,  seguendo dei seminari. Possono anche fare un periodo all’estero, da sei mesi fino ad un anno.

Del Noce. (avvicina un accendino a Corradi).

Corradi: Grazie.       

Cipriani. E poi sosterranno una discussione con i docenti che li hanno seguiti. Al termine di questa discussione sarà preparato un giudizio con il quale si presenteranno al concorso nazionale.

Risposta. Ah, quindi il numero è limitato dei posti del dottorato.

Domanda. Sì, e al concorso nazionale possono presentarsi anche persone che non abbiano seguito il dottorato, quindi come fossero dei privatisti, per così dire. È la vecchia libera docenza. Ed in questa sede ci saranno le solite prove, per, per attribuire il titolo.

R. Ma che rapporto c’è fra dottora…, fra dottori di ricerca, dottorato di ricerca, ricercatori, professori associati.

D. Il dottore di ricerca dovrebbe con questo titolo partecipare ai concorsi di ricercatore, di   professore associato, di professore ordinario ed è presumibile con maggiori chances per il semplice fatto di avere questo titolo, come il vecchio libero docente doveva in qualche maniera… essere preso in buona considerazione.

R. Anche per ricercatore occorre?

D. E direi di sì.

R. Il dottorato.

D. Cioè, è sempre un titolo preferenziale rispetto ad altri. È un po’ come il Ph.D. americano.

R. Perché adesso i ricercatori sono pochis…, sono. Il numero dei ricercatori è pochissimo.

D. Beh, da noi addirittura il numero dei ricercatori soverchia quello dei docenti…

R. Sì.

D. …diciamo degli associati e degli ordinari.

R. Sì, quello sì, ma, ma adesso per i futuri ricercatori cosa c’è?

D. Ah, sì. I posti sono pochissimi, da noi appena tre per esempio.

R. Sì, sì… sì, sì [pausa]. Prima hanno, hanno acc…, hanno accolto tutti e adesso hanno messo questa, messo questa restrizione addirittura.

D. Ma lei ai suoi tempi se avesse potuto scegliere avrebbe scelto diversamente… partecipa… Cos’è? Mi pare che lei si interessi di filologia classica e di storia medievale, no?

R. Sì, ben avrei avuto questo interesse. Avrei fatto bene a prender quelle ma insomma… ho preso filosofia, eh.

D. Dunque lei… Mi pare che seguiva Rostagno?

R. Rostagni, sì, di filologia classica e Falco di storia medievale, ehm, erano… ma purtroppo non ho seguito né l’uno né l’altro.

D. Come mai si è trovato a filosofia, cioè c’era un docente in modo particolare che la invogliava?

R. No, mi sembrava di avere maggiore interesse per filosofia e poi… son rimasto.

D: Dunque lei ha cominciato a insegnare a Mondovì, mi pare, no?

R. Ad Assisi.

D. Ad Assisi.

R. Ad Assisi, poi son passato a Mondovì, poi a Torino, poi a Trieste… e a Roma [lunga pausa].

D. Le sue prime comunicazioni su quali argomenti erano?

R. Ah, mi interessavo allora della filosofia religiosa nel cartesianismo del Seicento. Le mie prime, le mie prime sono su Malebranche, proprio come interprete religioso del cartesianismo, ma risalgono addirittura al ’34, ’37, ’38, insomma… Dopo un po’ lasciato e ripresi… ripresi nel sess…, ripresi nel ’60 e nel ’65 feci un libro, che restò primo volume e resterà primo volume proprio su Riforma cattolica, Riforma cattolica e [pausa] l’influenza della Riforma cattolica sulla filosofia. Restò primo volume, che era su Cartesio, poi neanche su tutto Cartesio. Quindi avrei dovuto, doveva essere in tre volumi e invece… lasciai perdere, insomma. Ho frammenti dei volumi successivi. Non so poi se pubblicherò poi questi frammenti. Ecco non lo so neanche. Dovrei un po’ aggiornarmi, perché praticamente… vero?, e quindi non lo so, ecco… Potrebbe anche darsi, ecco, che… e così… Lei è associato?

D. Sì.

R. Ah, benissimo… Quan…, quanti sono in Sociologia lì alla…

D. Eh?

R. …alla Facoltà di Magistero.

D.  Da noi siamo 36.

R. 36 professori…, cioè compresi i ricercatori?

D. No, i ricercatori sono 42.

R. 36! Adesso è separata la Facoltà di Magistero?

D. No, siamo diversi corsi di laurea: Sociologia, Psicologia, Materie Letterarie, Lingue, Pedagogia. R. [interrompe] Quindi 36 di sola Sociologia?

D. Di sola Sociologia.

R. Ordinari quanti?

D. Ordinari 12 [pausa].

R. E c’è sempre Ferrarotti?

D. Sì.

R. E poi [pausa] 12 ordinari di Sociologia, chi sono? Ferrarotti…

D. Dunque, Ferrarotti, Statera, Martinelli, Pagliano. C’è Cerroni che fa Scienza della politica.

R. Sì.

D. Ma è nel nostro corso di laurea. E poi Ancona che fa anche Sociologia, poi Izzo che fa Storia della sociologia, poi… e dunque… Accornero Sociologia industriale, De Masi Sociologia del lavoro.

R. Ecco.

D. Beh, insomma

R. Sì… De Rita non è?

D. No, no, De Rita è solo al Censis.

R. È?

D. Solo al Censis, non… non ha impegni accademici.

R. Ah.

D. No, no [pausa]. Ecco, ma questo interesse per la interpretazione religiosa di Cartesio le derivava da qualche corso universitario, da qualche…

R. [interrompe] No, no, era il problema del…, generale, della storia della filosofia moderna, ecco. E dato che allora, allora si parlava dell’inizio cartesiano della filosofia moderna, quindi tutti i problemi connessi alle interpretazioni o religiose o scientistiche o idealistiche di Cartesio. Del resto Cartesio era un autore abbastanza di moda negli anni ’30. Ma adesso è sparito, sparito, insomma. Esiste sempre come classico ma non ha più, non ha più quella, non suscita più quell’interesse… e poi di storia in generale, di storia della filosofia francese allora, ecco. Ma insomma sono passati molti anni. Dal ’65 non ho più… Adesso vorrei forse sistemare un po’ queste cose, ma chissà. Insomma non so neanche se avrò ancora il tempo di sistemarle. Comunque mi sono occupato di storia contemporanea, di rapporto…, dell’aspetto etico-politico della storia contemporanea. E direi che dopo il ’65 mi sono occupato praticamente solo di questo. Più che volumi, tanti articoli e, e adesso… E lei di che cosa si occupa?

D. Ma io, formalmente, di Sociologia della conoscenza. Però gli interessi sono, sono vari, ecco. Dalla Sociologia della religione, la Sociologia degli intellettuali…, problemi di metodologia, quindi, ecco, storie di vita, sociologia della vita quotidiana. Questi sono i miei campi di studio.

R. E adesso. . . fra i sociologi, adesso, chi è… Acquaviva, Alberoni?

D. [interrompe] Sì, questi sono gli esponenti di punta.

R. Ho visto che, che Ferrarotti è instancabile. Quanti libri pubblica all’anno?

D. Eh, insomma lavora abbastanza.

R. Eh?

D. Lavora abbastanza.

R. Sì, sì, ha fatto un libro Teologia per atei.

D. Sì, sì.

R. Che roba è?

D. Dunque è un libro che ha pubblicato per Laterza e… sono messi insieme contributi presentati in occasioni differenziate. Però c’è una certa logica nel volume. Ecco, devo dire, per esempio c’è un bel saggio su Lutero, che credo derivi un po’ dalla sua conferenza tenuta alla Facoltà Teologica Valdese… e poi insomma ci sono altri pezzi. Un altro è, in parte rielaborato, quello che aveva preparato per quel convegno sull’ateismo, si ricorda?, a Propaganda Fide, no?

R. Sì.

D. Ecco, il discorso sulla teologia naturale e poi insomma c’è sempre questo suo interesse sul problema religioso che data da lungo tempo [pausa]. Ecco, ma come mai proprio dal ’65 lei ha cominciato ad interessarsi di questo? Perché?

R. [interrompe] Me ne sono sempre interessato, veramente, veramente fin dalla gioven…, dalla giovinezza si può dire, anzi prevalentemente interessato di questo più che di filosofia pura. Nella mia gioventù io sono stato amico di Capitini.

D. [interrompe] Ah, ecco.

R. Con tutti, più o meno di tutti gli antifascisti di allora. Gli antifascisti, non quelli fuoriusciti ma quelli interni, che erano in pochi. Eh, dunque, c’era Moraso. Sono stato amico, poi l’ho perso, di Bobbio stesso…, di…

D. Eh, beh, l’ambiente di Torino.

R. L’ambiente di Torino, l’ambiente di Pisa. Eh, quindi mi sono sempre interessato. Poi mi sono e ho continuato a interessarmene anche nel ’50, ’60, soprattutto dei rapporti tra filosofia e politica, filosofia e storia contemporanea, ecco. E insomma del momento etico-politico, filosofico della storia contemporanea, ecco. Quello è stato, direi, il mio interesse, interesse prevalente quasi di tutta la vita, ecco. Talmente che ho praticamente… Mentre l’interesse invece per la filosofia del Seicento era piuttosto interesse accademico, anche se forse ho fatto male nel trascurarlo. Ma, sa?, tante cose si trascurano, ecco [lunga pausa]. E adesso lei tiene un corso, lei?

D. Sì.

R. Tiene un corso.

D. Dunque quest’anno sto facendo un corso sulla legittimazione.

R. Sulla?

D. Legittimazione.     

R. Cioè?        

D. Il processo di legittimazione a livello politico, a livello religioso.

R. Il problema della legittimità.

D. Il potere, pretesa di legittimazione.

R. E non c’è mica neanche molto.

D. Ma infatti, ma infatti.

R. Infatti, perché?

D. Ha perfettamente ragione.

R. Sì, perché… a parte, non so, Ferrero…

D: [interrompe] Sì, d’accordo.

R. Almeno in Italia non mi pare che ci sia niente.

D. No, in Italia direi proprio [ride] il terreno è vergine [ride].

R. E dove? In America?

D. Sì in America sicuramente. In Germania soprattutto.

R. In Germania.

D. Sì, infatti stiamo prevedendo di organizzare un congresso alla fine di ottobre e verrebbero Luhmann, che vedo domani a L’Aquila, dove c’è un convegno su “Ordine e Disordine”, Habermas. E poi dovrebbero venire anche degli studiosi francesi e proprio ieri sera mi dava conferma Merton che riesce a venire… dalla Columbia University [pausa]. Sì, in effetti è, è un concetto molto utilizzato ma che non è stato mai affrontato in modo congiunto e monografico, ecco [pausa].

R. Sì, perché… Ah, Luhmann.

D. Sì, c’è stata tutta una diatriba fra lui e Habermas su questo discorso [lunga pausa].

R. Quindi lei prepara un libro, qualcosa?

D. Sì, infatti stiamo preparando anche un lavoro su questo. Dico stiamo perché insieme con altri. Ci siamo un po’divisi i compiti [pausa].

R. Dal punto di vista giuridico ci sarà parecchio.

D. E uno dei, dei co-autori è un sociologo del diritto infatti.

R. E poi ci sarà… quei, quei lavori dei giuristi puri non hanno, credo, grande interesse.

D. Ecco, se sono giuristi un minimo attenti ai discorsi interdisciplinari, beh, la cosa risulta interessante.

R. Ma di giuristi che si sono occupati di questo?

D. Ma io, beh, giuristi proprio puri non direi, ma uno per esempio che val la pena di seguire è Alessandro Baratta. Non so se lei lo conosce.

R. Ah, sì.

D. Sì, sì.

R. Un professore di filosofia del diritto.

D. Sì, sì, sì.

R. E adesso ha lasciato anche Bologna. Lui era ordinario a Bologna e insegna in Germania, credo a Bielefeld, o a Saarbrücken. Adesso non ricordo bene, forse Saarbrücken.

R. Ma sono pochissimi.

D. Pochissimi, sì, sì.

R. Però anche lui non è un giurista puro, ma di filosofia del diritto.

D. Sì, ma infatti, ecco perché dico.

R. I costituzionalisti dovrebbero.

D. Non direi, non direi.

R. La pongono già come un dato [pausa].

D. Lei nel ’68 dov’era?

R. Trieste.

D. A Trieste. Come, come l’ha vissuto, ci sono stati problemi?

R. No.

D. No.

R. [incomprensibile] A Trieste non era particolarmente viva la contestazione. Ma devo dire che io non ebbi nessuna noia, assolutamente nessuna. Ma non fu, a Trieste non ci fu grande…  no, anzi devo dire che con me furono molto, molto gentili veramente [ride]. Non ebbi proprio, non fui minimamente contestato. Fu assolutamente tranquillo insomma [pausa].

D. Altri colleghi?

R. No. A Trieste, non mi pare che Trieste… Ci sarà stato qualcosa. Ma insomma, io insegnavo a Magistero allora. Non mi pare che ci sia stato… Forse a Lettere qualcosa, ma a Magistero non fu quasi avvertito. Praticamente niente. Beh, l’occupazione ma niente, niente di più. Non ci furono né insulti gravi, né disordini gravi [pausa] [incomprensibile].

D. Il suo giudizio su questo… mitico ’68?

R. Mah, certo meriterebbe essere studiato, ecco. Ma, cosa vuole?, fu, praticamente ebbe l’esito assolutamente opposto a quello che i contestatori si proponevano, ecco. Vale a dire…

D. [interrompe, ma poi lascia finire] Questo.

R. Mentre i contestatori si proponevano questa forma, questa lotta contro la società tecnocratica, di fatto rimossero tutti gli ostacoli che la società tecnocratica poteva incontrare. Quindi il suo esito fu completamente… Quanto alle radici della contestazione, in certo senso, vero, effettivamente dopo il ’45 l’università s’era chiusa in un accademismo veramente, proprio come se nulla fosse. Quindi c’era proprio un dualismo fra cultura accademica e realtà, cultura, ehm, aderente alla realtà. E quindi, e quindi in un certo senso lo scontro è largamente spiegabile, ecco, spiegabile. Però, ecco, se di tutto quello che i contestatori affermavano contro la società tecnocratica, eccetera, non è rimasto proprio assolutamente nulla. Quindi, eh, e anzi sono addirittura scomparsi quei personaggi che eran diventati i pensatori ufficiali della contestazione, molto della Scuola, della stessa Scuola di Francoforte, parlo di Adorno, Horkheimer, eccetera, scomparsi. Non parliamo Marcuse, scomparso assolutamente, ma riaffiorerà come oggetto di tesi di laurea, ecco. Ritornerà proprio sotto l’aspetto accademico, ma come pensatori insomma… Lo stesso, Habermas. Ma quello è un libero dalla Scuola di Francoforte. Da cinque o sei anni non se ne sente più parlare. Horkheimer scomparso completamente, quindi… Certo che meriterebbe di essere studiato a fondo questo fenomeno, perché lo stato di disagio che portava alla contestazione non è scomparso. Ma stranamente… e direi che è rimasto soltanto quello che non era della contestazione un aspetto accidentale non affatto primario, e cioè la rivoluzione sessuale. Quella è rimasta, ma quella non era l’aspetto essenziale della contestazione. Le frange terroristiche, ehm, così [pausa] bisognerebbe vedere anche, perché insomma in qualche modo si potrebbe dire che la contestazione ha talmente fatto il gioco della nuova borghesia, cioè della borghesia che si rinnovava rispetto alla borghesia vecchia, legata ancora alle idee tradizionali. E questa ruppe. Però rispetto a questa nuova borghesia fu l’introduzione al successo della nuova borghesia. Si risolse in questo [pausa]. E dunque gli aspetti rivoluzionari della contestazione andarono esaurendosi. Ormai non ce n’è più neanche traccia. Gli aspetti terroristici, sì, hanno una radice nella contestazione, però insomma non più di una radice, sono marginali rispetto alla contestazione. Quindi ha indubbiamente prodotto molto, nel senso che ha, che ha non dico creato ma insomma permesso un mondo diverso da quello precedente. Però insomma, però questo mondo è del tutto diverso da quello che, direi, i contestatori… D’altra parte, di questi contestatori s’è perduto perfino il nome, non so chi c’era. [incomprensibile] è scomparso. Cosa fa? Il sociologo? Bobbio figlio, junior, scomparso. Viale, scomparso. Toni Negri ha fatto la fine, insomma. Ehm, vabbè [lunga pausa], quindi quelli che erano, avevano acquisito un certo nome nella contestazione non c’è più neanche il ricordo. [pausa] Non saprei proprio a quale nome sia legata adesso la contestazione come, come [pausa].

D. E allora come mai questa contestazione non ha avuto gli esiti che ci si aspettava?

R. Mah, evidentemente, c’era, c’era una debolezza di idee. È probabile, ecco, in, in, negli, negli stessi, in Marcuse soprattutto, perché poi si può dire che Adorno…, Horkheimer era fuori dalla contestazione, Adorno era, così, il mostro sacro, ma insomma non è che abbia proprio… Sarebbe stato Marcuse che però è, è scomparso. Ecco, dove si può ancora rintracciare una certa traccia della contestazione: sarebbe nel movimento di Comunione e Liberazione, perché a questa contestazione parteciparono. Si veniva alla contestazione da tutte le parti, ecco, tutte. Dunque da parte comunista, da parte, da parte radicale, eccetera, eccetera, da tutte le parti possibili. Ora l’unico movimento in cui anco… è in contestazione, per modo di dire, ma in cui ancora si sentono le origini contestative è proprio il movimento cattolico di Comunione e Liberazione, perché altri movimenti, non so, alcuni sono stati riassorbiti dal Partito Comunista, ma il Partito Comunista, di fatto, non è che muova la contestazione. Gli stessi nodi, non so, gli stessi nodi dei teorici comunisti, Gramsci eccetera, erano praticamente ignorati dalla contestazione. Non si può dire che la contestazione si sia ispirata a Gramsci. Dopo c’è stato un recupero, direi, un recupero della contestazione su temi gramsciani, ma che non ebbe un grande esito. Dunque poi, dunque rispetto alla, rispetto a [pausa] direi che chi se n’è avvantaggiato sono i sociologi. E in qualche modo la cultura sociologica, dal punto di vista culturale, la sociologia che stentava ad affermarsi in Italia, perché ci accorgiamo che fino al ’60 non c’era un sociologo, credo che non ci fosse una sola cattedra di sociologia, mentre c’è una diffusione estrema delle ricerche, della cultura, delle ricerche sociologiche dopo il ’70. Diremo un passaggio dalla cultura di tipo filosofico a quella di tipo sociologico. Questa è stata. Sociologico, psicologico. Quello è stato uno dei risultati della contestazione. Per il resto cosa… I partiti sono rimasti immutati. La contestazione non ha dato origine a partiti. I piccoli gruppi sono stati presto travolti. Non c’è in Italia una rivista che, che si ispira alla contestazione. Non mi pare che i Quaderni Piacentini…  Continuano ad uscire?

D. Sì, ma non hanno più…

R. Ma molto frammentariamente anche. Quando escono?

D. Ma insomma… non sono più i vecchi Quaderni Piacentini, via.

R. Sì, chi è che dirige adesso?

D. Adesso non so esattamente, non seguo da vicino la cosa.

R. Io non li ho mai più visti, non so. Ma comunque non hanno più circolazione. Delle altre riviste sorte nell’atmosfera della contestazione non so cosa ci sia [pausa]. Mi pare che [lunga pausa] neanche, diremmo, quei personaggi che [incomprensibile] sulla cresta dell’onda, come Cacciari, non mi pare dicano…

D. Beh, Cacciari ancora dice qualcosa, eh?

R. Eh?

D. Cacciari ancora.

R. [interrompe] Nella contestazione, beh, è bravo Cacciari.

D. Una persona intelligente.

R. Molto serio, sì, sì, senz’altro. Ma dico: però non credo che venga dalla contestazione. Non lo so quali siano le sue origini. Sì allievo di Toni Negri, ma non credo…

D. [interrompe] Sì, sì.

R. Non era.

D. Abbastanza diverso.

R. Non era un personaggio fra i più noti all’epoca della contestazione.

D. Certo.

R. Quindi non ha, non so se abbia partecipato, non so, non mi risulta proprio. Cacciari, ma a partire da…, Cacciari si afferma, viene conosciuto nel ’75, ’76, dopo il ’75 comunque, quindi in un mondo già al di fuori della contestazione. Quindi tracce culturali rilevanti della contestazione non mi pare di poter, di poterle vedere [lunga pausa], ma neppure i sintomi, insomma, che per esempio potevano esserci verso il ’74, ’75 e anche il ’76, ’77.

D. Il ’77 è stato un momento di, di ritorno di fiamma, no?

R. Di ritorno di fiamma però molto diverso…

D. [voce sovrapposta] Certo.

R. …da quello, da quello del ’68 e rapidamente spento, ecco [pausa]. Oggi non…, appunto, il ’68 sarebbe da studiare, proprio questo sarebbe, perché poi non è tanto anche facile rintracciare i tanti documenti. E neppure c’è una memoria interiore di quel che è stata la contestazione, anche se d’altra parte ha segnato indubbiamente una svolta, perché i giovani di oggi sono diversi da quelli precedenti il ’68, diversi proprio per, per quella [pausa]. Però non, non è che sia e neanche, non so, intellettuali fortemente influenzati da Franco Fortini forse, ma più o meno è scomparso. Adesso non, non è che se ne sente più parlare.

D. Poi c’è il caso Colletti.

R. Colletti [incomprensibile].            

D. Sì, dico, c’è il caso, ho detto pro…, il caso Colletti.

R. Colletti era stato insomma, in qualche modo, ehm, cercato dai contestatori, ma lui, per essere giusti, nel ’68 era già decisamente contro Marcuse e contro, direi, l’intera Scuola di Francoforte, contro, contro, direi, contro la contestazione. E ha sempre, è sempre, ha sempre insistito in questa posizione, ecco, insomma la posizione, diciamo, anti, grosso modo si può dire antirivoluzionaria, ecco, contro il comunismo rivoluzionario. Stranamente era stato confuso dai contestatori come uno dei loro e chiamato a essere, però lui    rifiutò di essere [pausa]. E poi neanche, neanche i comunisti in fondo non si può dire che siano stati legati. Chi si è legato alla contestazione, parzialmente, il Manifesto, il gruppo de Il Manifesto, ma molto parzialmente. O qualcuno dei contestatori approdò poi a Il Manifesto. Ma il comunismo ufficiale, certamente non Berlinguer, ma neanche Ingrao, ecco, mai si mossero. Cercarono magari forse di deviare la contestazione a loro vantaggio. Infatti per esempio a Padova chi è che si è mosso contro Toni Negri? Il Partito Comunista. Quindi non, non direi proprio. Non direi proprio che, che la contestazio…, che [pausa], mah.

D. Allora questi intellettuali? Che ruolo hanno avuto più o meno in questi anni a cavallo fra il ’68 e il ’77 e anche ai giorni nostri?

R. Mah, francamente, siccome 1a contestazione ha avuto l’esito opposto a quello che si vole…, che si sarebbe pensato, l’intellettuale, l’intellettuale si è sempre più rifugiato nello specialismo, proprio in antitesi con quella che poteva essere la funzione del… Ormai abbiamo intellettuali specialisti e studenti specialisti. Il risultato è stato di determinare le condizioni per un accademismo che, sia pure di tipo nuovo, ma comunque accademismo. E mi pare si possa, si possa uscire da questo [pausa].

D. Poi c’era tutta la serie di slogans, no? “Tutto è politico”. Poi questo slogan è stato riveduto. 

R. Ah sì, ah sì nel senso che mai c’è stato tanto disinteresse per la politica come oggi. Del resto non è che la politica di oggi meriti interesse, questo è vero, ma il disinteresse. Mettere quello della contestazione, perché anche nelle origini, perché non si imparenta affatto né con l’antifascismo, né con la Resistenza, né,       anzi immediatamente rompe con l’antifascismo, con la Resistenza. Quindi non è… Molto curioso. Meriterebbe proprio di essere studiato perché va tratteggiando…, dopo il ’60, finché esplode nel ’68, esplode nel ’68. Ma le ragioni dell’esplosione, occupazione [incomprensibile]. A un certo punto si impadronisce di un libretto di Marcuse, L’uomo, ormai dimenticato, L’uomo a una dimensione e questo diventa un po’ la…. Poi si confondono le acque con quelle, che però sono distinte dalla contestazione, della rivoluzione sessuale, che andava procedendo dal ’60 in poi. Questa assorbe la contestazione, però è un fatto che è in sé diverso dalla contestazione, di origine in sé diversa, anche se Marcuse li unisce. Né direi che è proprio di tutti i contestatori. Per esempio non, adesso non ho dati precisi, ma non credo affatto che un Toni Negri, ehm, ehm, contestazione e rivoluzione sessuale fossero unite. Non ho idea ecco, non lo so, non lo so ma tenderei a escluderlo [pausa], mah, [pausa]. Ma certamente insomma non è che oggi… Ma sull’oggi poi è molto difficile poter dare qualche giudizio, perché [pausa]. Lei conosce qualche libro di critica della democrazia? Recente?

D. Mah, insomma delle cose ci sono.

R. Per esempio?         

D. C’è Dahrendorf, l’ultima cosa di…         

R. Eh?

D. L’ultima cosa di Dahrendorf, questo libretto, se non sbaglio è di Laterza, mi pare.

R. [insieme] Di Laterza. Com’è intitolato?  

D. Dunque com’era. Te lo ricordi?   

Corradi. Ho paura di no.

D. L’ho messo da parte perché devo guardarmelo, ma insomma.

R. Proprio di critica della… 

D. Sì. Magari le telefono e le dò le indicazioni

R. La ringrazio. E oltre Dahrendorf?

D. Mah, niente. Questo è stato il volume che ha suscitato un certo interesse, altre cose non direi.

R. Cos’è? Abbastanza recente?

D. Sì, sì. Cosa sarà? Un anno?

Corradi. La traduzione italiana è uscita da pochissimo.

R. Cos’è? Un piccolo?

D. È piccolo, è piccolo.

R. Piccolo.

D. Sì, no, non è un grosso saggio.

R. Sì, però il tema meriterebbe.

D. Ma infatti si collega benissimo al discorso che stiamo facendo.

R. È un tema che meriterebbe questo, indubbiamente, perché indubbiamente abbiamo una critica della democra…, ehm, dei chiari, dei chiari segni di critica della democrazia e d’altra parte scarsi strumenti concettuali. Se non andiamo alle vecchie critiche, ecco [pausa] anche l’antitesi democrazia totalitarismo è una formula affatto inadeguata, che mi sembra sempre più inadeguata [pausa].

D. Ma si può dire che il ’68 ha rappresentato un rifiorire di speranze per le possibilità di concreta realizzazione di risvolti democratici?

R. No, ma neanche che il ’68 avesse… La parola democrazia non era affatto sacra per il ’68. No. Il problema era piuttosto questo insomma: il formarsi, dunque l’esito della guerra sembrava essersi consolidato intorno al ’60 nella forma della società opulenta, ecco, società opulenta o tecnocratica, dunque, quindi, il tratto comune di tutte le forme di contestazione era il…

Voce al telefono. No, non c’è, lo trova più tardi.

R. La critica al…

Voce al telefono. [incomprensibile].

R. La critica alla società opulenta…

Voce al telefono. Verso le sette e mezzo, a quell’ora lì certamente ci sarà.

R. E certamen…, certamente però mi pare che è andata fallita. Fallita proprio completamente, completamente, no? La società opulenta adesso non se ne parla più certamente, ma rispetto alla società tecnocratica o è stato il segno dell’abdicazione della vecchia società alla società tecnocratica. Questa abdicazione portava a, portava a manifestazioni violente, portava certo a manifestazioni di aspetto violento. Poi i filoni sono varissimi, filoni che si ispirano al comunismo dissidente, filoni cattolici, persino filoni fascisti che vedono con simpatia il fatto della contestazione. Però, ripeto, direi, è un fatto che ormai, che si è, direi, poi placato in cose irrisorie come gli esami mensili, ehm, oppure con, ehm, oppure con il rifiuto di obbligatorietà di esami, ecco, che poi, poi di fatto, è piani di studio, ma poi di fatto i piani di studio sono tornati quelli di prima, ecco. Quindi non, non mi pare proprio che si possa, si possa vedere, oggi si possa vedere, ecco, oggi proprio quello della legittimità e della carenza dell’importanza della legittimità e della carenza di legittimità [incomprensibile] i temi connessi alla legittimazione [pausa].

D. C’era forse un altro termine che poteva essere caro ai contestatori: quello di libertà.

R. Ah, libertà, sì libertà nel senso che si sentivano schiacciati, ecco, da questa macchina, ecco, da, da, non so, da una macchina tecnica che, per cui il loro destino era già segnato fra, fra i venti e i venticinque anni. Veniva ammessa una libertà teorico-formale, ma di fatto non corrispondeva per nulla a una libertà effettiva. E, direi, meno che mai a un potere effettivo. Parola dunque… Il dato può essere, quindi: naturalmente la parola libertà è una delle poche parole che non fossero rifiutate dai contestatori, ecco.  Mah. Però da questo punto di vista che cosa abbiano ottenuto, non hanno ottenuto assolutamente nulla, ecco. Quindi, perché insomma nella contestazione, continuo ad insistere che [incomprensibile] e poi si sono spenti. C’era un’enorme confusione nel, direi, nel passaggio proprio dalla caricatura della libertà, la licenza pura, ecco. Ma, direi, però quanto questi germi negativi, c’erano parecchi germi negativi. Per ora, per ora questi tacciono [pausa]. Oggi si debbono cercare in quel movimento, in parte in quel movimento di Comunione e Liberazione e in parte in questi personaggi un po’ strani, insomma, che hanno, come Cacciari. Veramente non riesco a capire come sia accettato come deputato comunista, ecco. O, meglio, so anche perché è stato accettato. So o credo di sapere, in fondo non è che io abbia nessuna prova, ma insomma il fatto è che i comunisti volevano recuperare gli autonomi, ecco. E allora Cacciari è un po’una mediazione. Ma insomma Cacciari effettivamente ha una sensibilità alla crisi di oggi, ehm. [pausa] E poi c’è anche quell’Istituto Gramsci del Veneto che, ehm, non so come sia tollerato dal Partito, ecco, perché non so che rapporto abbia con il Partito Comunista. Ma evidentemente, ma è vero che oggi il Partito Comunista giuoca tutte le carte possibili, tutte, tutte, senza… Adesso giocherà credo anche la carta di Mussolini, poi magari… beh, farà l’apologia di Mussolini. Ma insomma però è un recupero di certi, un recupero che veramente questo era già nelle idee di Togliatti: il tentativo di recupero del fasci…, dei fascisti, da parte del Partito Comunista è una idea vecchia, ecco. E adesso il recupero potrebbe estendersi anche a Mussolini, cangiando un po’ le cose, dicendo che è un rivoluzionario tradito piuttosto che un rivoluzionario traditore, insomma [ride]. No, questi sono paradossi, ma che però hanno, debbono avere un certo fondamento, perché quando vedo che i comunisti, così, dichiarano che sono rivolti a, a una considerazione seria e storica della stessa figura di Mussolini, ma, non so [ride]. E quindi… Non parliamo poi rispetto ai cattolici, non parliamo in tutte le direzioni, ecco. Si muove questo… Recupero di Nietzsche, recupero, beh, tutti i recuperi possibili. Quindi, in questa, ehm, quindi [pausa] e recupero nello stesso tempo magari delle tendenze libertarie, delle tendenze, recupero. E anche diciamo la verità che oggi può contare molto il Partito Comunista sul disinteresse generale della politica e poi di un fatto: che è riuscito a superare bene la crisi conseguente alla Polonia. Ehm, ha superato bene [pausa]. Non direi che oggi il Partito Comunista sia indebolito, piuttosto direi che è piuttosto indebolita la Democrazia Cristiana, questa sì, non tanto per, per il fatto dell’assenteismo [fine della registrazione].

Intervista di Roberto Cipriani a Augusto Del Noce(19 gennaio 1981)

Domanda. Ecco, quindi, professore, dovendo un po’ cominciare a ricostruire la sua esistenza, credo ormai abbastanza lunga, data l’età, lei quanti anni ha adesso?

Risposta. Settantuno.

D. Settantuno. Dovremmo, se possibile, nei limiti, diciamo, dei ricordi, riandare un po’ alla sua prima formazione. Ecco, i suoi studi… Da che tipo di famiglia proviene?

R. Eh, famiglia borghese, mio padre era generale, famiglia borghese insomma[2].

D. Suo padre era generale. E sua madre?

R. Mia madre era una donna di casa[3].

D. Ecco, una donna di casa. Ma anche di famiglia di buona estrazione, sua madre?

R. Sì, sì, di famiglia di molto buona estrazione.

D. A Torino, vero?

R. A Torino. Sì, sì, insomma, lei era nata a Savona, ma di lingua era piemontese, insomma.

D. Ho capito. Ecco, mi descriva un po’ i primi anni, per quello che ricorda ovviamente.

R. I primi anni? Cioè gli anni dal ’28, da quando sono entrato all’università, fino al ’40, fino alla guerra.

D. Ecco, a me interesserebbe proprio anche la prima formazione, se le fosse possibile, anche la prima infanzia, perché credo che nello sviluppo possa aver avuto anche un’influenza di un certo tipo. Cioè, ecco, per esempio, lei all’asilo, alle elementari, che tipo di scuola ha frequentato?

R. Ho frequentato le scuole elementari pubbliche.

D. Pubbliche.

R. E poi il Liceo D’Azeglio a Torino.

D. Che era un liceo statale?

R. Statale.

D. Ho capito. Ecco, ma, per esempio, degli insegnanti… Lei all’asilo non è andato?

R. No

D. Non ricorda di essere andato all’asilo.

R. No, no.

D. Ecco. Per esempio, negli anni dell’infanzia, che tipo di rapporti esistevano nella vostra famiglia? Lei era figlio unico?

R. Figlio unico.

D. Ecco, i rapporti con suo padre, con sua madre…

R. [pausa]. Mah! Non hanno avuto una grande incidenza sulla mia formazione, ecco. Era una famiglia tranquillissima, rapporti ottimi, ma… non è che abbiano avuto un’incidenza particolare sulla formazione mia.

D. Ecco, per esempio, sia suo padre che sua madre erano credenti?

R. Mia madre sì.

D. Ah, sua madre sì!

R. Mio padre agnostico.

D. Ecco. Ma, per posizione personale o per tradizione anche familiare suo padre era agnostico?

R. Mah! Non so molto della famiglia di mio padre perché fu completamente distrutta nel terremoto di Messina.

D. Ah ecco! Quindi dell’8? ’908.

R. Sì, sì, perché lui era di origine toscana, ma però la famiglia è poi diventata… [incomprensibile]

D. Ah ecco.

R. Quindi non…

D. Quindi non sa molto.

R. Non so molto, ecco. La madre doveva essere religiosa, ma non so altro.

D. Non sa altro.

R. Però i fratelli di mio padre non erano religiosi. Due si salvarono ancora dal terremoto, i fratelli di mio padre si salvarono ancora dal terremoto ma non erano… non erano religiosi.

D. Ho capito. E invece da parte di sua madre, diciamo, c’era una tradizione religiosa?

R. Sì. Non tutti erano religiosi. Quella di mia madre era una vecchia famiglia piemontese, ecco.

D. Ecco.

R. Piemontese, una famiglia che aveva subito molto la scossa del Risorgimento. Quindi, le donne erano rimaste religiose, ecco, i maschi normalmente no.

D. Ecco, in che senso ha detto scossa del Risorgimento?

R. Beh! In una famiglia della Restaurazione…

D. Sì.

R. Una famiglia che aveva avuto… personaggi anche abbastanza notevoli, un mio trisavolo era Presidente del Consiglio di Stato, quindi famiglia che aveva avuto… cattolica della Restaurazione, avevano avuto la scossa del Risorgimento, insomma la scossa… la scossa della rottura fra Chiesa e Stato nel Risorgimento. D’altra parte, direi, in quegli anni, tra il 1860 e il ‘900, i maschi si erano allontanati normalmente dalla religione.

D. Ho capito. Senta, e soprattutto nei primi anni della sua infanzia i suoi rapporti con i genitori erano… Come li definirebbe?

R. Ottimi, ottimi.

D. Ottimi

R. Ottimi

D. Ecco, ad esempio… li potremmo definire questi genitori permissivi… prudenti? Ecco, ecco come potrebbe…?

R. Non troppo, non troppo permissivi. No.

D. Ecco.

R. Tutt’altro.

D. Quindi c’era un certo rigore?

R. Un certo rigore, sì. Poi, sa, io venivo da una famiglia in decadenza, ecco, perché mio padre fu inserito nella famiglia di mia madre, avendo perduto…

D. Certo.

R. E quindi era una famiglia che direi che era in decadenza se si può dire dal nov…, dalla metà dell’800 in poi.

D. E…, sì.

R. Direi, in certo senso, era una famiglia che guardava al passato, ecco, piuttosto che guardare al futuro, ecco [pausa]. Sa, quelle famiglie che non si erano mai risollevate in fondo dalla, dalla crisi del periodo risorgimentale [pausa]. Quindi, mancanza di iniziativa, mancanza di… [pausa lunga]. Mancanza di iniziativa. Quindi era soprattutto, direi, in un ricordo del passato.

D. E sul piano religioso vi erano, diciamo, delle diversità di opinioni che poi si esplicitavano anche in altri episodi fra suo padre e sua madre?

R. No.

D. Ora lei mi ha detto che l’una era religiosa l’altro era agnostico. Ecco, questo non costituiva…

R. No.

D. …motivo…?

R. No, in assoluto.

D. No. E c’era un’accettazione reciproca?

R. Sì, ma mio padre non era anticattolico.

D. Ah ecco.

R. Non era anticattolico. Era agnostico, appunto, agnostico, agnostico come in fondo una notevole parte degli ufficiali di quell’epoca, ecco. E, e… non era massone però.

D. No.

R. Non era massone, non era, non era affatto anticlericale, ecco. Morì poi bruscamente.

D. Sì, è morto poi, è morto… Quanti anni aveva lei quando è morto suo padre?

R. Quarant’anni.

D. Ah, aveva quarant’anni.

R. Trentanove.

D. Quindi, insomma, diciamo, quindi non l’ha perso quando lei era piccolo. E la mamma invece?

R. Mia mamma morì prima, quando io avevo trent’anni.

D. Ah ecco [pausa]. Quindi lei è sempre stato figlio unico, non è che abbia avuto altri fratelli o sorelle che siano poi deceduti.

R. [silenzio].

D. Senta, ma oltre suo padre e sua madre, in casa, ricorda qualche altra figura, qualche altro personaggio?

R. Soprattutto mia zia, la sorella di mia madre, che non era sposata.

D. Sì. Che viveva con voi?

R. No, no, non viveva con noi, ma però… viveva in un altro alloggio, ma insomma però sempre in contatto strettissimo con mia madre.

D. Ecco, perché la ricorda? C’è qualche…?

R. Beh! Direi, la vedevo ogni giorno, si può dire.

D. Era la sorella di sua madre, vero?

R. Sì, sì.

D. E anche questa era molto religiosa?

R. Sì.

D. Sì.

D. Lei la definirebbe, diciamo, una donna di chiesa, una che magari andava ogni giorno in chiesa, oppure…?

R. Non so se andasse proprio ogni giorno in chiesa, ma spessissimo.

D. Ecco.

R. Poi è arrivata una prozia, sì, prozia, che era religiosissima lei e che, in qualche modo, rappresentava un po’ la tradizione della famiglia, della famiglia originaria.

D. Ah ecco [pausa]. E lei è vissuto con suo padre e sua madre fino a quando?

R. E, praticamente fino a qua…, fino, praticamente, fino a che giunse la loro morte.

D. In casa con loro?

R. Sì, in casa con loro. Sì, in ca… Sì, sì, in casa con loro, sì. Beh, io vivevo un po’… Allora insegnavo a Mondovì e loro stavano a Torino, ma però tornavo tutte le settimane a…

D. A casa.

R. A casa [pausa]. Cioè fino al ’34 ho vissuto sempre in casa, poi dal ’34 in poi sono andato a insegnare.

[pausa].

D. Quindi lei prima delle elementari, diciamo, ha vissuto praticamente sempre in casa, non ha avuto…?

R. Sempre in casa.

D. Ma, per esempio, frequentava la parrocchia? Non so, c’erano delle associazioni anche…?

R. No. Non sono stato… sono stato poi negli anni dell’università iscritto alla FUCI[4] ma non ho frequentato molto, non ho partecipato molto.

D. Ma, per esempio, negli anni delle elementari, non so, lei potrà aver conosciuto qualche sacerdote o qualche religiosa… No?

R. Mah! Ho conosciuto abbastanza bene un prete, ma non è che abbia avuto molta influenza su di me.

D. Uhm, chi era questo prete? Me lo può un attimo descrivere?

R. Era un… In realtà, in realtà era un pre… Sì, era credente, senza dubbio, ma essenzialmente era un professore di latino e greco.

D. Ah ecco.

R. Direi che la sua passione erano il latino e il greco più che… più che l’interesse apostolico molto forte.

D. Ho capito. Questo già al liceo, diciamo?

R. No. Quello l’ho conosciuto perché era il mio vicino di casa, era al ginnasio.

D. Ah ecco. Non per averlo avuto come insegnante.

R. No, no, non l’ho mai avuto come insegnante.

D. Quindi, diciamo, negli anni della sua fanciullezza, quindi negli anni delle scuole elementari, lei non and…, non andava in chiesa, non…?

R. Andavo in chiesa.

D. Cioè, cioè praticamente la domenica per la messa? Non altro, non altre attività…?

R. No, no.

D. E, diciamo, il momento in cui la pratica religiosa è diventata più impegnata, più costante, quando, quando, quando è stato?

R. È stato nel periodo del liceo. Il ’25, ’28. Poi si è un poco allentata nel periodo universitario. Sono sempre stato praticante, ma, diciamo, praticante di domenica.

D. Ho capito. E questo anche successivamente?

R. Anche successivamente.

D. Cioè anche oggi.

R. Sì. Anche oggi.

D. Ho capito. Senza mai delle punte, diciamo, di pratica al di là del ritmo settimanale?

R. No, ecco [pausa], o quasi rarissimamente.

D. Ecco, dei suoi compagni delle scuole elementari ricorda qualcuno? Compagne anche.

R. No. Non ho avuto amicizie che mi siano rimaste…, rimaste ben ferme dopo, ricordo, sì, i nomi di qualcuno, ma non furono amicizie che rimasero ferme dalle scuole elementari.

D. Ecco, ma lei per esempio, nelle scuole elementari… si sentiva ed era un leader, oppure era un po’ un ragazzo che si accodava piuttosto agli altri?

R. Che si isolava.

D. Si isolava [pausa]. Quindi, diciamo, non era molto partecipe dei giochi degli altri e delle attività con gli altri?

R. No, no, anche perché ero negato a ginnastica, negato… e parecchio isolato. E poi appartenevo ad una famiglia, direi, appunto, che aveva un carattere, poi un suo carattere particolare, per quel che ho detto, ecco, di famiglia in decadenza. Mio padre aveva lasciato il servizio attivo poco dopo la prima guerra mondiale.

[pausa].

D. Quindi, diciamo, le occasioni di incontro con i ragazzi della sua età erano solo quelle della scuola?

R. Sì, solo quelle della scuola.

D. Oppure, qualche altra occasione quale poteva essere?

R. No, no, solo quelle della scuola.

D. E quindi, in pratica, passava da, da scuola a casa?

R. Da scuola a casa.

D. Non è che avevate dei cortili, non so, un oratorio?

R. No, niente, no. Scuola e casa, scuola casa.

D. E il tempo li…

R. Un tempo vissuto anche per, un tempo molto isolato.

D. E per il tempo libero?

R. Fantasticavo. Non avevo nessuna… Non praticavo nessuno sport, non praticavo.

D. Ma, per esempio, leggeva?

R. Leggevo, sì, sì.

D. Non andava al cinema? Non so, teatro, queste manifestazioni?

R. Sì, qualche volta.

D. Sempre con i suoi?

R. No, no.

D. Da solo?

R. Da solo.

D. Che cosa, che cosa le piaceva, cosa…?

R. [pausa]. Mah! Guardiamo… era l’epoca di, già, ecco, poeti che soprattutto mi colpirono erano D’Annunzio, Gozzano, del resto poeti dell’epoca, e poi un pochino la letteratura decadente.

D. Ma quindi, diciamo, le piaceva assistere a declamazioni poetiche?

R. No.

D. No. Allora, ecco, diciamo…

R. Leggevo.

D. Ah, leggeva. Ecco, ma, parlando di spettacoli, per esempio, lei aveva dei momenti in cui poi usciva per andare a cinema, a teatro?

R. Sì, qualche volta.

D. Ma, che tipo di pezzi le piacevano, che tipo di…?

R. Non ricordo.

D. Non ricorda, non ricorda i particolari [pausa]. Senta, e… da piccolo cosa pensava di fare, cosa immaginava, cosa progettava?

R. Vede, proprio per questo isolamento in cui mi trovavo, direi, ero così, un po’, direi, scardinato rispetto alla, alla vita corrente, ecco, e, e, e, tanto è vero che, in fondo, questa mancanza di iniziative, ecco, si ripercosse nel rimanere nella scuola anche dopo finito il periodo scolastico… e quindi fu per me, sotto certi rapporti, una decisione obbligata ad iscrivermi a Lettere e Filosofia [pausa]. Avevo, insomma, ero dominato proprio dalla, dalla situazione familiare, da una specie di paura della vita.

[pausa].

D. Perché la sua famiglia, diciamo, aveva sofferto abbastanza degli eventi?

R. Eh sì. Perché mio padre aveva avuto la sua famiglia distrutta e, e la famiglia di mia madre era una famiglia in decadenza, e quindi… una famiglia quindi… Sa, quando le famiglie sono in decadenza, è difficile potersi risollevare.

[pausa].

D. Ma, così, per quello che può ricordare… Come veniva un po’ presa questa situazione, cioè c’era rassegnazione? C’era desiderio di ripresa? A chi si attribuiva: era il fato? Era… volontà divina?

R. Un, un sogno di ripresa certo c’era. Ma, sogni che non avevano agganci poi con la realtà [pausa lunga]. Vi era stata una posizione così incerta, con sogni di ripresa, con sogni di ripresa, una, una specie di ostilità già allora per la realtà presente e, e d’altra parte una timidezza rispetto a questa realtà.

D. Ehm… Diciamo, questi caratteri l’hanno poi accompagnata nel corso della sua vita?

R. Sì, sì, sempre. Mi accompagnano ancora adesso.

[pausa]

D. Uhm… Alle elementari ha avuto sempre un solo insegnante oppure è cambiato negli anni?

R. No, ne ho avuti tre.

D. Ne ha avuti tre. Me li vuole un attimo così

R. Eh

D. Me li vuole un attimo ricordare?

R. Sa, la prima elementare la feci a Savona con una bravissima, cara insegnante. Non altrettanto potrei dire con simpatia per l’insegnante che ebbi poi in seconda e terza elementare. Nella quarta invece un signore più anziano quindi…

D. Quarta e quinta poi?

R. Quarta, quarta. Ho fatto solo fino alla quarta elementare.

D. Ah, ha fatto poi il salto della quinta, come…?

R. No, no, al massimo erano quattro gli anni.

D. Ah, erano quattro [pausa]. Ehm… Perché di quello della seconda e terza non ha un buon ricordo?

R. Mah! Non saprei, insomma, e… in fondo, questo carattere timido mio non le piaceva, ecco, e non mi… direi, piuttosto, era tesa un po’ a umiliare questo carattere, o almeno, sa, è difficile poter dire, poter dire, a distanza di tanti anni, sa, che dal ’17-’19, sa, riuscire a… tanto più che, diciamo, per me… è una specie di neutralizzazione della memoria. Non è che abbia molta memoria di anni che non furono molto felici, ecco.

D. Ecco. È importante quello che mi dice. Senta, ma lei a scuola naturalmente aveva un buon rendimento?

R. Beh, discreto.

D. E ciononostante, diciamo, questa insegnante…

R. Beh.

D. Non era molto tenera.

R. Beh, beh.

D. Nei suoi confronti.

R. Beh. Non è che avessi un gran rendimento nella seconda e terza elementare. In prima, sì, in prima mi… mi immedesimai con quell’insegnante e in qualche modo anche in quarta. Ma non, non… meno in seconda e in terza.

D. Ecco, perché, diciamo, quella della prima un po’ le riusciva maggiormente simpatica… riusciva meglio…?

R. Non so bene, era molto materna, ecco. Non so bene, non saprei adesso descrivere esattamente.

D. Ricorda qualche episodio particolare de…, della prima elementare?

R. No.

D. Niente. Qualche frase…?

R. Niente.

D. … dell’insegnante che…

R. Niente.

D. …sia rimasta impressa?

R. Niente.

D. E di quell’altra di seconda e terza?

R. Neppure.

D. Ecco, e questo di quarta, invece, aveva un po’ l’età dalla sua, insomma, no? Si present…, si presentava…

R. Eh, come un…

D. Come un vecchio sapiente.

R. Vecchio autorevole, sì, sì.

D. Sì, sì, sì.

[pausa].

D. C’era molta differenza di età fra lei e suo padre?

R. Sì. Mio padre era del ’64, quindi… e aveva quarantasei anni quando sono nato io, quasi quarantasei anni.

D. Quindi i suoi si sono sposati tardi?

R. Mia madre era, mia madre aveva, mia madre era del ’78, quindi aveva quattordici anni meno di mio padre.

D. Ma si erano conosciuti già da molto tempo, che lei sappia?

R. Non saprei, due o tre anni, credo.

D. Uhm, uhm.

R. Lì a Savona, mio padre era ufficiale a Savona [pausa]. Credo si siano conosciuti nel ’7 e si sono poi sposati nel ’9.

D. Suo padre e sua madre le parlavano un po’ di questo periodo del fidanzamento, della…

R. No.

D. …della loro vita presente prima della sua nascita?

R. No [pausa].

D. O le parlava…, sì?

R. Ho trovato poi le loro lettere… ma, dico, non ne parlavano affatto.

D. In queste lettere non ha trovato niente che l’abbia colpita, qualche…?

R. Erano le lettere solite dei fidanzati, insomma, non è che mi colpissero, o che mi abbiano colpito.

D. Ecco, ma la sua reazione quando ha trovato queste lettere…?

R. Beh, una reazione, che vuole?, affettuosa, ecco. Una reazione così, di tristezza, di ricordo del passato, ecco, ma non… [pausa]. Non è che fossero, oltre a questa tristezza e questo ricordo del passato, e a questo, questi affetti che naturalmente suscitavano posso dir altro, ecco.

D. Ma… leggendo queste lettere ha, per esempio, trovato qualcosa di nuovo, di diverso rispetto all’immagine che aveva di suo padre e sua madre?

R. [pausa]. Beh! Il carattere sentimentale di mio padre [pausa] che non supponevo.

[pausa].

D. Perché, lei come lo vedeva?

R. Ma lo vedevo come un tipo un po’ chiuso, ecco [pausa].

D. Mentre invece sembrava capace di una certa espansività?

R. Sì, nelle lettere, sì.

D. E da parte di sua madre, diciamo, nulla di nuovo?

R. Nulla di nuovo rispetto alle lettere, sì.

D. C’è qualche episodio particolare in queste lettere che lei…

R. No.

D. …rammenta, no?… Quando ha trovato queste lettere?

R. Sono una ventina d’anni fa.

D. Quindi, molto tempo dopo la loro morte?

R. Forse anche, anche più di vent’ anni, ecco, dopo la morte di mio padre.

[pausa].

D. Ha ereditato poi da suo padre e da sua madre lei direttamente?

R. Sì.

D. Diciamo… È un’eredità consistente o un…?

R. [pausa]. Un po’ ricavo, assieme ad una ca…, una casa di campagna.

D. Ma non avevano una casa propria a Torino?

R. Sì, un alloggio a Torino [pausa]. Però un piccolo alloggetto.

D. Cioè dove abitavano loro, in pratica?

R. Sì.

D. Ed erano un po’ praticamente al punto di partenza? Non erano riusciti ad acquisire altri beni?

R. No, no, tutto finito nei tarli… beni e cose della famiglia [pausa].

D. Non è che abbiano lasciato parte di questi beni per opere di beneficenza?

R. No.

D. No. Direttamente a lei tutto?

R. [silenzio].

D. Sia suo padre, sia sua madre hanno poi lasciato dei testamenti?

R. No.

D. No. Quindi è andato tutto per via legittima…?

R. Per via legittima.

D. …per così dire, senza… [pausa]. E suo padre e sua madre sono sepolti a Torino?

R. Sì.

D. Ehm, lei mi pare che in vacanza, poi, dove va? Non so, va su a Torino? Va…?

R. Savigliano.

D. Sì, dove c’è l’officina delle Ferrovie.

R. Sì, dove, dove ho questa casa.

[interruzione dovuta alla fine del lato A del nastro].

D. Dunque, mi stava dicendo che va a Savigliano, dove ha una casa, che è sua, non ereditata da…?

R. Ereditata, ereditata.

D. Che è questa casa di campagna di cui parlava prima?

R. Sì.

D. E ha questo terreno lì vicino?

R. Sì.

[pausa].

D. Dove in pratica lei andava anche con i suoi genitori?

R. Sì, sì, sì. Era allora molto triste perché mi trovavo completamente isolato, era, era una casa a 8 km dal paese e io [incomprensibile]. Allora non c’era luce elettrica, non c’era… acqua potabile, ecco.

D. Il terreno intorno che estensione ha più o meno?

R. Il terreno intorno sarà adesso… sono sessanta giornate… quindi, se andavi, corrispondono… dovrei fare il calcolo preciso degli ettari perché non…

D. Sì, certo.

R. … sarà 25 ettari.

D. Venticinque ettari. Che sono coltivabili tuttora?

R. Coltivabili, coltivabili.

D. A che cosa?

R. Eh… In gran parte, direi, ehm… mucche, bestiame, ecco, bestiame e parte a grano ma, ma sempre più interessa bestiame che grano.

D. Quindi, voi avrete dei contadini lì?

R. Contadini, sì, ma praticamente, praticamente, insomma, lei sa, cosa sono i fitti agrari adesso, insomma, non varrebbe nulla, ecco. Rende moltissimo ai contadini perché sono terre eccezionalmente buone, ma a noi non rende quasi nulla…

D. Ho capito. E la casa, invece, è, è abbastanza grande?

R. Sì, dodici stanze.

D. Ah ecco.

R. Dodici grandi stanze.

D. Che sono sempre riservate a voi per questo periodo…

R. Sì, sì, sì.

D. … delle vacanze? Lei preferibilmente ci va d’estate, naturalmente?

R. Sì, sì, vado d’estate.

D. È vero che…, si trattiene abbastanza a lungo, insomma, non è solo un mese?

R. Sì, sì, sì, no, no, perché mia moglie, poi soprattutto mio figlio[5], non è che mio figlio possa sempre, veramente, non ci può venire che di rado, perché va alla televisione, ma, ma sono innamorati proprio della casa e del giardino.

D. Quindi una casa, diciamo, ben tenuta?

R. Sì, sì. Eh. Per carità. Si può dire che mio figlio soprattutto cresce… Spendiamo tutto quel che abbiamo per, per farla finire. Naturalmente ha bisogno di continue riparazioni, come casa del ’700.

D. Ecco, quindi con suo padre e sua madre lei andava in questa casa di campagna. Ma andavate abbastanza spesso?

R. Anche mia zia. Sì, per l’estate.

D. Vi trattenevate a lungo?

R. Sì, sì, tutta l’estate.

D. Quindi tre, anche quattro mesi?

R. Due, tre mesi.

D. E costituivano un po’ una parentesi felice o…?

R. Mah! Per me triste, per me piuttosto triste, ecco, perché mi trovavo lì solo, in fondo, un luogo senza… Il periodo più felice era quello delle scuole, insomma, in cui almeno ritrovavo i miei compagni, ecco.

[pausa].

D. Ecco, quello che noto è che, mentre… mi pare… soffrire di questa solitudine, tant’è che mi dice in questo momento: cercavo dei compagni, in altri momenti, invece, mi è parso che lei fosse un po’ soddisfatto di questo vivere un po’ isolato.

R. No, non ero affatto soddisfatto, ero costretto all’isolamento.

D. Ecco, che è diverso indubbiamente.

R. Costretto all’isolamento per tante ragioni. Il carattere un po’ della mia famiglia, come dico, una famiglia quindi in decadenza, ecco, e che quindi non fosse… Quindi, non mi trovavo completamente a mio agio, ecco, con dei compagni che, invece, erano di famiglia in avanzato, o comunque, insomma, in accordo con i tempi.

[pausa].

D. Voi avete anche una tomba di famiglia, avete?

R. Sì.

D. A Savigliano o a…?

R. A Torino.

D. A Torino. Lei la visita poi, di solito?

R. Eh… Un po’ di rado.

D. Di rado.

R. Piuttosto di rado.

D. Cioè, neppure per novembre, per esempio?

R. Sa, sono stanco. Non vado, quindi, sarebbe molto triste per me.

D. Certo. Ma è una tomba solo dei suoi genitori oppure di una famiglia più estesa?

R. Della famiglia.

D. Quindi, della famiglia più estesa, diciamo?

R. Più estesa.

D. È quindi una tomba, diciamo, con molti loculi…?

R. Nonni, zii. Sì, sì, sì.

[pausa].

D. E questa casa di Savigliano praticamente è arredata così come lo era ai tempi…

R. Sì.

D. …della sua infanzia, insomma, sostanzialmente?

R. Sì, sì.

D. Ha mantenuto questo carattere?

R. Sì, sì.

D. E invece, la casa di Torino, dei, dei suoi?

R. Ah, casa di Torino dei miei è adesso… [sorride], questa casa, che non è un alloggio, era discreto ai tempi in cui è stato acquistato, nel 1929, ma adesso è un alloggio molto vecchio, ecco. Praticamente lo abbiamo ceduto, è sempre nostro, ma lo abbiamo ceduto alla, alla… a una che era nostra donna di servizio, ma non era che era poi membro, membro della famiglia, eccetera, adesso è diventata, si è sposata e sta lì con, lei e suo marito, ecco.

D. Quindi è in fitto, diciamo?

R. No, non è fitto, non paga l’affitto.

D. Quindi…

R. Non pagano l’affitto. Loro vengono ad aiutarci nei mesi che siamo a Savigliano.

D. Quindi c’è uno scambio di questo genere?

R. Sì, sì.

D. Ho capito. Mi ha detto: acquistata nel ’29. Perché, prima dove, dove eravate?

R. Sempre a Torino e in un’altra casa, su affitto.

D. Ah, ecco, in casa d’affitto. Perché i suoi, quando si sono sposati, non avevano una casa propria?

R. No, no. Io, del resto, anche qua siamo in casa di affitto.

D. E non avevano neppure quella di Savigliano, allora… quando si sono sposati i suoi?

R. No, ma l’hanno avuta poi subito dopo. Però, l’hanno avuta con partecipazione coi fratelli e con, con le sorelle di mia mamma che non erano sposate.

D. Anche il terreno?

R. Anche il terreno.

D. Quindi, diciamo, quando sono partiti praticamente non avevano quasi nulla?

R. Beh! Quando sono partiti avevano, avevano… Quando proprio si sono sposati…

D. Ecco, infatti.

D. C’era lo stipendio di mio padre, poi la dote di mia madre… una dote abbastanza buona perché lei era figlia di un… commerciante abbastanza prospero di Savona.

D. Un commerciante in che cosa?

R. In carbone.

D. In carbone.

[pausa].

D. Ma avevate anche una donna in casa fin dagli inizi, fin da quando si sono sposati i suoi?

R. Sì, sì, sempre avuta.

D. Una donna con il marito…?

R. No.

D. No. Poi si è sposata questa donna?

R. No, questa donna che…, che è quella donna di cui parlavo, è una donna che, che abbiamo avuto io e mia moglie.

D. Ah ecco.

R. No. Cioè una vecchia donna che rimase con noi, che rimase con la mia famiglia non so quanti anni: più di quarant’anni, morì nel ’42. Nel ’42, ’43.

D. Quindi avevate una donna che…

R. ‘44

D. …che era con voi in famiglia?

R. Sì, sì.

D. Sin da quando i suoi si sono sposati avevano questa donna?

R. No. Quella, però stava con la mia zia.

D. Poi è passata da voi?

R. No, no. È sempre stata con mia zia. Però, lei, negli anni, nel periodo estivo, mia zia stava con mia mamma e quindi…

D. Avevate questa donna…

R. Sì, sì, sì.

D. … che un po’ accudiva? Allora in pratica la sua zia non ha mai avuto una donna che aiutasse in casa?

R. Sì, aveva sempre avuto… ha sempre cambiato anche, anche varie donne, ecco.

D. Ma non ce ne è stata una che sia rimasta per un periodo più lungo?

R. No. Tre, quattro anni. Non di più.

D. Non di più.

R. E poi si sposavano.

D. E quindi andavano via. Lei non ricorda nessuna di queste donne in particolare?

R. Le ricordo, ma non è che…

D. Ecco, soprattutto nel periodo dell’infanzia?

R. Sì, sì, ricordo, ricordo. Una donna, sì. Ma non capisco, scusi, il senso di queste domande, ecco [sorride].

D. No.

R. Sono domande…

D. Ricostruiamo un po’, momento per momento, tutte le varie fasi dell’esistenza. Non so se ha colto. Noi ci sentiamo, per quanto… Mi rendo conto che è il momento più difficile perché si va più indietro nel tempo. Magari, a mano a mano che ci si avvicina all’oggi, è chiaro che poi il discorso diventa più accessibile.

R. Son cose che non hanno poi rapporto con la… con quella che può essere stata la mia vita di, diciamo, di intellettuale, così.

[pausa].

D. Suo padre era interessato al fatto culturale?

R. No.

D. Non leggeva, non…?

R. Scarsamente.

D. E sua madre?

R. Sì, leggeva, ma leggeva romanzi, ecco.

D. I giornali in casa sua non…?

R. Sì, i giornali… consueti: La Stampa di Torino.

D. Si comprava tutti i giorni oppure…?

R. Tutti i giorni.

D. Ecco.

R. Anzi, io ero molto lettore dei giornali.

D. Sì, sin da piccolo?

R. Sin da piccolo.

D. Cioè anche quando era alle elementari già cominciava a leggere?

R. Sì, a leggere i giornali.

D. E quali pagine di giornale in particolare leggeva?

R. Mah! Già allora le, le pagine politiche.

D. Pagine politiche. Ricorda qualche giornalista in particolare che… può averla…?

R. Mah! Bisogna risalire molto, molto più avanti, verso il ’25-’28, ecco, non so, Concetto Pettinato[6], tra i giornalisti di quell’epoca.

D. Era l’epoca di Frassati[7], se non sbaglio?

R. Frassati. No, Frassati… Frassati aveva lasciato dopo il fascismo.

D. Aveva lasciato.

[pausa].

D. Quale è stato il primo libro che ha letto in senso assoluto?

R. Non lo so.

D. Non se lo ricorda?

R. Forse Robinson Crusoe.

D. Ah, ah. E le piacque?

R. Sì. Ricordo che Robinson Crusoe mi piacque molto, meno Cuore, di De Amicis, meno.

D. Meno, nonostante l’ambiente torinese?

R. Mi piacque molto meno. Ho un ricordo vago di Pinocchio, che… non riuscii probabilmente a capire allora.

D. Perché non le piaceva Cuore?

R. [pausa]. Non so, adesso… non vorrei, non è che non mi piacesse, mi piaceva molto meno di Robinson Crusoe, ecco, ecco. Poi, naturalmente, come tutti i bambini, i libri di Sàlgari, Salgàri… sì, di Salgàri, avevano un grande fascino. Già allora più Salgàri di Verne, sebbene anche Verne mi piacesse [pausa]. Ricordo, nove anni in poi… fra i nove e i quattordici anni, nove, tredici, quattordici anni Salgàri, ecco. Salgàri è un autore che ha fatto, direi, conoscere Dante; interessa ai ragazzi dai nove ai quattordici anni e poi sparisce… quattordici-quindici anni… poi sparisce.

D. Lei poi fantasticava su queste storie?

R. Eh sì, questo sì.

D. Cioè, fantasticava a tavolino oppure, non so… inventava delle azioni, si muoveva?

R. [sorride]. Beh! Inventavo, ma cose praticamente non… non portavano a nessuna azione, ecco.

D. Cioè non è che per esempio indossava qualche abito…

R. No.

D. …qualche pezzo di legno che poteva… somigliare ad una spada o ad un…?

R. Beh! [sorride]. Qualche pezzo di legno, sì, pezzo di legno.

D. Non so, avevate una terrazza, un giardino a casa?

R. No.

D. Quindi, sempre dentro?

R. Sempre dentro.

D. A casa sua ascoltavano anche la radio?

R. Sì… ma negli anni però intorno al ’30, ecco.

D. Prima no, non l’avevate?

R. Ma forse era anche carina, ma non l’ascoltavamo molto.

D. Il grammofono si usava?

R. No.

[pausa].

D. Si davano mai feste a casa sua?

R. No.

D. Niente. E… per, non so, per il compleanno, per un onomastico, per…?

R. Si metteva una torta.

D. Solo voi della, cioè voi tre, quattro della famiglia?

R. Sì, sì.

D. Non venivano altri parenti?

R. No, no. Tre, quattro… No, no. Una famiglia molto schiva, molto solitaria.

D. E nelle grandi ricorrenze eravate sempre in pochi?

R. Sì.

D. Quindi Natale, Pasqua?

R. Eh beh! Venivano, appunto, i parenti di mia moglie, proprio i parenti stretti di mia madre, ecco, appunto, la sorella, i fratelli.

D. Per carnevale, per esempio, non c’erano feste?

R. No, no. Niente, niente. No, no, no. Sa, ho avuto un’adolescenza molto chiusa, triste [pausa]. E con un senso di inferiorità a quei tempi… di non riuscire a far nulla… anche perché fisicamente ero piuttosto delicato, e poi inadatto alla vita ginnastica e sportiva.

D. Quando erano le grandi feste, non so, per esempio, si andava, no, per la messa, no? Quindi andava sua madre solo, con lei? Suo padre non veniva. Come, ecco, cosa succedeva in quei momenti? Non dico tutte le domeniche, perché ovviamente devo pensare che forse suo padre non venisse a messa, però, ecco, alla Pasqua e al Natale…?

R. Non mi pare venisse.

D. No.

R. Non mi pare.

D. Restava a casa. Ma suo padre anche… era piuttosto solitario, viveva per conto suo o aveva degli amici, non so, un circolo?

R. Lui passava molta parte della giornata in un caffè di Torino con amici. Era già in pensione, insomma, avrà lasciato il servizio dopo la prima guerra mondiale.

D. Era rimasto ferito?

R. Ferito[8].

D. Quindi, andava presso questo caffè… stava con gli amici… che erano più o meno anche ex ufficiali?

R. Sì, probabilmente ex ufficiali… o ufficiali ancora in servizio o ex ufficiali.

D. Ma questi non venivano mai a casa?

R. No, mai.

D. Proprio.

R. Che mi ricordi non son mai venuti.

D. E sua madre aveva delle conoscenze, delle amicizie che frequentavano casa vostra?

R. Scarse. Qualcuna sì, ma non molte.

D. Eravate in una specie di condominio oppure la vostra casa era un…?

R. Era un condominio.

D. Era un condominio. Ecco, e all’interno del palazzo, per esempio, vi erano scambi?

R. No.

D. Quindi, nessuna famiglia in particolare trattavate?

R. No, no, no. Erano ancora conoscenze savonesi, ecco, conoscenze di veranda… di, di signore savonesi trasferite a Torino.

D. Che abitavano nello stesso palazzo, no?

R. No.

D. Fuori. Ecco, e in quello stesso palazzo lei non aveva amici o amiche con cui…?

R. No.

D. Niente. Però c’erano altri ragazzi indubbiamente?

R. No, no.

D. No.

R. No, no.

D. Quindi erano famiglie anziane in genere?

R. Famiglie anziane in genere.

D. Ecco.

[pausa lunga].

D. Lei alle elementari, mi ha detto che aveva un rendimento…?

R. Discreto.

D. Discreto, insomma. Non è che eccellesse in qualche materia particolare?

R. No.

D. No. Quindi andava bene sia in lettere che in matematica?

R. Alle elementari, sì.

D. Sì. E alla media, poi, alle scuole…?

R. Alla media poi… E soprattutto al liceo, invece, avevo scordato la matematica, per la fisica, per le scienze in generale.

D. Ho capito.

R. Mentre riuscivo bene nelle materie letterarie.

D. Alle medie ha avuto sempre un medesimo insegnante di lettere?

R. No, alle medie ho avuto, ho avuto due insegnanti, uno dei quali era poi diventato celebre, il latinista Rostagni[9], al secondo e terzo ginnasio.

[pausa].

D. E l’altro, invece?

R. Il primo era un prete.

D. Ah ecco.

R. Un bravo, bravo insegnante, bravo insegnante. Direi che… questo prete mi ha proprio tolto da un certo scoramento, ecco, e… E se avessi trovato un insegnante che avesse scoraggiato, non so cosa sarebbe successo, perché… proprio in relazione a questa situazione familiare, ecco, io direi al primo successo mi scoraggiavo.

D. Al primo successo?

R. Insuccesso.

D. Ah, insuccesso.

R. … insuccesso mi scoraggiavo completamente, il primo insuccesso. Ero praticamente negato. Quindi avevo questa scarsa tenacia… nel lavoro; è quella che mi ha accompagnato poi purtroppo tutta la vita. In fondo, questa mia vita, direi soprattutto trentacinque anni, ecco… soprattutto… cioè avrei potuto fare… [sospira] molto, molto di più, ecco. Eh! In realtà, ecco, sempre questa timidezza, situazione di scoraggiamento… e quindi… certe giornate vuote, ecco, proprio… preso da questo scoraggiamento.

D. Ecco, ma gli insuccessi di quella età erano soprattutto insuccessi nello studio?

R. No, ma insuccessi veri nello studio non li ho avuti. È, appunto, quello che ha permesso di… Mi sarei scoraggiato se ci fossero stati insuccessi nello studio.

D. E allora quali insuccessi?

R. Insuccessi nella struttura didattica.

D. Ah, ecco [pausa]. E invece questo sacerdote un po’ l’ha tirata su, ecco?

R. Mah! Mi ha tirato… in senso… cioè… nel latino riuscivo… e in questo senso mi ha un po’ galvanizzato.

D. Esatto. Questo sacerdote insegnava Lettere, in pratica?

R. Sì, sì.

D. … e quindi italiano e storia, eccetera?

R. Geografia.

D. Sì. E questo sacerdote era anche un pastore d’anime oppure era…?

R. No, non… Credo fosse, anzi, un ex salesiano uscito dall’or…, anzi era un ex salesiano uscito dall’ordine, dall’ordine salesiano restando prete.

D. Ah ecco. Quindi secolarizzato, diciamo?

R. No, secolarizzato, insomma… non so bene. È difficile, quando, quando è stato che l’ho conosciuto, io avevo dieci anni.

D. Però vestiva ancora da prete?

R. No, no, era prete, era prete. Era senz’altro prete, ma sì, sa, è difficile riuscire, a dieci anni, riuscire, a dieci anni, a capire se…

D. Sì, sì.

R. Però, così, l’aria non me l’aveva di un prete diciamo proprio apostolico, ecco.

D. Ma con questo sacerdote, diciamo, lei si incontrava anche al di fuori dell’orario scolastico?

R. No, no.

D. Diciamo, questo rapporto aveva luogo solo all’interno del momento didattico?

R. Solamente all’interno del momento didattico, nulla di più.

D. Quindi, aveva una predilezione per lei?

R. No, no. Nessuna predilezione: ero dei migliori allievi, ecco.

D. Quindi, si sentiva trattato bene da costui?

R. Sì, mi incontravo, ecco [pausa]. Questo in prima ginnasiale, devo risalire agli anni ’20-’21.

D. Ecco, ma la scuola, sempre riguardando un po’ questi anni della fanciullezza, insomma, delle elementari, della scuola media, eccetera, non avevate anche dei momenti particolari, non so, delle feste, delle premiazioni, delle gare, nulla di…?

R. No, no. A quell’epoca…

D. Proprio una vita… senza… mutamenti particolari?

R. Una regolarità scolastica senza mutamenti.

D. Non ricorda mai di, di aver marinato scuola, no?

R. No.

D. No, no. Episodi di un certo interesse che, che ancora ricorda delle elementari, della media, no?

R. No.

[pausa].

D. Ecco, poi ha avuto questo grosso studioso, no?

R. Sì… due anni. Bene… Ma… allora si occupava essenzialmente di farsi i titoli per la carriera, ecco [sorride]. Non è che potesse… Era sprecato proprio in un ginnasio inferiore, grande studioso Augusto Rostagni. Ne ho un ricordo eccellente… ma non è che lui proprio si prodigasse per la scuola. Faceva bene, faceva tutto, tutto ordinatamente, tutto bene, ma, insomma, la sua vita reale era al di fuori… Era naturale. E poi l’ho avuto ancora professore all’università.

D. Lì a Torino?

[pausa].

R. A Torino, sì.

D: Si ricordava di lei poi quando l’ha rivisto?

R. Sì, altro che!

D. Sì.

R. Niente, voleva che diventassi, in realtà non, io feci un errore da parte mia, che diventassi suo allievo, poi all’università, e invece, ho fatto male a dedicarmi a filosofia… anziché alla filologia classica… Non avrei potuto, filologia classica, fare… anche… è una carriera molto più calma, molto più senza, direi, quelle crisi nervose, a livello soggetti studiosi di filosofia.

D. Quindi ha un rimpianto per la filologia classica?

R. Eh, un rimpianto per filologia classica, e soprattutto poi per la storia medievale dove avevo trovato un altro professore che voleva assolutamente che studiassi storia medievale.

D. Chi era?

R. Giorgio Falco[10]. Grande medievalista.

D. Ma c’era qualche sezione particolare della storia medievale che… le poteva interessare?

R. No, non è che… Mi sarei dedicato a questa disciplina, ecco. Invece… rimasi, non so perché, in filosofia… Bah, lasciamo stare.

D. Quindi, rimpiange di più la filologia classica o di più la storia medievale?

R. E non saprei, perché non avendo scelto, non avendo… non essendomi dedicato né all’una, né all’altra… Credo, però, di rimpiangere più la storia medievale perché, direi, questo, con, con questo prof…, questo Falco m’avrebbe, questo Falco era un po’ più quadrato, in particolare.

D. Ho capito. Va bene, mi pare che… questo primo incontro sia stato…

R. Sì, io, io non riesco. Le confesso di non riuscire a capire, ecco… Io ero…

D. Beh, però…

R. Se lo sapevo, se lo sapevo mi sarei preparato bene.

D. No, ma…

R. Riandando, riandando un pochino…

D. Tanto avremo modo… Non finisce qui.

R. Questo periodo, questo periodo, così, della mia… della mia infanzia, della mia… della mia biografia, che, però, è un periodo in qualche modo rimosso e…

D. Sì, me ne sono accorto abbastanza. Però, ecco, mi pare che è emerso qualcosa di interessante su alcuni caratteri che poi sono rimasti.

R. Se, se avessi sa… [il lato B dell’audiocassetta si interrompe bruscamente a questo punto della conversazione].

Fuori registrazione, al termine dell’intervista:

R. Ho perso 35 anni. La mia non è stata una vita fortunata. Che cosa ho concluso?


[1] Augusto Del Noce è nato il 10 agosto del 1910 a Pistoia ed è morto il 30 dicembre 1989 a Roma. Nell’anno successivo alla sua nascita, la madre si trasferisce con il figlio a Savona e, nel 1915, allo scoppio della guerra mondiale, a Torino, presso una zia materna (si veda Nota biografica e al testo, in A. Del Noce, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, a cura di Alberto Mina, Introduzione di Giuseppe Riconda, Rizzoli, Milano, 2007). Ha frequentato il ginnasio inferiore e successivamente il Liceo Massimo D’Azeglio, nella stessa classe di Leone Ginzburg. La sezione B era frequentata, tra gli altri, da Vittorio Foa, Norberto Bobbio, Cesare Pavese, Felice Balbo e Giulio Einaudi. Nel 1928 si è iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia nell’Università di Torino, di cui facevano parte, nel corpo docente, Giorgio Falco, Umberto Segre e Adolfo Faggi, al quale richiede una tesi di laurea su Malebranche, discussa il 12 dicembre 1932. Altre notizie sulla sua biografia sono rinvenibili in Paolo Armellini, Le avventure della modernità in Augusto Del Noce, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2017, pp. 173 e sgg.

[2] Ubaldo Del Noce, nato a Messina, il 14 ottobre 1864 (Ruolo degli ufficiali generali del Regio Esercito, Ministero della Guerra, Gabinetto Uffici generali, Tipolitografia del Comando del corpo di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, 1934-35, p. 73), era Maggiore nel Regio esercito, Brigata Torino sul fronte dolomitico, 81o Reggimento di Fanteria di linea, I Battaglione (dal 24 maggio al 15 luglio 1915). Nel 1902, a Bari, riceve una medaglia di bronzo al valore militare per aver salvato tre militari dalla folla inferocita; e, nel 1916, si guadagna una Medaglia al valore militare sul monte Cimone (si vedano: https://www.frontedolomitico.it/Uomini/protagonisti/DelNoceUbaldo.htmlhttps://www.frontedolomitico.it/Uomini/truppe/torino.html)

[3] La madre di Augusto Del Noce è Rosalia Pratis, savonese, discendente da una nobile famiglia savoiarda (Paolo Armellini, Le avventure della modernità in Augusto Del Noce, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2017, p. 173).

[4] Federazione Universitaria Cattolica Italiana, fondata nel 1896.

[5] Fabrizio Del Noce (1948-), giornalista, deputato di Forza Italia e direttore di RAI 1.

[6] Concetto Pettinato (1886-1975), giornalista, inviato de La Stampa, di cui è stato anche direttore dal 1943 e durante il periodo della Repubblica di Salò (fu però anche critico di Mussolini e del fascismo, per cui venne deposto). Fu poi condannato a 14 anni di carcere per collaborazionismo. Dal 1957 cominciò a scrivere sul quotidiano Il Tempo.

[7] Alfredo Frassati è stato dapprima comproprietario del giornale piemontese, con Luigi Roux, e poi direttore dal 1900 al 1926. Fu lui a modificare il nome del quotidiano da La Gazzetta Piemontese a La Stampa l’anno successivo all’assunzione della co-direzione, ossia nel 1895.

[8] Il ferimento del padre di Augusto Del Noce potrebbe essere avvenuto a Alto Cordevole (Val Cadore), dove le truppe del Regio Esercito sono state di stanza tra il 24 maggio e il 31 dicembre 2015, durante la guerra italo-austriaca. Si veda in proposito la tabella che riporta il numero delle perdite e dei feriti al presente link: https://www.frontedolomitico.it/Uomini/truppe/torino.html. Ubaldo Del Noce dovrebbe trovarsi tra i cinque ufficiali dell’81o Reggimento rimasti feriti quell’anno. Per approfondimenti si veda pure Massimo Coltrinari, Giancarlo Ramaccia, Dizionario minimo della Grande Guerra. 1915. L’anno di passione. Dalla neutralità all’intervento, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2018. Inoltre, gli stralci provenienti dal fronte sono raccolti, in parte, nella pagina web: https://www.frontedolomitico.it/Storia/bollettini/boll_ita_1915.html.

[9] Augusto Rostagni (1892-1961), filologo classico, autore di una ben nota Storia della letteratura latina, docente nell’Università di Torino a partire dal 1928, dopo aver insegnato a Cagliari, Padova e Bologna. 

[10] Giorgio Falco (1888-1966), docente di Storia moderna nell’Università di Torino dal 1930 e dal 1933 di Storia medievale.

Intervista a Tullio Vinay (14 febbraio 1983)

Ore 17-18,15: partecipano Roberto Cipriani e Consuelo Corradi. Tullio Vinay ci riceve negli uffici occupati dal gruppo Indipendenti di Sinistra nel Senato della Repubblica. Saluta in modo molto cordiale e ci fa sedere nella sala riunioni; è Vinay stesso a iniziare spontaneamente la conversazione, precisando che non si considera un intellettuale, ma piuttosto un uomo che “ha il fiuto dell’esistenza”. II registratore viene acceso quasi subito.

Risposta. Di corsa. Io sono credente, penso che Dio m’ha fatto correre, non m’ha fatto [ride] [incomprensibile]. Adesso che riduco il mio lavoro, perché ho lavorato sempre dalle sei di mattina a mezzanotte, adesso che riduco il mio lavoro mi trovo in un periodo ancora più difficile, perché arrivato alle sei di sera sono stanco, sei, sette, e non ho più forza di leggere, quindi sono in un periodo di imbarbarimento [incomprensibile]. In più metta che nel ’79 io mi sono ammalato fortemente, tant’è vero che i medici non davano speranza che mi salvassi e mi ha lasciato come conseguenza la perdita della memoria. Ed io, se io parlavo sempre senza, senza scrivere, [incomprensibile] può essere benissimo che un giorno non mi venga in mente, parlando, come si chiama il segretario generale del Partito Comunista, o di quello, o di quello democristiano: mi manca il nome di Berlinguer, mi manca il nome di, di De Mita, mi manca il nome. O anche di una parola devo cercare la circonlocuzione, devo cercare il sinonimo, eh insomma. Quindi proprio, mettermi, mettermi l’abito dell’intellettuale sarebbe come mettermi addosso quel pigiama giallo canarino che dopo la guerra mi regalarono gli americani, che dovevo spengere la luce prima di mettermelo [ride]. Allora, uomo di cultura è diverso, uomo di cultura è, è chi ha il fiuto dell’esistenza. Un po’ l’ho avuto anche io, non lo nego, ehm. Creatività, e un po’ l’ho avuta anche io, basta vedere il curriculum della mia esistenza. Ma non intellettuale, perché possono esserci intellettuali non uomini di cultura, possono esserci uomini di cultura non intellettuali, come dicevo di questi analfabeti di inglesi che io ascoltavo volentieri. Cioè il senso della vita. Pensi le do, le racconto un episodio. Forse io son troppo chiacchierone, ma le racconto un episodio. Uno del nostro gruppo andò una volta a lavorare per stare insieme col contadino che tagliava le fave e si mise a tagliare le fave. A un certo momento il contadino disse: “guardi non tagli quel gruppo di fave, perché ci son delle uova, se no l’uccello non viene più a covarle”. Quanti intellettuali avrebbero fatto questo ragionamento? Un analfabeta lo ha fatto. Il senso della vita, no? Nelle risposte alle sue domande tenga, tenga presente questa premessa.

Domanda. Per me va benissimo.

R. Non mi mettete fra gli intellettuali.

D. [voci sovrapposte] No.

R. Se mi hanno dato due lauree honoris causa, me le han date per conoscenza della mia situazione, perché [ride] me le han date come praticone, non come professore, ehm, sia a Praga sia a Montpellier. E tutt’e due mi conoscevano come sono. E lo stesso può essere detto per gli altri titoli o decorazioni. [incomprensibile] Cioè vorrei dire, ecco, prendetemi come un pover’uomo che ha cercato di vivere serenamente, tutto lì [pausa]. Deluso? Non ho niente a che fare con [incomprensibile].

D. Allora, vogliamo cominciare un po’ a parlare della sua vita? Dove nasce.

R. Beh, io sono…

D. Da quale famiglia?

R. Io sono di padre valdese, cioè delle valli. Quindi la prima generazione non contadina, perché mio padre era insegnante e mio nonno era contadino, ma quei contadini, no?, colti, perché lì alle valli valdesi c’era un sistema di istruzione che è stato distrutto dal fascismo, perché il fascismo, come molti regimi, hanno la malattia del letto di Procuste, farli tutti uguali. E lì nelle alte montagne non si può avere maestre diplomate in tutti i villaggi, perché nel ver…, nel villaggio molto alto dove c’è un metro, due metri di neve, il bambino non può fare lunga strada per andare alla scuola. E allora c’erano quelle cosiddette università delle capre, dove l’anziano del villaggio faceva le due prime classi. Quando erano questi grandini andavano nel villaggio principale. Poi quando erano più grandi ancora andavano in fondo valle, alla cosiddetta scuola latina, che era praticamente le prime tre classi del ginnasio, dove i contadini imparavano anche il latino, perché anche mio nonno contadino sapeva il latino. E c’era una preparazione molto più alta di quando hanno voluto mettere i maestri diplomati, perché non possono mettere un maestro diplomato per due o tre alunni. E qui la conoscenza, l’istruzione, ebbe un ribasso. Dunque mio nonno era uno di questi, mio padre era insegnante, mia madre era pisana. E io son nato a La Spezia per la semplice ragione che mia nonna abitava a La Spezia, mia nonna materna abitava a La Spezia e mia madre andava a partorire da lei, ma io a La Spezia non ci sono mai stato, tranne che per nascere. Poi son stato, quindi, quattordici anni a Trieste, di quattordici anni, nove, diciotto, otto, nove anni sono venuto dall’austro-ungarico, che era serio nell’istruzione. Feci il ginnasio e poi parte del liceo al, al Petrarca, che era una scuola molto seria. Poi dopo ci siamo trasferiti a Torre Pellice, dove io ho fatto la quinta ginnasio e il liceo. Dopo sono andato, venuto a Roma per la Facoltà di teologia, quattro anni, e poi un anno a Edimburgo in Scozia, all’Università teologica di Edimburgo. Poi ho cominciato il mio lavoro pastorale. La prima Chiesa che ho avuto è stata Milano, cioè non la prima Chiesa che ho, io ero come coadiutore del pastore di Milano. E la mia prima Chiesa è stata Firenze, contro la mia volontà perché io avrei voluto andar nel Sud fra il basso proletariato del Mezzogiorno, ma allora l’amministrazione della Chiesa volle che stessi lì, e lì ho passato quattordici anni, fra cui gli anni della guerra, dove quello che ha lasciato forte impronta su me è stata la sofferenza durante la guerra su due cose. Una è sulla persecuzione degli ebrei, che ne ho salvati, adesso chi se lo ricorda?, quarant’anni fa, se quaranta o cinquanta o sessanta. Mi hanno dato recentemente, l’anno scorso, forse l’ha saputo, la medaglia per aver salvato tanta gente. Ora lei sa che la medaglia è una cattiva ironia. Ed era la medaglia dei giusti. Ora, lei sa che noi protestanti non troviamo più nessuno giusto, tranne i farisei. Ad ogni modo, l’ho presa per non fare dispiacere a, alla gente che mi ha amato. Ma ho preso posizione netta contro il governo Begin. Questo lo sa, forse. L’altra cosa che mi ha lasciato un’impronta sono i bombardamenti, perché la gente in quella condizione è tremenda. Allora la mia tattica era questa: quando cominciava un bombardamento tutti sanno che un bom…, un bombardamento dura cinque, quindici minuti, non più, quindi io non andavo nei rifugi ma m’incamminavo verso la zona bombardata, per poter essere dentro appena finito il bombardamento e poter soccorrere la gente. Però questa situazione di sofferenza ha lasciato un’impronta così profonda che se prima della guerra io avrei potuto di…, dire di essere un integralista protestante, dopo l’integralismo, dogmatismo, tutto è finito: c’è solo vita e esistenza degli uomini. Ed è lì che è nata l’idea del centro di Agape, il quale centro, Agape dice già il concetto. Lei conosce il termine Agape? Amore per gli altri, non per sé e neanche per Dio, perché, dice Giovanni, l’Agape non è che noi abbiamo amato Dio, ma che Dio ha amato noi. E, e questo centro nella mia visione era un centro di riconciliazione prima di tutto fra i popoli, tant’è vero che [incomprensibile] è stato costruito a Prali, a 1600 metri, dove i villaggi erano stati bruciati dai tedeschi perché c’era guerra partigiana. Ora era importante dopo la guerra la riconciliazione, far venire i tedeschi anche lì. Questa è stata una grossa avventura, avventura perché ho incominciato a costruire senza denaro [incomprensibile] e attraverso le critiche di tutti. Anzi una delle critiche era questa: “un centro internazionale lo fate in alta montagna dove non c’è neanche la strada”. Il mio ragionamento era diverso. Se è vivo, verranno a cercarci, se non è vivente neanche a Milano sarà frequentato. Ora a trentasei anni dalla fondazione, a trentuno dall’inaugurazione, è sempre stato pieno e continua a vivere questo centro. La difficoltà poi era anche dell’ambiente tutto contrario, perché le critiche son facili, ma il ragionamento può essere diverso dalle critiche. Le critiche erano queste: “come? Volontari costruire un progetto così grande?”, perché il progetto era dell’architetto Ricci; secondo, costruirlo prima di far la strada e senza un’impresa. Ora il mio ragionamento era diverso: o qui sfondo nell’opinione europea come mio minimo, a livello mondiale poi, o non vado avanti senza quattrini. Allora, se io consumavo le forze di quei venti, trenta lavoratori, nella prima estate, a costruire cosa?, un pezzo di strada, un chilometro di strada, un pezzetto di strada, per fare il ponte, per…, io non muoverò mai. E beh io cominciai la costruzione senza strada. E poi dopo l’attenzione l’attireremo. E così abbiamo, studia e ristudia, studia e ristudia, inventato una teleferica che funzionasse senza motore, cioè a contrappeso, va e poi riscende, con tutti i materiali imprestati. Fu un capolavoro di, di avventura [ride], perché non è facile. Se mette poco peso, il carico ascendente si ferma e a tirarlo su a braccia è da diventar matti. Poi era una teleferica di uno sbalzo solo di mezzo chilometro. A metterne troppo, viene su come un proiettile. E difatti una delle prime cose fu che venne con tanta velocità che spaccò la stazione di arrivo e ruppe la gamba al teleferista. Però a poco a poco l’abbiamo migliorata. Prima era a cuscinetti di legno, poi cuscinetti a sfera, fino alle lampade di segnalazione. Questa teleferica ha lavorato ventiquattrore su ventiquattrore, giorno e notte per portar su tutti i materiali occorrenti alla costruzione. Ma la storia di Agape è una storia di avventure. Per esempio fino a [incomprensibile], abbiamo dovuto farci la calce noi. Pagarci il cemento era troppo. Farci la calce come facevano gli antichi. Quindi si è riparato un vecchio forno degli antenati. Sono un po’ come nu…, nuraghi, no?, torri rotonde. E un gruppo di sette giovani per due mesi hanno lavorato a sradicare radici per avere il calore più forte, le radiche, trasportare il legno, poi scavare e trasportare il minerale, poi caricarlo nel forno e dieci giorni e dieci notti di fuoco continuo, fuoco continuo bisogna portarlo ad alta temperatura. Sono, sono scene che non si dimenticano, questi dieci giorni e dieci notti. Io facevo un po’ la spola tra il cantiere che si trovava a Prali e questo campo a tre ore di cammino, che dovevo farmele con le mie gambe, perché non c’era mezzo diverso, per sostenere moralmente questi altri. Ma quei dieci giorni e dieci notti erano qualcosa d’infernale. Io non avrei mai più nella mia vita chiesto una fatica simile a dei giovani. Cioè, il calore era veramente forte, che si, si davano il turno questi sette per caricarlo. E chi si avvicinava al forno lo bagnavano prima con un secchio d’acqua. Poi buttava il legno e con un bastone lo cacciava dentro e balzava subito fuori che già lui fumava. Ma questo, fatto una volta o due, ma per dieci giorni e dieci notti su sette uomini, era qualcosa. Erano poi bruciati, sen…, senz’abiti, feriti, tutto quanto. Hanno dato 250 quintali di calce viva, no? E quando ebbi il primo pezzo in mano, no?, a me pareva di aver l’Agape in pietra. Ecco, avevan fatto il loro motto: “tutto per Agape”, no? Niente conta, tutto per Agape. [incomprensibile] Ora questo entusiasmo dei giovani, sia quelli che lavoravano per la, mettere le fondazioni del grande centro, sia quelli che portavano la calce, ha poi impressionato l’opinione europea. Io ebbi la chance di essere stato invitato come rappresentante della gioventù italiana al primo, ehm, raduno dei Segretari Europei per 1a Gioventù al Consiglio Mondiale delle Chiese, al Consiglio Ecumenico. E, e lì queste fotografie delle fondazioni di questo grande centro, quelle della calce, eccetera, fecero impressione. E la stampa cominciò a parlarne, di modo che il secondo anno, il primo anno eravamo un gruppetto di venti italiani, il secondo anno c’erano già quattordici nazioni. In totale nei cinque anni son venuti lavoratori da trentacinque nazioni diverse, dalla Nuova Zelanda al Canada, dal Sudamerica alla Norvegia. Così nel ’51 abbiamo potuto inaugurarlo. Un momento difficile anche quello, perché la gente diceva: “finché c’è l’entusiasmo dei lavoratori, ben”. C’eran dei campi di cento, centodieci, centoventi lavoratori, eh. “Va ben, ma adesso chi riempie questo grande centro?” [pausa] E invece no, ha cominciato subito. Il primo campo era un campo di parigini asociali condotti da, da monitori parigini, che dicevano che non bisognava parlar di Cristo per non scandalizzare [ride]. E io dovevo mettere due lavoratori di sorveglianza alle cucine perché andavan lì a embêter le ragazze laggiù. Però, questo centro ha avuto un’influenza forte. Io poi ho parlato di Cristo, perché, perché, perché non dovevo parlare di Cristo? Ho parlato e ascoltavano. La religione annoia, non Cristo. Anzi io dirò paradossalmente che bisogna distrugger la religione per annunciare Cristo, per liberarlo [incomprensibile]. E questo centro ha avuto una fortissima influenza di formazione su generazioni. Ormai siamo alla terza generazione. Ovunque io viaggio, negli Stati Uniti o in Europa, io trovo di quelli che sono stati trasformati. C’erano dei tipi assolutamente asociali. Pensi, dopo la guerra: c’eran di quelli che avevan fatto la guerra ai partigiani che non eran tanto ben ricevuti nelle Chiese. Ora sì, ora no. C’eran di quelli che eran completamente asociali e son stati trasformati. E poi anche altri, singoli casi che, finché sono stato direttore, quattordici anni sono stato direttore a, a Agape, io ricevevo dei casi speciali di gente. Per esempio il tribunale dei minorenni di, di Neuchâtel quando aveva un caso difficile me lo mandava. Ma vuol credere che noi non facevamo niente? Tranne che amarli e tenerli nella comunità. E questi cambiavano! Tanto che ho avuto la scena così bella di veder uno ricuperato che qua accompagnava altri lì dal tribunale dei minorenni. Cioè, la vita comunitaria, questo partecipare a tutto forse aveva una forza di, di, di edificazione dell’uomo, non lo so. Del resto ricordo di aver avuto tra altri un ladruncolo italiano che era di quelli che son condannati sempre per furti. Io gli davo piena fiducia. Portava il denaro, faceva spedizioni, pacchi. Mai che mi abbia levato niente. Cioè, a me pare che l’unica pedagogia possibile è quella di Agape, come l’unica politica possibile è quella dell’Agape. Ora lì è cominciato con, come un centro di riconciliazione e poi le circostanze storiche sono cambiate. E allora ci è venuta la guerra fredda. [incomprensibile] La posizione nostra durante la guerra fredda era quella del disarmo unilaterale, assolutamente utopistico allora, non più tanto adesso, ma allora assolutamente. E le cito il caso che un parente di Bonhoeffer che venne nel ’52 rifiutava questa politica. Io l’ho incontrato l’anno scorso al novantesimo compleanno del dottor Martin Niemöller, per far festa a Niemöller, che poi non venne perché lui era malato. Lui era d’accordo sulla tesi del disarmo unilaterale. Del resto tutta la Chiesa riformata in Germania, non la luterana, la riformata in Germania, al Sinodo si son pronunciate per il disarmo unilaterale. E vede che nel, nel Sinodo della Chiesa anglicana in questi giorni c’era una parte che è per il disarmo unilaterale, che non è un’utopia, nel senso di cosa impossibile, ma utopia nel senso di quello che non è irrealizzabile ma non ancora realizzato e che si può. E che è il pronunciamento più chiaro di fronte a un momento. Poi per i credenti il significato è semplicemente vivere per fede [pausa]. E lì a Agape fra tante altre cose ritornavano sempre certi problemi. Per esempio, c’è stato il problema della, della guerra fredda, degli armamenti. Questo è importante, è stato…, ehm, la lotta per l’obiezione di coscienza. Lì sono durate anni e anni e anni questa lotta e… e non era facile. Per esempio, abbiamo avuto un campo. Chiacchiero troppo?

D. Va bene, va bene.

R. No, perché sennò.

D. Tra l’altro è una esperienza che io conosco. Quindi mi, mi interessa capirne.

R. Sì, per esempio un campo fatto a tipo processo all’obiettore di coscienza, presieduto con il grande giurista Pedretti Griva. E Pedretti Griva diceva che l’obiezione di coscienza è impossibile perché ci sarebbero troppi napoletani [pausa]. E invece non è vero questo. Lo vedeva come un… [pausa] testimonianza per un mondo nuovo, ma non realizzabile adesso. E questo campo fu un campo molto riuscito, tant’è vero che La Stampa di Torino teneva un giornalista fisso lì, durante tutto il campo. C’era un… Dunque Pedretti Griva, presidente del tribunale, e a latere un giudice protestante e un giudice cattolico. L’avvocato di accusa era un avvocato comunista, per la posizione dei comunisti allora, adesso non è più così. Nella difesa c’era Lelio Basso, ehm, per testimoniare della pace nel mondo, la pace nel mondo. C’era Tassoni sul metodo della non violenza. Poi c’era Bruno Segre che era l’esperto allora,sui, sui processi per obiezione di coscienza. Ed io, che non sono proprio avvocato, per fare la parte evangelica, vero? E qui c’è una cosa che le farà ridere perché ho fatto saltare su Pedretti Griva, perché io ho fatto un’osservazione: “va bene qui c’è l’accusato”, l’accusato era un pastore, “l’accusato per obiezione di coscienza. Però ci sono due qualità di obiezione di coscienza. Quella che è un senso di umanità di chi risponde alla propria coscienza, che io rispetto pienamente. Ma c’è chi lo fa a obbedienza a Cristo. Quindi il mandante è Cristo. Ora di Cristo gli uni dicono che è morto, gli altri dicono che è risuscitato. Bisognerebbe prima provvedere a precisare questo punto” [ride]. È saltato su, dicendo: “mai ho sentito una cosa simile in tribunale”; però dice: “se Cristo fosse oggi qui sarebbe ancora condannato secondo le leggi di qualsiasi Stato anche democratico”. “Bon”, ho detto, “presidente, era quello che volevo farle dire”. Ed è vero questo, questa frase è vera. Insomma, Agape è stato un centro di formazione. Adesso lasciamo Agape. A Agape, fra l’altro, si è parlato molto del Terzo Mondo e delle zone depresse. Una parte di queste zone depresse le abbiamo nel nostro Mezzogiorno e quindi il progetto di lasciare un gruppo di noi Agape e andare a romperci le ossa, dopo aver fatto delle disquisizioni teoriche sul Terzo Mondo, andare a vedere cosa è e cosa si può fare. E qui siamo alla terza tappa, direi così, della mia vita, nel novembre del sessantuno. Lasciato Agape, ho, son andato giù con sette, poi subito dopo otto giovani per fondare questo centro. Anche lì senza quattrini, tant’è vero che il primo anno abbiamo patito la fame, poi la cosa ha di nuovo interessato molti. Noi abbiamo vissuto sempre un po’ come un kibbutz, una comunità che prende l’argent de poche, senza stipendio, diplomati e laureati ma senza stipendio, argent de poche e vita comunitaria, pasti e abitazione insieme, eccetera. E questo evidentemente ci ha fatto risparmiare una cifra enorme. Ma questo ci ha procurato anche l’aiuto di molti amici, per cui giù finanziariamente, tranne i due o tre primi anni, non abbiamo avuto difficoltà. Le difficoltà vengono dal luogo con, con una città mafiosa. E chi non conosce cos’è la mafia non può realizzare le difficoltà che abbiamo avuto. Lì s’è imperniato il lavoro così: per il primo anno siamo stati a studiare la città, a fare indagini, inchieste, parlare con la gente, molto con i bambini, che sono poi i futuri uomini, per vedere di non portare i nostri problemi, ma di comprendere i problemi dell’uomo. E dopo questo anno abbiamo concepito un progetto, che noi chiamiamo un progetto globale nel senso che voleva entrare in tutti i settori della vita della città. Nel settore dell’educazione progressivamente abbiamo fatto scuola materna, scuola elementare, scuola formazione meccanici, biblioteca, lezioni di lingue, lezioni di musica, eccetera. Avremmo voluto fare la scuola media, perché è un anello che manca. Soltanto, ci è stato difficile realizzarla per mancanza di persone. Del resto poi da ultimo non avremmo fatto una scuola media, ma piuttosto una scuola serale per ricuperare quelli che fanno la scuola media statale, perché la situazione dal ’61 a adesso è fortemente cambiata. Nel settore dell’assistenza avevamo un ufficio di assistenza che [incomprensibile]. Abbiamo lavorato molto, perché all’inizio c’era proprio bisogno di tutto. Poi una scuola, un, un ambulatorio pediatrico, che non c’era nessun pediatra giù, poi un consultorio [pausa]. L’ufficio di assistenza praticamente è, è caduto con, con l’evolversi della situazione, perché il consultorio continua e la pediatria lo stesso. Poi il settore economico. Allora c’è stato il centro agricolo che aveva due funzioni: una quella di collaborare a mantenere il gruppo e una quella di trasformazione dell’agricoltura locale. La prima parte è andata avanti bene nei primi anni e invece in seguito si è data molta più importanza alla trasformazione locale, dell’agricoltura locale. E lì il lavoro è stato effettivo, perché [pausa] soprattutto su due produzioni. Bisogna tener conto delle produzioni locali. È inutile trapiantare delle produzioni che non corrispondono al clima e al suolo, è vero? Infatti noi abbiamo avuto fra i collaboratori un esperto agricolo tedesco, che era di gran valore, che fece la prima mappa delle coltivazioni del comune di Riesi. Però praticamente fece degli errori perché piantò gli alberi del frutteto come li aveva piantati in Germania. E quelli dopo pochi anni se ne sono andati. E invece il lavoro fatto dopo da Rocco, un membro del, del gruppo, sulla cantina sociale e sulle olive, è stato di grande valore. Riesi non aveva quasi vigna, adesso se lei va, tranne qualche vigna vecchia ad alberello, adesso se va a Riesi e nei comuni vicini vede estensioni enormi di vigna e, è stata fondata una cantina sociale di 60.000 ettolitri, grande. Ma come è sorta questa? È sorta dai contatti col popolo. Nel ’69, mentre ero in Riesi, mi fermarono alcuni contadini che mi dissero: “perché non facciamo una cantina sociale?” “Bon”, ho detto io, “io di vino, anche se mi chiamo Vinay, non me ne intendo, però possiamo provarci insieme”. E così ogni settimana si faceva una riunione di contadini per discutere sulla vigna e ho fatto venire anche della gente che ne conosceva ben più di me. Siamo venuti alla definizione che era ridicolo tentare la vigna ad alberello, che costa molto lavoro e poi dà un vino ad alto grado di alcool, che non è vendibile. Molto meglio la vigna a tettoia, o tutt’al più a spalliera, che produce molto di più, che si lavora col trattore e che dà un vino a dodici gradi, undici e mezzo, dodici gradi. Ad alberello possono farla in Germania e in Svizzera che non hanno tanto sole, non giù. Questa cantina, la prima, e secondaria la cooperativa, ed è una cooperativa non di tre o quattro grossi proprietari, ma ha cominciato subito con 80, 80 piccoli proprietari. Adesso credo che siano sui 500, piccoli proprietari. E questo salva i contadini da dover vendere l’uva a, agli accaparratori [incomprensibile]. E l’altra cosa che è stata prima sperimentata da noi è stata la, la, l’uliveto ad arbusto. Anche qui c’è sempre le critiche. Quando i contadini del luogo hanno visto che piantavamo le piante così, loro che le piante sono alte, dicevano: “ma cosa vogliono fare questi qui del continente?” E poi il secondo anno le hanno viste così. Il terzo… Ah, il secondo anno sono venuti dall’Università di Palermo a fotografarle, perché c’era già un po’ di fiori. Il terzo anno c’era già il raccolto, buono. Il quarto anno: raccolto completo. Mentre piantandole ad albero fino a dieci anni non raccogli niente, dieci, dodici, quindici anni. E adesso anche questo si diffonde, tant’è vero che adesso stanno, ehm, direi realizzando, perché sono in piene pratiche, ma è già preso il terreno e tutto, per una cooperativa, per il frantoio per le olive. L’altra coltivazione possibile giù è le mandorle, che ci sono. Io ho viaggiato per cercar queste cose dove c’è il mercato delle mandorle, che sono praticamente a Brema, Hannover, Amburgo, Lubecca e Zurigo. E le mandorle vengono prodotte in Spagna e in Sicilia e vengono lavorate. Logica sarebbe far la lavorazione del marzapane giù, no solo quei frutti che non hanno grande importanza. Soltanto è stata poi fatta dallo Stato un centro di lavorazione delle mandorle a Ravanusa, che come tutte le cose fatte giù dalla Regione, dallo Stato, non ha mai camminato. Allora era inutile farne uno noialtri. E poi il mercato italiano delle mandorle, tutto quello che ho seguito m’è risultato che l’Italia ha perso il 50% del mercato delle mandorle per mandar la produzione non selezionata, cioè mandorle amare e mandorle dolci insieme, oppure mandorle uniche e mandorle doppie insieme. L’unica ha più valore della doppia, non può… Son tutte queste cose che si sanno. Però il lavoro giù è continuato. Evidentemente la grande difficoltà è data dalla mafia. Già quando venne la Commissione antimafia nel sessantatre, sessantaquattro, un avvocato del luogo amico nostro disse: “fate attenzione che adesso non hanno più la lupara, ma hanno la calunnia”. E questo è durato sempre e durerà ancora per il Comitato antimafia fondato a Riesi: nel Comitato antimafia ci sono i due capi mafiosi della città. Questo vi dice cos’è. Però, insomma, senza fare troppo trionfalismo, perché… Anzi il gruppo è fin troppo critico, perché il gruppo è sempre a criticare e cercare di vedere, rivedere: “siamo sul giusto?” Fanno bene questo, però una critica vera per conto mio non deve guardare solo le difficoltà soggettive, ma anche quelle oggettive, sennò non si… E le difficoltà oggettive ci sono, quelle dell’ambiente. Io penso che se avessimo fatto lo stesso lavoro nella Sicilia orientale già sarebbe stato molto diverso. Se l’avessimo fatto in Puglia cento volte più facile. Ma insomma, d’altra parte, era necessario conoscere questo. Poi metterei… Questa: terza tappa. Quarta tappa: Vietnam, nella mia vita. Siccome devo parlar di me, mi scusi, faccio questo. Cioè, io ero ancora a Riesi, che ho vissuto fortemente il problema del Vietnam, quando ancora le Chiese se ne disinteressavano, vedi discorso in piazza, ehm, Castello a Torino. Era molto bello. Adesso non so se lei è credente o non credente, non importa, ma era molto bello, perché era organizzato. Tenete conto la data: ’67. Da protestanti, cattolici e comunisti… ecco una manifestazione meravigliosa. Poi nel giugno dello stesso anno ci fu una grande manifestazione a Milano, centomila, da, da Bologna in su che vennero. C’erano tutti i capipartito. Poi, non so a che santo votarmi, ma m’han chiesto di parlare. Ho parlato anch’io in questa grande riunione. Poi vennero a sempre più interessarci, finché mi chiese il Comitato Internazionale per la Liberazione dei Prigionieri Politici di andare in Vietnam. E ci andai. Lei sa che c’andai vestito da prete? Perché una grande personalità cattolica di Parigi mi disse: “se vai in borghese non puoi far niente”. Allora mi son comprato un vestito da prete, ehm. E quindi ho potuto fare una, una inchiesta a tappeto, un grosso rapporto. Naturalmente, tornato, a Riesi stavo poco perché bisognava visitare i governi europei. Avevo organizzato una delegazione europea a Washington. Ero sempre in viaggio per il Vietnam, perciò che dico è la quarta tappa che ho vissuto profondamente nella vita. Son tornato poi la seconda volta nel Vietnam, pochi mesi dopo la liberazione, ma allora era per la ricostruzione. Allora non, io non ero più clandestino e non era più pericoloso, ma anzi ero accolto a braccia aperte dal, dal governo di Hanoi, ma soprattutto dal comandante militare della città di, ehm, di Ho-chi-min, dove avevo lavorato durante la guerra. E questa è la quarta tappa. E la quinta è questa qui al Senato, dove si fa una gran commedia. Però io, oh, il mio lavoro principale è sempre dei popoli oppressi e per i casi di ingiustizia. Adesso c’ho sottomano il caso di Vanni Molinaris…e dell’Hyperion, come di altri casi. Cioè, il mio lavoro adesso principalmente è sempre per cause di giustizia. Però quello che dico terminando è che, nelle cinque fasi, la cosa dominante è stata sempre l’annuncio dell’Agape, che per me, è, dunque, l’Agape è l’amore per gli altri, il solo concetto rivoluzionario secondo me. E questo lo fo… discorso lo faccio continuamente qui in Senato, perché in Senato mi succede molte volte su vari problemi di vederli, cioè non posso essere politico da una parte e credente dall’altra. Son tutt’uno, non mi posso dividere. Ed ora io cerco di presentare i problemi sub luce Christi. Mi rivolgerò ai democristiani dicendo: “voi che dite di essere un partito di ispirazione cristiana e allora possiamo vedere insieme questo problema sub luce Christi?” Poi mi rivolgo ai comunisti, no?: “cercate la terza via, ma qual è la terza via? Non ce ne sarà un’altra, una di mezzo tra la prima e la seconda?” Secondo me la terza via è l’assolutamente nuovo, perché nessuno può essere rivoluzionario finché idolatra dei fatti dell’esperienza, finché è incatenato al passato. La rivoluzione si fa tendendo al futuro assolutamente nuovo. Non c’è niente da copiare dal passato. Io ho, ho l’impressione che i comunisti ascoltano questo discorso. Del resto, una volta che feci questo richiamo all’uno e all’altro, l’applauso l’ho avuto dai comunisti, parlando di Cristo, non dai democristiani. Adesso mi hanno chiesto di scrivere un articolo i democristiani sui Quaderni Bianchi. Bon, lo faccio. Non c’è ragione di dire di no, mai. Quanto mi hanno, mi hanno rotto le scatole qualcuno di dire: “non devi andare a prendere, ehm, l’onorificenza a, d’Israele, devi rifiutarla”. “No”, dico, “io vado e parlo chiaro”, dico quello che devo dire. Se l’avessi rifiutato, era finito lì. Lo sapeva l’Ambasciatore. Andando a parlare così, mi diceva: “guarda, questo discorsetto ha girato dappertutto”. Una volta mi invitarono a parlare alla base di Aviano, la più grande base aerea del Mediterraneo. E dicevano: “non andare”. Io ci vado e ho parlato contro gli armamenti. Naturalmente [ride] è finita, ma insomma sono andato a parlare. E insomma io direi che, ehm [sospira], come posso dire?, la vocazione o lo sforzo della mia vita è di far capire che il concetto di Agape non è un concetto solo per i cristiani, o se si vuol dire fra virgolette religioso, ma è un concetto politico. La vera politica è la politica dell’Agape, cioè quella politica che è imperniata sull’amore per l’altro, no? Que…, può essere accettato anche dal non credente, perché l’Agape non è l’amore per Dio, ma è l’amore per l’altro. Allora se questo è alla base, non c’è, si eliminano le strutture della politica che noi abbiamo oggi, di rivalità fra individui, fra partiti, fra, fra nazioni, e viene tutto visto in una visuale nuova. Utopia, sì, ma utopia nel senso del ciò che non è ancora realizzato e che val la pena di combattere. E in questo senso potrei dire che sia a Firenze, almeno nei dieci ultimi anni dei quattordici che sono stato a Firenze, è stata la battaglia per Agape. Infatti io distruggo tutto, ma mi ricordo che già di Agape parlavo prima di aver fondato l’Agape. Ora a Agape c’è stata solo questa predica, a Riesi c’è stata solo questa predica, in Vietnam lo stesso e qui al Senato lo stesso. Sono monotòno. E ho questo, ho preso come mia battaglia per la vita e credo, e son convintissimo, sennò non lo farei, son convintissimo che noi non avremo una svolta nella politica, nella sociologia e nella pedagogia, finché non sarà messo al centro di ogni nostro pensiero, di ogni nostro impegno e azione l’amore per l’altro. Peccato che nel Vangelo e nelle traduzioni il termine Agape è tradotto, perché è intraducibile, è una qualità di amore diverso, non è un sentimento, è azione, non è niente rivolto verso di noi o verso il nostro corporativismo o verso la nostra, ehm, Chiesa, o verso la nostra nazione. È sempre tensione verso l’altro e tensione verso il futuro, dove questo annunzio avrà la sua realizzazione, quando l’Evangelo dice che tutti si rivolgeranno verso colui che hanno crocefisso. Per conto mio suona: tutti stufi di batter la testa contro il muro riconosceranno che non si può vivere se non dando e ricevendo dagli altri. Questo l’ho messo, perché nel parlare sono utili alle volte gli slogan, in tre slogan che hanno girato l’Europa: il mondo degli uomini è mors tua, vita mea, il mondo nuovo di Cristo è mors mea, vita tua, il futuro vita tua, vita mea. Adesso, se non siete d’accordo [ride] io non lo pretendo perché ognuno ha il diritto di vivere, ma questa è stata un poco la mia viCasella di testo: r
ta.

D. Le manderò un saggio scientificamente ben corredato…

R. Ehm.

D. Che affronta questo tema nel discorso del calendario liturgico. L’ha stampato un professore dell’Università di Chicago, che è Dario Zadra. E appena verrà pubblicato senz’altro gliene manderò una copia.

R. È un saggio su cosa?

D. Beh, lui fa un’analisi, ehm, della presenza dei simboli, ehm, nel corso del calendario.

R. Ah, ah.

D. E, diciamo, la conclusione a cui arriva è dello stesso tipo.

R. Ah, mi rallegro. Del resto, per stare negli Stati Uniti, il grande teologo Tillich diceva: “la Chiesa ha ancora da scoprire il concetto dell’Agape nel Nuovo Testamento”. E io ne son convinto, perché se ne parla ma è marginale, mentre è centrale questo, perché dire Agape è dire Cristo, vero?, ὁ θεός ἀγάπη ἐστί. Ma questa, l’incarnazione, è di questa Agape. La parola si è fatta carne no? E, e se l’Evangelo di Giovanni fosse stato scritto dallo scrittore della prima lettera di Giovanni non avrebbe cominciato: “dal principio era la parola”; avrebbe cominciato: “dal principio era l’Agape, e l’Agape era con Dio e l’Agape era Dio”. E tornava perfettamente [pausa]. Ma m’interessa se mi manda quel, quel lavoro.

D. Senz’altro [lunga pausa]. Allora, visto che lei non si ritiene un intellettuale…

R. Ehm.

D. Come vede gli intellettuali? Italiani in modo particolare.

R. No, gli intellettuali sono in gra…, in gran numero uomini di cultura, ma non è detto questo, no?, sa?, uno che ha il titolo di professore non è detto questo, no? Io sono iscritto nell’Albo dei giornalisti, ma non mi ritengo mica giornalista, per carità [pausa]. Però io difendo la cultura degli analfabeti, la cultura dei contadini. C’era Cesarini che pubblicò, il professor Cesarini, un volume, com’era intitolato?, forse La cultura dei contadini. Bellissimo era. E lui rilevava, dalla storia dell’arte, come la cultura contadina era stata emarginata. Ci sono guerrieri, ci sono imperatori, ci sono dame, ci sono vescovi, ci sono paggi, ci sono angioletti, putti e tutto, ma non c’è il contadino. Ed è vero… tranne che recentemente, mentre il contadino s’è fabbricato lui gli strumenti di lavoro, non il suo sfruttatore. Il contadino ha creato una civiltà sua, è vero? E pensare che io penso alla famiglia di mio nonno, insomma una famiglia sobria quanto volete, ma insomma aveva il senso dell’esistenza, ecco [pausa]. Non è che me la pigli con gli intellettuali, ci tengo a dire che io non lo sono, tutto lì. Come posso dire non sono un medico, come non sono uno studioso. Ho vissuto, tutto lì.

D. Per esempio, in questi anni ’60, ’70, lei ha visto dei cambiamenti fondamentali nel comportamento degli intellettuali? [pausa].

R. Beh, politicamente forte il cambiamento.

D. In che senso?

R. Nel senso: quanto si parlava di rivoluzione violenta prima, adesso non se ne parla più. Io ricordo che nel ’60, mettiamo pressappoco le date, non ricordo, ’64, ’65, ero a Montreux per un congresso sullo sviluppo del Terzo Mondo e ci fu Hoeppler, era ministro allora. Lui comunque è, è il responsabile della sinistra dell’SPD nel Baden-Wüttemberg. E lui diceva: “anch’io vorrei la rivoluzione, ma sarebbe un gran massacro”. È vero questo. Allora in quegli anni si diceva: “non uno ma mille Vietnam”. Chi l’ha visto il Vietnam non ha coraggio di dire mille Vietnam. Anzi dopo tanto, tanto, tanto aver lottato per il Vietnam, io mi sono arrivato a domandarmi: se avessero fatto una lotta non violenta se avessero ottenuto lo stesso senza tanti milioni di morti. Ma non si fa la storia col se. Non è che io condanno l’azione di un Che Guevara o di chi vuole, no?, neanche per sogno. Però mi pare difficile capire che si possa costruire un mondo nuovo sul dolore degli uo…, della gente [pausa]. Quel che manca, direi, alla classe politica è la creativa fantasia dell’amore [ride]. Questa creatività che viene fuori. In fondo anche la Davis riconobbe che il più grande rivoluzionario è stato Martin Luther King negli Stati Uniti, non i violenti [pausa]. Come del resto il mio amico Helder Camara [pausa]. Ma non vada via con il cattivo ricordo che io, che io scomunico gli intellettuali, per carità. Dico solo: “non lo sono”. Ho il diritto di dire che sono un asino, [ride] ma non [ride], ma non…

D. Ecco, comunque proprio a proposito del Vietnam, gli intellettuali presero posizione, gli intellettuali italiani.

R. Sì, sì. Beh, gli intellettuali italiani son schierati molto a sinistra. Semmai forse adesso c’è un po’ più di esitazione.

D. Ecco, allora, proprio questo passaggio m’interessa.

R. Ma non so come dire. Io credo che, ecco, passato, cioè riconosciuto che una rivoluzione violenta non è possibile, adesso lasciamo stare i casi del Guatemala, del San Salvador, dove sono obbligati a questo proprio, ma una rivoluzione violenta negli Stati industrializzati non è possibile perché il potere ha tutti i mezzi di schiacciare. Credo che [pausa] già chi teneva la, la grande bandiera della sinistra era il Partito Comunista, ma ha passato delle crisi, perché anche il Partito Comunista ha dovuto riconoscere certe cose. Il suo staccarsi dalla Russia forse è stato fatto troppo tardi questo, questo strappo, e con troppa poca delicatezza, ecco. Perché io il discorso l’avrei fatto diversamente. Il discorso l’avrei fatto. Non che la spinta propulsiva è cessata. Ci sono le radici in questa rivoluzione, come lo sono nella Rivoluzione francese del resto. Non possiamo rinnegare la Rivoluzione francese ma non possiamo neanche rinnegare quella di Ottobre. Però la decantazione dei valori culturali da quelli contingenti rivoluzionari è mancata in Russia, avrebbe dovuto decantarsi. Allora questa decantazione dei valori culturali da quelli contingenti della Rivoluzione, il Partito Comunista l’ha fatto un po’ troppo tardi, e forse in manie…, perché sono rimasti nelle sezioni tutti quelli che citavano la Russia come… il Regno…, il nuovo mondo. E sono rimasti delusi. Bisognava a poco a poco far capire queste cose [pausa]. Ora [pausa] verso cosa s’incamminano i…, gli intellettuali adesso? Verso una socialdemocrazia, molto, molto a sinistra. Ma oltre a questo non lo so se ci vanno, come non lo so se neanche il PCI va oltre a questo. Cosa ne pensa lei?

D. Ma… appunto stiamo studiando questo problema.

R. Eh!

D. Anche attraverso questo.

R. [voci sovrapposte] Ecco! Io… non lo so. Io non mi son mai ritenuto un politico, un grande politico, io mi ritengo un testimone di Gesù Cristo. Ecco perché l’Agape è al centro. Però le osservazioni che ci vengono da fare, che vengono naturali a tutti noi, è che in questo momento questa terza via non sia chiara nel PCI, perché non basta dire terza via se non si ha chiara. Né possiamo pretendere che sia chiara se neanche noi sappiamo dire cosa. Quello che è chiaro è che il percorso sinora fatto non era buono. Però il nuovo qual è? Io c’ho la mia risposta e dico l’amore per gli altri, che non… Questa, questa è, per usare un linguaggio di La Pira, una bussola, una bussola. Poi le so…, le decisioni contingenti devono essere prese, non è un’astrazione, deve essere presa. Se io sono nella Commissione Lavoro devo vedere che una legge sia al servizio del popolo e non sia a difesa dei privilegi, questo. Le decisioni devono essere prese, però guai se si dimentica la direzione. La direzione è questa, è vero? Ora io credo che… [sospira], se si deve trovare una nuova via, è quella del nuovo assoluto, nel rispettare ciò che non è mai stato rispettato nella storia, cioè l’amore per l’altro, perché anche nella Rivoluzione francese c’è égalité, ma dove c’è stata l’égalité? È vero? E lo stesso è avvenuto con la Rivoluzione russa. Ora questo non c’è né nell’Occidente, né nel, nel, nell’Oriente, perché dico luogo comune se dico che noialtri abbiamo libertà di parola ma non abbiamo il necessario per vivere, se non siamo della nostra classe. E in Russia hanno il necessario per vivere ma non hanno la libertà di parola. Allora l’égalité non c’è né qua né là.

(Fine della prima parte della registrazione)

R. Ma… gli articoli sono un po’ dappertutto. Non so ora vediamo, vediamo. Mi romperei la testa alla Claudiana come in Francia, come in Germania, per fare una raccolta degli editoriali del bollettino di Riesi. E adesso questo, chi mi premeva di più a farlo era sempre Parri. Ed è strano, perché è tutto cristocentrico e Parri che si dichiarava non credente voleva che lo facessi. Ma io sono diventato pigro e non ho voglia di farlo. Adesso c’è forse un collega che lo farà. Poi dev’essere meglio, perché son scritti di venti anni. Ora un altro può giudicare quello che è ancora vero, quello che è tramontato, ma io di meno, è vero? Vedremo. Ma questo semmai sarà per l’estate prossima.

D. Quando ha pubblicato questi tre saggi, questi tre volumi?

R. Ma uno, I giorni a Riesi, che poi è una specie di diario, l’edizione tedesca nel ’64, quella italiana dev’essere del ’67 o il ’68, la francese lo stesso, l’olandese deve essere pressappoco, la cecoslovacca pressappoco, [incomprensibile] queste edizioni. Poi c’è, ehm, la storia di Agape che è solo in tedesco, una piccola roba, e poi Ho visto uccidere un popolo che è quello sul Vietnam. Avrei dovuto far…, perché io, non è che io scrivo volentieri, io scrivo gli articoli che ho scritto, ne ho scritti una valanga in vita mia, sempre quando mi hanno sollecitato, sennò… Allora questo volume sugli editoriali delle notizie da Riesi me lo sollecitano tanto che bisognerà farlo. E poi dopo, nelle Chiese, ho scritto diversi articoli fuori. Ma cercherò di trovare qualche cosa. Ecco, non so.

D. Va bene. Sì, anche se sono in lingua non importa.

R. Sì, ehm.

D. Allora, stavamo facendo un po’ questo discorso dell’atteggiamento e del comportamento degli intellettuali. Dunque si potrebbe dire che da rivoluzionari intorno alla fine degli anni ’60 ora siam passati quasi ad essere dei social-democratici, no?, per così dire?

R. Questo è vero, sì.

D. Ecco, allora, su quali basi lei fonda questo giudizio, cioè quali sono gli elementi che lo portano a dare…

R. [interrompe] Cioè, io direi, per usare un’altra parola, usare piuttosto un linguaggio di… [sospira] di un socialismo dal volto umano, ecco, perché credo che questo sia piuttosto, soltanto un socialismo fino a che punto si spinge, in, in Europa o negli Stati industrializzati. Che possibilità c’abbiamo noi di una sinistra, anche una sinistra spinta, ad andare oltre? A me dispiace quello che è successo al Vietnam, perché io ero sicuro che il Vietnam c’avrebbe dato un modello di socialismo dal volto umano. Ma cosa è avvenuto nella storia? Che lo hanno boicottato tutti quanti e lui è cascato nelle mani della Russia e ha un socialismo russo. E invece sarebbe venuto fuori un socialismo dal volto umano, perché hanno cominciato così. Guardi come si son comportati, senza bagno di sangue, eccetera, eccetera. Ora che abbiano, che ci sia stata la gente che fuggiva, è chiaro questo. In uno Stato dalla miseria più estrema, a dividere fra tutti il poco riso che hanno per darne una ciotola di riso al giorno a ciascuno, c’eran quelli che avevano altri mezzi, abituati diversamente, che sono scappati. Era naturale. E poi evidentemente che delle riduzioni di libertà ce l’hanno, perché sono sotto l’influenza russa adesso. Ma io dico: questo non è colpa loro, è colpa nostra. Quando, ehm, Andrew Young, l’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, diede…

Intervento. [subentra la segretaria] C’è il dottor… Sta salendo.

R. Ah, sì. Lo fai passar di là un momento?

Intervento. [segretaria] Sì.

R. Ehm, ehm, diede quel caloroso benvenuto ai vietnamiti. A me sembrava: qui la cosa va avanti bene. E io scrissi a Andrew Young dicendo: “questa è la battaglia”. E lui mi rispose: “sì, anch’io la penso così, ma io non conto niente”. E difatti ci fu il boicottaggio degli Stati Uniti e di tutti gli Stati. E è finito come è finito. Io ricordo di aver visto una mostra di quadri e di pittori, ehm, vietnamiti, moderni, no?, nella, ad Hanoi. Ed anche l’ambasciatore nostro allora, Fabio… , era un uomo di cultura, diceva: “meraviglioso che non c’è una traccia di violenza e di guerra”. Era tutto un inno alla vita e all’amore. E fra l’altro c’era un quadro in cui era rappresentato il Vietnam con un volo di colombe bianche da tutto il mondo. E ogni colomba aveva la bandierina della sua nazione. Allora il desiderio era la riconciliazione con tutti, pace con tutti, anche con gli Stati Uniti. Invece ci son stati la vendetta. È andata come è andata. Poi bisognerebbe sapere la storia lì, perché sotto c’era anche quella, perché hanno fatto l’unificazione così rapida, che non c’era bisogno di farla così rapida, perché la Cina non voleva mai l’unificazione. L’avran fatta per questo, mah?

D. Lei deve andare per caso?

R. Mi dispiace. Io credevo che ci si, ehm. Sono le sei e un quarto. Ho dato appuntamento.

D. Sì, benissimo. Allora se possiamo fissare un appuntamento per una prossima volta, in modo da completare il discorso?

R. Sì.

D. Frattanto le facciamo vedere la trascrizione di questo di oggi.

R. Sì, sì.

D. Va bene, d’accordo. Grazie allora.

(fine della registrazione)

Vinay ci accompagna fuori dalla stanza, fino all’ascensore. Saluta e chiede scusa di non avere il tempo di offrirci qualcosa al bar. Poi si allontana prima che sia arrivato l’ascensore.

Intervista di Roberto Cipriani e Stefano Delli Poggi a Franco Ferrarotti su Valle Aurelia a Roma (11.09.2014)

11.09.2014 – h. 10:00

c/o studio di Franco Ferrarotti, professore emerito

Corso Trieste, 61 – Roma

[Inizio a 5’40”]

FF: “Conoscendo la sua (di RC) incredibile capacità di leggere un testo e di tradurlo in intervista, mi permettevo di dargliele queste cose […]”

N.d.R.: FF consegna contestualmente alcuni scritti da cui trarre indicazioni. Proseguono con preparativi, indicazioni di pubblicazioni e simili. Nonché discorso sulla crisi italiana nel senso della apparente rinuncia della popolazione – in particolare quella giovanile – a un’azione o reazione più forte rispetto a questa che sembra un’accettazione passiva dello scivolamento socio-economico. Le speculazioni di FF derivano dal suo recente e consueto viaggio negli Stati Uniti.

Altresì spazia sui temi della protesta, del disagio sociale, dell’esclusione sociale ecc., attese su una Grande Jaquerie ecc., di una carenza della gestione della magistratura italiana e del ritardo della conclusione delle controversie. È lo spaziare del professore su temi generali.

[14:10]

FF: “… forse dovremmo replicare le nostre ricerche, come lei giustamente ha pensato … “

RC: “Ecco, son passati più di cinquant’anni … “

FF: “Sì.”

RC: “E dunque, ritorniamo indietro agli anni Sessanta e in particolare a quando lei arriva a Roma e comincia a interessarsi delle borgate.”

FF: [Inizia raccontando la storia degli inizia del suo insegnamento a Roma nella facoltà di Magistero. Passa a sostenere l’importanza del lavoro sul campo per il sociologo che non può essere solo un teorico da cattedra, riafferma la interdisciplinarietà necessaria della sociologia. Parla dei sociologi da poltrone, citando Durkheim, Weber e Pareto. Sulla base di questo racconta che la “necessità” della ricerca suk campo partì all’epoca dalla mancanza di fondi e soldi, tranne che per i biglietti dell’autobus. Con i suoi colleghi iniziò andando fino al capolinea esterno di un autobus e si trovò nella borgata Alessandrina – N.d.R.]

[18’40”]

Torna nuovamente sul discorso dell’esclusione sociale stavolta collegata alla “crisi delle parrocchie”.

FF: “… stavamo già occupandoci della crisi del sacro, e di lì le prime ricerche: Roma da capitale a periferia. E poi più ancora: Vita di baraccati, ’73 che ha avuto … Roma da capitale a periferia è uscita nel ’70 perché ho voluto che uscisse nel centenario di Roma Capitale come controcanto alla retorica ufficiale: 1870 breccia di porta Pia, Roma capitale, 1970 Roma da capitale a periferia, decadimento e cose … e poi vite, La città come fenomeno di classe, poi le altre ricerche; noi siamo partiti proprio, da un bisogno di ricerca sul campo e mancanza di mezzi. Quindi, andare fin dove ci portava il mezzo pubblico. Abbiamo avuto fortuna …” [20’19”]

N.d.R.: prosegue riferendosi alla borgata Alessandrina, al disagio sociale che si vedeva evidente ecc. per ritornare poi alla forza della ricerca sul campo. Alla differenza tra la verificazione di ipotesi costruite teoricamente a tavolino e la teoria che cresce dall’impresa di raccolta sul campo (fa riferimento esplicito alla Grounded theory).

In questo senso parla di una nuova metodologia e del rapporto tra teoria e ricerca.

Parla della Scuola di Francoforte rispetto sempre al fare sociologia ex catedra, trovando conferme nei fatti sociali o addirittura nei ritagli dei giornali.

Parla dell’operazionalizzazione del concetto (il paradigma di Lazarsfeld – N.d.R.) e fa un discorso metodologico quasi a parafrasare l’affermazione “i dati vengono dappertutto”.

Tenta una definizione immediata e spontanea della sociologia e continua a incentrare il suo discorso nel rapporto tra teoria e ricerca (molti autori sono stati citati: Adorno, Marcuse, Comte, ancora Weber, Durkhein e Pareto, Parsons, nonché altri  statunitensi della Scuola di Chicago).

[29’58”] – prima interruzione

[32’58”] – riprende sugli stessi temi.

[33’34”] – interviene RC: “Ecco, diciamo che gli inizi furono alla borgata Alessandrina, acquedotto Felice, s. Policarpo (…)

FF: “Non solo. La posso far ridere un momento?! Che Angelo Pagani a Milano, citandola e sbagliandola, ha detto: Hanno fatto grandi ricerche per la brigata Garibaldina (… segue su questo episodio)”

RC: “A un certo punto l’interesse si sposta su valle Aurelia.”

FF: “Sì. Fa parte. Lì c’è anche la Magliana (…)” [segue il racconto dell’affitto di una baracca al Borghetto latino per svolgere osservazione partecipante e cita ancora altre borgate e/o zone di periferia in cui ha fatto ricerca – N.d.R. ]

[35’44] FF: “In realtà si finì, grazie agli studenti, devo dire, grazie ai collaboratori, si finì poi (…) una, grazie poi a lei e grazie a Maria Michetti un giorno io fui portato alla Casa del lavoro della valle, di valle Aurelia, chiamata anche valle dell’Inferno, chiamata anche così (…) che era in fondo la fornace Veschi. Ora io non l’ho mai detto questo, mi permetto di dirlo a lei come una novità assoluta. Io sono nato, troppi anni fa immagino, in località di Palazzolo vercellese, fra Trino, Fontanetta e Trescentino sulla strada di Torino, poi l’altra strada che andava a Vercelli, c’era Trino, Costanzano, Desano, Vercelli. Sono nato non proprio nel paese, ma fuori paese, lungo il Po (…) infatti per me il Po è dall’altra parte con le colline del Monferrato, Tagliaferro, Camino, Cantavenna e così via, in una località chiamata La Furnas, che significa La Fornace. Io questo non l’ho mai detto, ma il mio interesse notevole, anche se ormai erano interessi (…) io avevo in quegli anni altri interessi, ma l’interesse molto notevole che ho avuto per valle Aurelia, soprattutto, e per la fornace Veschi. Che la fornace Veschi da cui il nome valle dell’Inferno era una tipica, era proprio il nome del cascinale dove io ero nato, che si chiama appunto La Fornace (…)”

[37’23”] – seconda interruzione

[30’06”] – riprende RC: “Quindi dicevamo, la fornace.”

FF: “Sì, la fornace (…)”

RC: “È il moment …”

FF: “No, devo dire che io ho visitato, soprattutto con questa mia assistente che non cesserò mai di rimpiangere, che era [??] Maria Michetti (…) che era per molti anni qui membro del consiglio per il PCI a (…) a Roma, sempre non solo nell’opposizione che c’era il PCI, ma dentro il PCI sempre minoritaria, sempre contro, una persona straordinaria che (…) insieme, dunque c’era lei, c’era la professoressa Macioti, bhè c’era, lei [RC?] è venuto, tutti (…) e abbiamo, abbiamo la (…) mi sono reso conto che qui non eravamo in una situazione effettiva di, diciamo, di miseria che si autoriproduce (…) non si applicavano in concetti di Oscar Lewis [l’antropologo?]. qui c’era un’emarginazione di tipo particolare. Famiglie che avevano, in qualche modo, occupato suolo pubblico dentro quello che era un po’ la valle Aurelia. Questa valle Aurelia che poi il Comune, mi duole doverlo dire, di sinistra, in maniera abbastanza diciamo unilaterale, se non cieca, avrebbe in qualche modo sradicato. Perché questo è quel che avvenne agli abitanti proprio (…) alcuni resistettero, ma gran parte andarono a finire dove? Si pensò di sanare la situazione mandandoli in grossi «casoni», in questi edifici anonimi – è vero!? – spesso con persone, uomini e donne di una certa età, però in edifici spesso privi di ascensori funzionanti in maniera decente; in sostanza con grave disagio, distaccandoli dalla loro, da quella che era diventata la loro comunità originaria, per quanto, questo il lo dico sempre, non si tratta di demagogia, era una comunità originaria che evidentemente allo stato elementare, non c’era (…) Questo mi fece capire, una delle cose che imparai, proprio parlando lì le domeniche alla Camera del lavoro di valle Aurelia, la, la pianificazione democratica dev’essere non soltanto a due vie, ma dev’essere anche flessibile; deve tener conto dei radicamenti storici che ci sono. Non può agire come un ferro da stiro in nome di una razionalità astratta. Anzi, lì proprio valeva il problema del contrasto fra razionalità razionalistica astratta e razionalità come ragionevolezza e storico radicamento che in qualche modo ha una sua accidentalità, ha una sua razionalità post-razionalistica. L’esperienza di valle Aurelia secondo me fu molto bella perché soprattutto indicò una forma, diciamo, oppressione del potere anche illuminato, anche democratico, ma un potere che faceva valere, appunto, una cogente, diciamo, astratta razionalità su quella che era invece ormai la produzione, la realtà determinata da una lunga tradizione [questa è la dinamica elementare del materialismo storico ortodosso – N.d.R.]. Devo anche dire poi che la, il (…) cioè che era necessario a valle Aurelia non era poi (…) erano i servizi (…) io debbo, per dirla tutta, erano servizi elementari, cioè: fognature, acqua, eccetera che non sempre erano adeguati; lei ricorderà grossi problemi, non dico proprio di epidemie, ma di infezioni a largo raggio, insomma. Invece, questo è un altro aspetto, si concepì questo isolamento sociale, da cui era bene far uscire la popolazione, cioè aiutare la popolazione a uscire in prima persona, non farla uscire, costringerla; si pensò che tutto questo poteva essere, non dico risolto con delle Notti bianche, ma risolto in termini di produzione quasi artistiche; soprattutto una domenica mattina, io non potrò mai più dimenticare, nella, proprio nella valle Aurelia e addirittura su un palco eretto nelle vicinanze delle rovine della fornace – io non so se lei ricorderà, però, io quasi mi rifiutavo di prendere la parola, ma poi dovetti prenderla – la scena fu, come si dice in termini, così, teatrali, fu rubata da un assessore alla cultura che vedeva – del comune di Roma, di sinistra, il PCI – che vedeva appunto che i problemi dell’esclusione sociale in termini non di servizi, non essenziali, non di autonomia, ma vedeva, questi, questi, diciamo vedeva, concepiva la esclusione sociale che resta, (??), resta su scala mondiale planetaria, resta la connotazione essenziale dei gruppi emarginati (…) la concepiva in termini culturologici. E questo, ottimo immagino architetto, dalla faccia un po’ patibolare se posso esprimermi …, rispondeva al nome di Renato Nicolini, con una improntitudine, che lui non era mai, non aveva mai fatto ricerca, proponeva, diciamo … cinema, teatri, attività dopolavoristica, come se il problema dell’esclusione sociale e quindi della partecipazione dei cittadini, consistesse solo, consistesse solo nel divertirli e farli partecipare a una serata filodrammatica. Ora, lei non so se può ricordare questa (…) ma (…), e questa come una, diciamo pure, veniva non da uno come me da un quidam de populo, è vero, ma veniva, questa era l’espressione di una politica offerta, avanzata, enunciata dal responsabile, dall’assessore alla cultura del comune di Roma. E questo trovai anche che su scala non più di valle Aurelia, ma romana, si era, si andava affermando una tendenza barocca, seicentesca, delle Notti bianche, delle … cioè, la movida come soluzione dei problemi di partecipazione. La partecipazione popolare voleva dire invece dare strumenti linguistici, politici, effettivi, rapporti di potere e soprattutto comunicazione a due vie plurale, per elaborare decisioni che avessero una sostanza comunitaria; cioè rendessero dei gruppi umani slabbrati e frammentati, dessero loro la capacità di coagularsi … ma non intono, non per … intorno a una balera, non intorno a che so io, un fatto teatrale, ma invece intono a problemi che erano problemi, primo: di sopravvivenza, reddito, lavoro effettivo; secondo: erano problemi di vera e propria partecipazione alle decisioni che li riguardavano; terzo: trasformare, diciamo, dei sudditi, degli emarginati in cittadini, cittadini responsabili. E qui l’informazione, in questo Nicolini aveva ragione, l’informazione come momento di auto sviluppo può giocare un ruolo importante, ma non era, la informazione da non concepire, così come ancor’oggi accade, a concepirsi come qualche cosa che dà luogo, diciamo, al divertimento, dà luogo all’eccitamento, all’effervescenza, niente affatto al ragionamento. Io poi da lì ho capito anche come c’era – col fenomeno Berlusconi, l’ha confermato e soprattutto oggi il fenomeno del «5 Stelle» lo conferma – che spesso, nella storia italiana … non è il caso di evocare Masaniello, nella storia italiana c’è questa tendenza a tramutare il problema etico-politico in atteggiamento estetico (…) a tramutare, quindi, il bisogno di partecipare, di essere presenti e di condividere il potere in un bisogno di pura visibilità: facciamoli uscire! Se escono con le Notti bianche, col cinema, con la cosa, vanno a ballare, ecco che non sono più emarginati. Lo sono, anzi, può essere questo l’inizio di un fenomeno che io ho trovato solo embrionalmente enunciato in Weber e che possiamo chiamare non più lo sfruttamento ottocentesco – che poi lì non c’è perché c’è la disoccupazione volontaria – ma possiamo chiamarlo al di là della vendita della forza-lavoro, la possiamo chiamare la vendita dello spirito, cioè la proletarizzazione dell’anima … cioè l’estraneazione di sé rispetto a sé stessi. Ora quest’idea di proletarizzazione dell’anima, per cui si diventa proletari in maniera doppia, si è doppiamente sfruttati nel momento in cui si diventa, come dire, oggetti e comunque presunti soggetti di divertimento questa è una situazione abbastanza grave. Valle Aurelia, quel che mi ha insegnato valle Aurelia è stato questo: che anche in una situazione in cui non c’è, non si registra la stessa emarginazione e la stessa miseria totale, proprio, che non è solo l’indigenza, è proprio l’impossibilità di sopravvivenza se non attraverso escamotage; anche là dove ci sia in realtà persone con case eccetera, anche in questi casi, la partecipazione, l’uscita dalla esclusione sociale non presuppone soltanto dei palliativi, delle chiamate, delle adunate, delle balere, dei cinematografi, dei fatti teatrali, presuppone al contrario (…) – delle Notti bianche, quelle poi sono state fatte da Veltroni – presuppone al contrario una vera e propria opera di trasformazione interiore che consenta al cittadino [si corregge N.d.R.] al suddito, di porsi e di trasformarsi in cittadino. Questa è la cosa che ho imparato soprattutto da valle Aurelia.“

RC: “Lei fu presente alla distruzione della borgata, all’arrivo della ruspa che ne’ottantuno abbatté molte delle case?”

FF: “Sì, sì. Non solo, ma noi abbiamo, mi pare che, c’è una mia fotografia che fu scelta come la, diciamo, come copertina della critica sociologica dell’epoca, in cui una benna della ruspa, la si vede proprio, che sta in qualche modo sradicando. Il problema era questo, lì era … il problema di valle Aurelia va meditato altrimenti, perché c’era un radicamento naturale, originario, accidentale e così [INC], a cui si voleva invece sostituire un insediamento più razionale, democratico. Questo poteva avere una sua, diciamo così, una sua, un suo rationel, una sua razionalizzazione, una sua … l’errore è stato il modo di realizzazione. Un modo tecnocratico, un modo dall’alto, un modo per cui «Voi venite qui, siete lì, adesso noi facciamo pulizia – anche questa cosa: la pulizia … – e voi andate ad abitare [INC] andate ad abitare in case» diciamo razionalmente costruite. Casoni in cui ognuno aveva il suo appartamentino. Non rendendosi conto che in questo modo queste persone che bene o male avevano un rapporto diretto col territorio, con la natura, con la cos… con gli alberi, dunque eccet…, venivano completamente, diciamo, rilocati. Sloggiati in una … in una situazione che poi si è rivelata – dalle interviste che si son fatte anche dopo – molto alienante. Cioè l’alienazione, come è tipica dell’esclusione sociale, si raddoppiava anche se l’esclusione sociale nei suoi aspetti, diciamo, osservabili era stata apparentemente superata. Il che significa che l’esclusione sociale ha a che vedere con le situazioni di fatto, sul terreno, ma è anche un fatto psicologico profondo.

Tu non puoi fare il bene degli altri contro gli altri, devi in qualche modo convincere, far capire (…) che era mancato completamente lì. Io ricordo una serata con un giornalista de Il Messaggero che si chiamava Vittorio Troidi [RC: Roidi], Roìdi, Ròidi … e Roidi riconobbe tra l’altro in quella serata la continuità del nostro lavoro – dall’Alessandrina era venuti … – e però mancava a noi ma soprattutto ai giornalisti, ma in parte a noi, è mancata, andrebbe ricostruita oggi, una sorta di fenomenologia, una gradualità di tappe nella esclusione sociale.

L’esclusione sociale è un concetto generale che rischia di diventare generico, quando venga applicato come etichetta in situazioni che sono invece storicamente … e anche proprio dal punto di vista logistico è completamente diverso. Il mio rischio qui (…) ho cercato (…) bisogna cercare di .. cosa c’è di comune fra le favelas di Rio, le pobreaciones [?] del Cile, le barriadas di Lima del Perù, poi le borgate come vengono chiamate anche lì venezuelane, cosa, e poi i ghetti di Los Angeles, di Old Manhattan, di West Medison a Chicago, cosa c’è, cosa sono, quali … sì, c’è il problema: l’esclusione sociale, l’irrilevanza politica, la incapacità e l’impossibilità di partecipazione significativa; un momento! Ma ognuna di queste situazioni ha alle spalle una storia particolare. E la storia pesa. La storia pesa al punto che per esempio fra i riots di Watts nel ’64 a sud di Los Angeles, anzi a Los Angeles, era un quartiere di Los Angeles, come Ferguson è un quartiere di Saint Louis Missouri … non aveva nulla a che vedere con la violenza che esplodeva allora ad Harlem, oggi nel Bronks; Harlem è stata gentrificata. La esclusione sociale in una situazione …” [dal minuto 56’36” al minuto 1h03’02”, fa una disquisizione sulla esclusione sociale, citando ancora Oscar Lewis e il Messico, le rivolte nei ghetti neri statunitensi, la funzionalità tra la posizione logistica della borgata e i luoghi (patrizi o borghesi) presso cui questi proletari andavano a lavorare “a servizio”; richiama “il donnone” che spazzava i ministeri, i momenti di lotta urbana (cui ha partecipato FF), alla “dialettica del baraccato” che diventa il piccolo borghese, il nuovo sfruttatore dell’emarginato (richiama “i balconi fioriti” della borgata Alessandrina) e lo sfruttamento desiderante; la simbiosi tra la storia e il quotidiano. Lo sviluppo umano dei baraccati.

Riguardo a valle Aurelia la cita una sola volta per dire che anche quel luogo si è assistito a questa funzionalità tra classi e [ripresa a 1h03’03”]: FF “Io credo che un fenomeno [gentrificazione e svilimento dei baraccati] analogo, non identico, ma analogo sia avvenuto e sia ancora da studiare proprio nella valle Aurelia quando i vecchi insediamenti sono stati distrutti, sradicati – perché? perché bisognava ripulire, bisognava un bel parco, così tutti ne godranno e però quelli che ci sono lì da tempo immemorabile … li mettiamo nei casoni. Si sono trasformati, diciamo, degli esclusi sociali in piccoli borghesi anelanti anche lor a sfruttare il prossimo come loro stessi erano stati sfruttati. Una categoria concettuale che potrebbe esprimere questo, molto lata, partendo dalla ricerca, potrebbe essere proprio quella dello (…) un tipo di sfruttamento particolare che non solo la vendita della forza-lavoro, non è solo l’estraneazione di sé rispetto al sé, e non è neppure la reificazione di Geog Lukacs, non è la reificazione, la cosificazione dell’operaio eccetera è al contrario la trasformazione dell’ex sfruttato in piccolo … piccolo borghese sfruttatore a sua volta.” [dal 1h04’20” fino a 1h21’39”; prosegue su questa categoria “dialettica del baraccato” e a quello che è – di fatto – la sostituzione dei poteri da chi si affranca dal potere stesso per acquisirlo ed esprimerlo a sua volta. Parla della Rivoluzione cristiana; dello schiavismo, della negazione del prossimo, delle caratteristiche negative e individualistiche delle società capitalistiche; del lavoro sul campo come plus della sociologia; della critica a Malinowsky, della sociologia come nuova antropologia, del suo testo Scienza e coscienza, della fotografia come strumento sociologico, dell’istante dell’istantanea; parla di interdisciplinarietà e nuovamente un discorso su idee epistemologiche della sociologia; dei fotografi più o meno famosi, di Ugo Mulas ecc.; la ricerca come partecipazione a-due-vie; la sociologia come strumento essenziale di gruppi sociali specifici e di acquisizione della consapevolezza. Digressioni filosofiche anche sul suo testo Scienza e coscienza; sull’esperienza, sulla coscienza ecc. … finisce poi con ripetere che l’esperienza che lo portò alle borgate e a valle Aurelia fu la povertà di risorse della sua ricerca] …

RC: “Possiamo fare un ultimo passaggio? Non si parla più delle borgate: è avvenuta la gentrificazione, però certe caratteristiche del passato sono ancora presenti, specialmente a valle Aurelia?”

FF: “No, ma basta andare lì e si vede. Ma anche nelle borgate classiche, anche in quelle che sono state gentrificate. Non ci sarà più la scuola – come si chiamava? – … di un sacerdote credo [RC: Sardelli!?] … Sardelli! Sardelli! … ha detto il nome giusto: Roberto Sardelli. Poi anche un amico con cui … ci fu lì una sollevazione; lui aveva detto che in quel posto lì c’erano le zecche e tutte le madri dei ragazzi si sono sollevate: «Noi siamo puliti, non abbiamo le zecche» [ riprende il discorso sul cosa fare in sociologia – N.d.R.] …

RC: “Alcune delle persone che resistettero quando arrivò la ruspa, sono ancora in sede, vivono ancora a valle Aurelia e adesso quella che era la Casa del popolo [del Lavoro – N.d.R.] è abitata da immigrati, probabilmente in queste stesse ore stanno intervistando una signora peruviana che è lì, alla Casa del popolo …”

FF: “No, lei sta dicendo un punto [INC] su cui io sono, credo la professoressa Macioti e altri che lavorano con lei sarebbero pronti … io posso dire che sugli immigrati ho visto il fenomeno, lo capisco, ma io credo che anche ci sia una sorta di sostituzione dell’esclusione sociale …” [torna a rispondere sull’esclusione sociale, dei flussi migratori irlandesi negli USA, dalla Germania, dell’Europa e dall’Italia … della stratificazione della collocazione di questi flussi, della dialettica del baraccato, di An American dilemma, dell’idioma ispanico in Los Angeles, dei Romani e della lingua latina ecc.; della presidenza Obama; della posizione degli immigrati in Italia e a Roma e della sostituzione – N.d.R.]

SDP: “Posso io fare una domanda sui punti che ha toccato e sempre la valle dell’Inferno, valle Aurelia. Senza cadere in quello che lei stesso chiama “materialismo ingenuo” … durante il convegno tavola rotonda alla Parrocchia S. Giuseppe al Cottolengo del 1981,  Mario Sanfilippo dice chiaramente che le fornaci erano nate lì perché c’era la materia prima e poi chiaramente di struttura e sovrastruttura. Ora, anche rispetto a ciò che lei ha detto, ritiene che Valle dell’Inferno sia un vero esempio tipico, anche da presentare didatticamente, come fenomeno, dinamica di materialismo storico ortodosso?”

FF: “Io credo che il materialismo storico ortodosso credo che sia una forma di difesa per chi non vuole pensare fino in fondo i problemi. Per me rispetto al marxismo che poi finisce per essere materialismo storico ingenuo è il Diamat staliniano [parla di marxismo, di alcuni degli epigoni della teoria marxiana e di altre cose … N.d.R.]

[1h37’39”] termina la registrazione con saluti di commiato.

IL RITORNO DELLA SOCIOLOGIA IN ITALIA

Intervista a Franco Ferrarotti su “Filosofia e sociologia” (Roma, 13 febbraio 1986)

A cura di Roberto Cipriani

Legenda:

FF=Franco Ferrarotti

RC=Roberto Cipriani

FF: Ricordo, riandando a molti anni fa, parlo di prima della fine della guerra, stavo già facendo la traduzione del Veblen[1] e stavo scrivendo i Fondamenti logici della sociologia di Thorstein Veblen[2]. Perché poi io fossi intestardito con la sociologia, questo non me lo sono mai del tutto spiegato io stesso. Qui c’è un elemento indubbiamente metateorico, cioè, detto in parole comprensibili, volevo qualche cosa di meno astratto della filosofia, che allora era la filosofia panlogistica, idealistica, crociana[3], eccetera, eccetera, anzi, più che crociana, gentiliana[4]. Qualcosa di meno astratto. D’altra parte, qualcosa di meno arido dell’economia politica, dell’economia, che conoscevo soprattutto attraverso Bordin[5], professore di economia politica a piazza Arbarello, lì alla Facoltà di Economia e Commercio di Torino, dove adesso c’è Francesco Forte[6], e altri. Debbo dire che vedevo nella sociologia uno strumento, direi una disciplina mediana fra filosofia ed economia. Molto strano, però, questo. Poi la ragione, se si vuole immediata e contingente, è che io allora passavo interi inverni a Sanremo perché avevo una debolezza di bronchi, insomma per molte ragioni, avevo dei parenti, stavo lì a Sanremo, ci passavo mesi. Devo dire che questo avveniva prima ancora, proprio negli anni in cui di regola si fa il ginnasio-liceo, a 14, 15 anni. E lì frequentavo una biblioteca, la biblioteca che c’è in Piazza del Municipio, su nella Sanremo, all’inizio di Sanremo vecchia per andare al santuario della Madonna della Costa. E lì trovavo moltissimi, splendidi libri. Ma l’acquisto dei libri era fermo al 1920, quindi trovavo praticamente tutti i grandi testi dell’epoca aurea, della stagione aurea del positivismo italiano, da Niceforo[7] a Enrico Ferri[8], Sighele[9], Savorgnan[10], Benini[11]. Direi che senza saperlo, grazie a questo ritardo nella politica degli acquisti nelle biblioteche, riscoprivo per conto mio la sociologia, o meglio quell’atmosfera positivistica in cui la sociologia in Italia era fiorita. Perché poi la cosa più strana, noi − io l’ho, però, questo l’ho scritto, quindi mi sento un po’ a posto − ma non ci si rende conto che intorno al 1880-’90 e il 1900 l’Italia era uno dei quei paesi in cui più forte era lo studio della sociologia. Stranamente la cultura accademica l’aveva sempre tenuta un po’ ai margini, perché non era mai divenuta, non c’era mai stata una cattedra ordinaria. Anche Alessandro Groppali[12] insegnava nelle Facoltà di Giurisprudenza, oppure a Medicina, una sociologia vicina alla criminologia. Non esisteva la sociologia in senso pieno, perché uomini come Enrico Ferri erano soprattutto interessati alla vita politica, erano dei politici in sostanza. Ora, le dicevo di Abbagnano[13]. Abbagnano − è noto come è andata − io mi son trovato con lui poi nel ‘49, terminata la traduzione di Veblen, uscita nel gennaio, i primi giorni del ’49, e puntuale il 15 gennaio è arrivata la stroncatura di Croce[14] nel Corriere della Sera. Fin dall’anno prima, credo, quell’inverno, quella sessione invernale mi ero laureato; ma mi ero laureato grazie ad Abbagnano contro Augusto Guzzo[15] che in realtà era il mio relatore. Io venivo da filosofia teoretica e il mio professore, diciamo così, per quel tanto che l’avessi frequentato, era Guzzo, che insegnava allora, teneva il seminario avanzato a via Po 18, di fronte all’università, dall’altra parte, una specie di convento. Andavamo lì, e lì c’era gente tra l’altro come Cecchini, Gheruzzo, c’era poi Giovanni Cairolo che sarebbe diventato assistente di Abbagnano ma è morto molto giovane, prima dei trent’anni, è morto di tisi, molto bravo. E poi c’era Pizzorno[16], tra gli altri, che ricordo un anno o due avanti, ché Pizzorno ha qualche anno più di me. Ma in sostanza allora mi trovai molto a mal partito perché il mio relatore, Guzzo, non voleva firmarmi la tesi. Perché la tesi l’avevo scritta a Londra, nel ’46 ero a Parigi, nel ’47 ero a Londra − tra il ’47 e il ’48 a Londra − e giustamente a Londra, lì almeno avevo i libri di Veblen, c’erano, andavo alla London School of Economics e tiravo giù i libri. Avendo straudito questa discussione tra me e Guzzo nella sala dei professori, Abbagnano, che stava leggendo il suo giornale vicino alla finestra, lontano, si è avvicinato a piccoli passi “Che è, che è?” “Ah, buongiorno professore”. E allora Guzzo gli dice “Be’, questo sarà un geniaccio, questo nostro clericus vagans − mi chiamava sempre così per i miei viaggi − però io non so niente di queste cose, che è questo Veblen, poi sa, la sociologia …”. Guzzo era rimasto molto crociano, eh, molto di stretta osservanza! Abbagnano, che invece veniva da Aliotta[17], da Rensi[18], aveva un interesse tutto metodologico alle scienze, mi si avvicina: “La firmo io”. E appena fatta la tesi, il giorno dopo cominciavamo i «Quaderni di sociologia» e lui accettava di fare il mio vice direttore, cosa che allora mi sembrò del tutto normale. Però glielo domandai “Ma come mai accetti di…?” E lui mi disse “Be’, ti dirò che io ho elaborato questa risposta positiva all’esistenzialismo heideggeriano, però se noi diciamo che l’uomo non è né finito né infinito, non è né disperato, né, diciamo, felice per natura, l’uomo è semplicemente nella situazione e fronteggiato da una possibilità, però una possibilità che corrisponde alla sua capacità di stabilire l’equazione migliore fra ciò che vuole e il suo progetto e le circostanze di fatto, allora, detto questo, è chiaro che il seguito critico non può che essere una ricerca sociologica, perché bisogna accertare la situazione”. Questo è interessante, me lo disse proprio lui, Abbagnano. E me l’ha ricordato ancora recentemente. Penso che sia ormai a una veneranda età, e fa l’assessore della cultura a Milano. Sta di fatto che  il mio sodalizio con Abbagnano, che per molti è rimasto molto strano, era però invece legato, primo: a un bisogno comune −  lui, è chiaro, era già professore ordinario, intendiamo − e il bisogno forte in me di premessa o comunque di un punto di partenza filosofico,  in primo luogo. In secondo luogo: una partenza filosofica, che però non cadesse nel panlogismo astratto, quindi io rifiutavo l’essere indeterminato, hegeliano, come punto di partenza, il punto di partenza era la prassi, era la specificità. Terzo: era lì che c’era la convergenza proprio con Abbagnano il quale, d’altro canto, da La struttura dell’esistenza[19], da quel bel volume, e anche dal suo Le origini irrazionali del pensiero nell’antica Grecia, debbo dire − o Le fonti, Le fonti irrazionali[20],debbo dire che Abbagnano era in effetti alla ricerca proprio di un esito positivo, di un approdo positivo, perché altrimenti sarebbe rimasto sulla posizione di Heidegger[21] e non voleva però essere sulla posizione di Gabriel Marcel[22], cioè dell’esistenzialismo cristiano, o di Louis Lavelle[23], Le moi et son destin[24], L’io e il suo destino. Non voleva questo, né si contentava, anzi, era abbastanza orripilato dalla tendenza misticheggiante e un po’ solipsistica di Kierkegaard[25], il concetto dell’angoscia, che allora era proprio tradotto dalla Sansoni[26], era uscito in quel momento. Che poi eran tutte cose, bisogna anche capire che tutto l’esistenzialismo era terribilmente in voga. Perché? Perché la crisi era dappertutto, c’erano i bombardamenti, c’era questo senso della solitudine dell’individuo … E poi avevo un certo non dirò disprezzo, ma prendevo le distanze rispetto a Sartre che reputavo un letterato (…). Sa, la cosa molto bella di Abbagnano era che apriva questa categoria della possibilità, della coscienza possibile, quasi, vorrei dire, in termini luckácsiani[27], no?, un orizzonte di pensiero tutto diverso. E quindi, la sociologia, che io poi sviluppavo, era in fondo, … e qui c’è proprio la ragione intrinseca, al di là della simpatia umana, poi non ci si vede più, ma qui c’era qualcosa che è mancato a molti altri sociologi italiani. Non c’era semplicemente l’accettazione del momento sociologico, ormai Croce basta, questo tabù, questo pregiudizio antisociologico, ma c’era invece una vera e propria collaborazione. Cioè la sociologia, senza la guida teorica di un pensiero filosoficamente maturo, per me e per lui scadeva a sociografia. E lui era molto d’accordo con me sul piano di lavoro, quel piano di lavoro che ho scritto io per i «Quaderni di sociologia». La prima collaborazione, abbiamo cominciato nel ’51, e io dicevo che la sociologia come impresa conoscitiva e ricerca empirica concettualmente orientata non esisteva in Europa e particolarmente in Italia per via della dittatura idealistica che negava addirittura l’esistenza di questa scienza, e neppure negli Stati Uniti. Questo mi è sempre sembrato un po’ forzato, ma neppur negli Stati Uniti, per via del paleo-positivismo che portava al frammentarismo delle ricerche. Poi andai lì, proprio per vedere queste cose, e andando lì mi resi conto che il frammentarismo non era soltanto dovuto a una ragione interna, a una debolezza teoretica, c’era anche questo, ma il frammentarismo era proprio dovuto alla stessa floridezza della ricerca, che era tanto più florida quanto più era subserviente agli interessi, diciamo pratici, vero?, legittimi eh!, interessi legittimi, pratici, per loro natura estremamente diversificati. Per cui si andava − che so io? –  dalla città di Chicago, che voleva far fare certe ricerche o comunque si sviluppava, l’azione, eh, lì c’è la Scuola di Chicago, cioè ricerche che stavano fra l’urbanistico, l’economico e l’ecologico, e poi i vari aspetti della vita metropolitana e le ricerche di comunità e soprattutto le ricerche di mercato, le ricerche manageriali di Rensis Lickert[28], le Yankee City series di Lloyd Warner[29], e poi più tardi, per esempio, non so, le ricerche sui militari di Stouffer[30], l’American Soldier[31], tutte le grandi ricerche americane. Allora di lì veniva anche quello che mi piace chiamare “Il sogno di Scipione”, cioè unire un pensiero teoretico forte, maturo, diciamo pure di chiara ascendenza sistematica europea, unire questo con le tecniche specifiche di indagine, test di correlazione significante, la significanza, la significatività della correlazione, lo scostamento quadratico medio, campioni rappresentativi, questionari, eccetera. Questo era il primo momento, avevo questo entusiasmo, il ‘51 quando io sbarcai a New York; poi invece mi resi conto che nelle tecniche era implicito tutto un mondo di valori, no?, non si poteva fare l’unione. Non si poteva perché le tecniche di ricerca, se sono assunte come assoluti, cioè distaccate dal problema, dalla ricerca effettiva, queste tecniche di ricerca hanno in sé una presunta autonomia, un’autosufficienza che le costituisce in opzioni teoriche. Cioè l’item, il frammento, diventa l’inizio e la fine di tutto e le domande globali non vengono più sollevate, perché la domanda globalizzante viene per definizione considerata o come truistica o come misleading, insomma, come fuorviante, o anche come proiezione puramente ideologica. Quarto momento, tanto per farla breve – da notare che nel terzo momento si ha il collegamento fra tecniche di ricerche empiriche e struttura teoretica –, le tecniche, cioè, i metodi riduttivamente e specificamente intesi, erano per definizione ancillari rispetto al momento teoretico, sempre. Evidentemente, la chiara visione della degradazione della ricerca, meglio dell’analisi sociologica ad analisi sociografica, proprio per il prevalere della tecnica sull’impostazione teoretica e però anche la realizzazione piena, che ho sempre avuto, la realizzazione piena che questa degradazione era proprio relativa a un rovesciamento del rapporto, cioè si metteva sopra ciò che andava sotto, si metteva al posto del dominio ciò che invece era ancillare. Ma ciò era dovuto anche al fatto che si era appunto dimenticato ciò che invece stranamente i primi sociologi conoscevano molto bene, si era dimenticata l’importanza – per comprendere i fenomeni sociali – delle testimonianze dei protagonisti, cioè il momento qualitativo. Io l’ho sempre tenuto presente in qualche modo, ma, ecco, in fondo questa era l’eredità negativa del paleopositivismo: l’avere decapitato, in qualche modo, o meglio, l’aver impoverito la testimonianza umana dei protagonisti dei fenomeni sociali. Cioè i fenomeni sociali alla fin fine erano fenomeni di uomini e donne viventi in società, dentro strutture … Qui recuperavo una certa ispirazione, forse addirittura esistenzialistica, cioè un certo gusto perché nella testimonianza, nelle storie di vita, c’è per esempio la tematica del tempo, l’angoscia del tempo che finisce, l’angoscia della morte. La storia di vita è il corso della vita, no?, il corso della vita, quindi il momento della necessità di periodizzare, … dicevano, cioè, c’è tutto, c’è del vissuto. Ora questo vissuto è quando Sartre[32] dice che l’esistenzialismo è un humanisme e anche Heidegger del resto, nella sua lettera sull’umanesimo. In fondo cosa voglio dire: è un vissuto. È un esserci, è un dasein, essere lì, esserci. E c’è qualcosa al di là di noi. Ecco. Questa specie di ontologia ontica, è vero? Ora, questo per me era essenziale. Mi son poi convinto che era essenziale. Quindi, stranamente il ritorno della sociologia in Italia per questa via non recuperava direttamente la sociologia italiana prefascista. Anche se nei vecchi «Quaderni di sociologia» facevo fare i medaglioni, e io stesso ne ho scritto, parlato, eccetera; perché l’iter era diverso, era proprio un iter filosoficamente molto consapevole, molto consapevole. Infatti, debbo dire, era il caso del mio studio preparatorio poi per la mia tesi, che perdetti, un manoscritto che andò smarrito. Venivo in motocicletta da Sanremo, dove stavo e lo perdetti, fu perso; perdetti proprio la valigia, o mi fu rubata, non so come è andata. Perciò io, venendo in moto, l’avevo consegnato a una corriera che faceva servizio. La ditta si chiamava SATTI, società autotrasporti qualcosa[33], faceva servizio da Sanremo a Torino, tutti i giorni. Io andavo in moto e diedi questa valigia al conducente, lì, perché la portasse a Torino, convinto che l’avrei presa la mattina dopo. Ma ci fu un grosso temporale, c’era del cattivo tempo, io dovetti pernottare credo a Novi Ligure, perché la moto non funzionava più e arrivai con un giorno di ritardo e la mia valigia era scomparsa. Lì avevo un manoscritto su Cartesio[34]. Le ricerche di logica cartesiana, non solo il Discorso del metodo[35] ma anche Le meditazioni cartesiane[36], le ho studiate molto attentamente. Nei testi, andavo a Nizza lì, avevo la biblioteca francese, nei testi originali, avevo duecento pagine, lì, purtroppo, allora non c’era fotocopiatrice, era tutto era scritto a mano, proprio un manoscritto. È andato perduto e allora ho perso, ebbi un momento molto difficile, proprio di crisi personale. Sa, son quelle perdite quasi irreparabili! E poi mi sono scosso, ho detto “Mah, succede, facciamo un’altra cosa”. Ma sempre, per me, per riassumere un po’ la crisi, questa, la critica che muovevo a Cartesio era proprio la famosa critica che poi ormai è di dominio comune, insomma: cogito ergo sum, e io aggiungevo sum cogitans, eh, cogito ergo sum cogitans. A parte il fatto che cogito, in assoluto, pensavo di pensare qualche cosa, lo riannodavo un pochino. Be’, questa è la storia, di Abbagnano. E l’interesse, come mai in Italia – questo, ecco so che lei è interessato a questa questione – insomma … si sono dette molte sciocchezze. Certamente la fine della guerra, e quella fine, quel disastro certamente rendevano, sia la guerra, che la fine della guerra, la catastrofe, rendevano l’ottimismo panlogistico hegeliano[37], hegeliano e crociano, nella sua forma crociana soprattutto, nella dialettica riformata, rendevano tutto del tutto incongruo. Vero? Non reggeva proprio più. Quindi io annetto alla guerra una grande importanza. E poi spirava un vento di rinnovamento, cioè molti andavano verso il marxismo, piuttosto, e i marxisti erano violentemente antisociologici. Era una cosa che mi piaceva. Per esempio il mio libro La protesta operaia[38] uscì nel ’55 e fu violentemente attaccato da un fondo de l’Unità, molto duro, firmato da Paolo Spriano[39], lo storico. E Fabrizio Onofri che, poveretto, è morto, che allora era membro del Comitato centrale, era uno degli adepti di Togliatti. Togliatti amava circondarsi di persone chic, un po’ nobili, aristocratici. Qui proprio qui a Roma, lui viveva a Montesacro, Montesacro, non lontano da qui e insomma, anche nobili, così, aveva questo gusto. E poi c’era Franco Rodano[40]. Fabrizio Onofri ne Il Contemporaneo, mi aveva scritto un terribile articolo contro. Veramente molto polemico. Era un articolo che in fondo avrebbe dovuto farmi soffrire – ma invece non lo presi sul serio – intitolato Il Maometto di Olivetti, i marxisti, i comunisti italiani solo recentemente, e non ancora del tutto, si sono liberati del pregiudizio antisociologico. Sono stati i crociani più fedeli: è una cosa incredibile. Crociani più fedeli, ancor oggi se lei vede bene, per esempio questo libro, io anzi adesso, forse Pozzi[41] lo recensirà, di Portelli, Alessandro Portelli[42], Biografia di una città[43], Terni, eccetera. Sempre, insomma, mai, non si parla mai di sociologia, è sempre piuttosto storia, la storia. Piuttosto che far sociologia come tale loro faranno della storia sociale, in ritardo, vent’anni, trent’anni di ritardo rispetto ai francesi, però faranno questo. C’è un forte pregiudizio anti sociologico. Quindi la lotta era molto difficile. La lotta era molto difficile, devo anche dire che oggi la generazione intermedia dei sociologi italiani, i quali hanno molte ragioni, perché insomma non sono più tempi così, questi, e poi hanno studiato anche meglio le cose. Però tendono, a mio giudizio, a sottovalutare la difficoltà di quei momenti; è molto difficile. Infatti, personalmente non avevo nessuna speranza nel mondo accademico, tanto che Abbagnano mi disse “Perché non fai l’assistente di filosofia?”. “Beh, io sono, io sono per la sociologia, e filosofia non se ne parla; ma nient’altro, faccio solo sociologia”. Lui mi fa “Ma no, tu non entrerai mai nell’università”. Ho detto “Beh, poco male”. Facevo altre cose; avevo molte frecce al mio arco, quindi non è che mi facesse … anzi, devo dire che il mondo accademico non mi attirava molto. Però nel ’53, quando sono tornato dagli USA, e stranamente, ecco, questa è un po’ l’Italia, l’Italia è una società che ti offre all’improvviso delle smagliature. Bastò che io, tornando, così, lavorando un anno al CEPAS[44], poi al Magistero, proprio perché il Magistero era una facoltà in crisi, una facoltà di scarso prestigio, quindi non, più aperta per questo, no, ma diciamo più avventurosa, d’altra parte però una facoltà … ci avevano insegnato Guido De Ruggiero[45], Luigi Pirandello[46], Antonio Labriola[47], cioè, voglio dire, una facoltà interessante. Franco Lombardi[48] si diede da fare, Franco Lombardi che poi è un po’ un ‘impresario culturale’, una brava persona. Ecco, quando si mossero i milanesi e i torinesi, purtroppo era già tardi perché io avevo già fatto una serie di cose. Anche un uomo come Barbano[49] non ce la fece: arrivò tardi pensando di arrivare per primo, con il suo Merton, una specie di Parsons a mezza cottura, che invece del “social system” si contentava delle “middle range theories”. D’altra parte, siccome avevo detto questo anni prima, avevo pure rifiutato di fare l’assistente di filosofia con Abbagnano, perché ero solo per la sociologia, quando Abbagnano si trovò in commissione (questo me l’hanno raccontato, non so più chi, me l’ha raccontato forse Lombardi, credo; la prima commissione del primo concorso di sociologia era costituita da Franco Lombardi, Camillo Pellizzi[50] – che insegnava sociologia ma come ex letteratura e ex “mistica fascista”, era letteratura inglese ed era riuscito a passare a sociologia con un atto di furbizia, bravissimo, Pellizzi in questo aveva capito, no?, con un unico voto del Consiglio superiore dato da don Sturzo, perché Sturzo l’aveva conosciuto a Londra, quando lui era direttore dell’Istituto di Cultura fascista, a Londra, durante la guerra, prima, anche prima della guerra, quando lui, Sturzo, era esule e andava a prendere il thè dalla signora Pellizzi –; dunque c’era: Lombardi Franco, Camillo Pellizzi, Francesco Vito[51], della Cattolica, Renato Treves[52], di Milano, crociano sempre, ma insomma, e poi finalmente Nicola Abbagnano), ebbene, mi fu raccontato che quando cominciarono a discutere, Abbagnano, come al solito, lui, tranquillo, modesto, silenzioso è intervenuto dopo che tutti avevano già parlato: “Scusate, ho una cosa da dire: sul primo posto non si discute, questa è la mia posizione, non se ne parla neppure, perché il primo posto in questo concorso è per Ferrarotti; poi adesso apriamo il discorso sul secondo e sul terzo”. Perché c’era, per esempio Treves preferiva mettere in terna Angelo Pagani[53]; e poi c’erano dei dubbi – i dubbi si sono poi verificati diciamo fondati, si sono rivelati fondati a proposito del fiorentino, Giovanni Sartori, che infatti poi due anni dopo passò a Scienza politica. Avrebbe dovuto fare Dottrina dello Stato, ma con i giuristi non ce la faceva. Quindi praticamente io mi trovai, ero a Parigi, cioè, cioè non avevo neppure, non ho fatto nessun lobbying, non sono neppure andato a trovarli, questi commissari, ho avuto però, questo lo riconosco, infatti lei giustamente lo rileva, c’è stato tra me ed Abbagnano questo incontro. In fondo, poi bisogna anche pensare cosa vuol dire questa rivista messa in piedi così, in fondo, fra noi due.  Avevo una rivista, potevo farla o con Einaudi, che allora faceva Cultura e realtà, la rivista della Ginzburg[54], di Cesare Pavese[55], eccetera, che poi però finì dopo tre numeri, oppure con l’Olivetti, con le Edizioni di Comunità, che riprendevano allora in grande stile e che già pubblicavano la Rivista di filosofia. Invece Abbagnano disse: “No. Facciamola noi, così siamo noi, facciamo noi quello che vogliamo, cioè la facciamo uscire con calma, tanto”. Ha detto: “Fa niente, facciamo una piccola cosa e poi mia moglie”, dice, – era la seconda moglie, Marion Taylor –, “ha una piccola casa editrice[56]”, eccetera, eccetera. Io allora scrissi, diedi loro, siccome poi partivo per l’America proprio nel ’51, appena uscito il primo numero (e allora partire per gli Stati Uniti era veramente come emigrare per sempre, perché sì, io partii da Genova su una piccola nave, chiamata Atlantic, della Home Lines, che adesso m’han detto che è stata messa in disarmo, od usata come nave da carico. Chissà che fine ha fatto?[57] Cioè non sapevo più se tornavo)  lasciai a titolo diciamo di beneficio post mortem una dichiarazione a mani  proprio della signora Taylor Abbagnano,  in cui riconoscevo, benché io fossi responsabile e proprietario della rivista, riconoscevo che la proprietà andava a loro nel caso che io non fossi tornato … Devo dire forse questo è stato da parte mia, io ritenni che fosse doveroso, forse è stato anche un po’ avventato, ma insomma tanto poi le riviste secondo me se uno le inventa poi le manda per il mondo, non è che le deve tenere al guinzaglio, come  fossero dei cani.  Sa, se presa una certa direzione a uno poi non gli piace, ne fa un’altra; che precisamente è quello che poi ho fatto nel ’63, nel ’64, e poi nel ’67 con «La Critica Sociologica». Ma perché poi, c’era prima di tutto questa guerra, poi il processo di industrializzazione. Quando Abbagnano mi diceva “Faccia filosofia!”, io le debbo dire, Cipriani, guardi, io perché avevo la sponda di Olivetti, che lui non aveva, io, giorno per giorno, accanto, perché io ero proprio addetto alla presidenza, non facevo parte della ditta, ma avevo un ufficio accanto al presidente, nella ditta, al secondo piano, in un grosso palazzo di vetro. E mi rendevo conto, ho detto: la sociologia deve venire. Ecco, qui la gente dice: è venuta perché c’erano gli americani che hanno vinto la guerra, perché mi pare che qualcuno ha detto l’infelice frase “al seguito dei carri armati americani”. Sciocchezze! Pare che sia stato Alessandro Cavalli[58] a dire una frase del genere, in Iugoslavia o non so più dove. Spero che non l’abbia detto, questo! Certamente però Gallino[59] dice alcune cose anche incredibili … Un fenomeno culturale non lo puoi spiegare solo in termini, diciamo, metaculturali, in termini subculturali. Il fenomeno culturale, però, era vero, vedevo insomma questa società che cambiava. Noi lì nel Canavese addormentato, sa, il paese di Gozzano, una cosa idillica, campestre, un po’ bucolica, eh! Però invece le cose cambiavano. Questa ditta diventava, io ho vissuto i momenti fondamentali attraverso i quali la Olivetti, da impresa relativamente piccola, protetta anche dal fascismo mediante l’autarchia – questo va detto, eh, guardi che i soldi gli Olivetti li hanno fatti durante la prima guerra mondiale, poi la concorrenza è stata sgominata dal fascismo – ebbene, debbo dire che ho proprio visto come questa ditta stava diventando un’enorme multinazionale. Questa è proprio una grossa esperienza … Altre ragioni? … Credo che c’era un insieme di ragioni. Non c’era una ragione singola. Sì, uno può ipotizzare naturalmente una priorità, una tavola di priorità dei fattori, della loro incidenza relativa, delle novità, quindi rottura delle vecchie mentalità, superamento di certe cose, industrializzazione, bisogno di razionalizzare i cicli produttivi, distributivi, i comportamenti sociali, pensare al bisogno proprio di conoscere. Insomma, la società ha bisogno di conoscere se stessa. E da questo punto di vista certo, tutto il sommovimento creato da Torino, Milano, questo pompaggio dal sud è importante, anche se poi i sociologi non è che abbiano detto molto, ma insomma …

RC: Io vorrei un attimo riferirmi proprio alle origini del discorso. Dunque lei m’ha detto che in sostanza l’incontro con Abbagnano fu casuale, in qualche modo.

FF: Sì, perché io non avevo professori.

RC: Ecco, questo volevo, volevo un attimo accertare.

FF: Ma se avessi avuto professori non avrei potuto fare sociologia, perché la sociologia era la tipica scienza di un cane sciolto. Non si poteva scegliere, perché non c’era proprio. Lo stesso Abbagnano non è che la volesse. Anzi una volta Lombardi mi disse che non Abbagnano aveva fatto un favore a me, ma io a lui, perché lui era arrivato in fondo, alla fine del suo pensiero. Doveva allora cominciare a far ricerche per le quali non era equipaggiato … Però sta di fatto che il suo aiuto, per esempio nel concorso, fu molto importante. Perché poi fu chiesto il concorso. E lì ci sono delle cose  di ordine molto pratico. Per esempio Francesco Piccolo[60] che era il preside da sempre, è vero?, di Magistero, quando io diventai professore ordinario al Magistero, entrai come professore di ruolo e poi ordinario, eravamo in sette; si fa presto: non c’era ancora Filiasi Carcano[61], non c’era Pietro Prini[62], non Giorgio Petrocchi[63], non c’era il buon Gaetano, come si chiama, Mariani[64], che è morto. Niente, c’era: Piccolo, Umberto Bosco[65], Luigi Volpicelli[66], Caraci[67], Marmorale[68], Franco Lombardi, che stava andando via, e io. Sette.  E il criterio di Piccolo fu incredibile. Un bel momento si trovarono, nel ’59, con una cattedra in più. Avevano già dato le cattedre, e Umberto Bosco, io fui anche favorito dal conservatorismo, non voleva troppe cattedre per non dover chiamar troppa gente. “Che ne facciamo di questa cattedra?”, questo è il punto. Allora non si sapeva bene. E niente,  Piccolo disse – ricorderò sempre questo criterio, di un pragmatismo sconcertante –, proprio questo filologo romanzo, il quale dice “Beh, la diamo a quelli che hanno fatto più tesi di laurea.” Io all’epoca, devo dire grazie poi al buon Antiochia[69], meno forse ad Ancona[70] (Ancona brillava per la sua pigrizia),  Antiochia in quegli anni, io gli sarò per sempre,  poi le cose sono andate come sono andate[71], io gli sarò sempre molto, molto, molto grato per quello che lui fece, perché … Intendiamoci, lui lavorava per l’IMI[72], mezza giornata; ha fatto l’assistente volontario, veniva dal Partito comunista dopo l’Ungheria del ’56, veniva dai sindacati, era stato segretario di Di Vittorio[73], soprattutto di Bitossi, Renato Bitossi[74] che era il negoziatore, anche Di Vittorio sindacalista. Veniva dalla cavalleria di Pinerolo, un uomo con la sua esperienza. Lui mi era molto grato perché l’avevo preso così, senza neppur chiedergli chi era. Un giorno è comparso lì, mi ha detto: “Mah, io ho fatto il sindacalista, da ultimo, ma molte altre cose”. Ho detto “Mi basta questo”. Lo presi. Allora si lavorava molto. Io adesso non discuto, non voglio dire, non so, dovremmo ascoltare uno di oggi, della generazione intermedia, tipo non so, uno Statera[75]. Dice “Là si lavorava male”. Sì forse, anche, non è…, però, (si trattava) di un lavoro imponente. Noi facevamo più tesi di tutti gli altri messi insieme. Allora, cosa, io poi tenevo anche lì sacrificate evidentemente delle ore che avrei potuto usare diversamente; ma tenevo anche Scienze politiche, Lettere, è vero?, poi c’era, dopo poco c’era Trento; ero anche tra i fondatori di Trento, andavo su è giù tutti i lunedì, partivo domenica sera tornavo lunedì sera, col vagone letto. Il buon Piccolo dice: “Vediamo chi ha fatto più tesi”. Sociologia risultò una delle materie col maggior numero di tesi. E allora, niente “Teniamo sociologia”. Lì io poi dovevo, lei lo sa, dovetti affrontare una seconda difficoltà. La difficoltà era che il buon Gaetano Floridi, il vicedirettore generale della Pubblica istruzione, uomo stupendo, adesso in pensione, credo, Gaetano Floridi mi dice “Beh, Sociologia deve andare a Statistica, oppure a Giurisprudenza”, cioè il Ministero, non per cattiveria, per carità, ma il Ministero seguiva la tradizione, seguiva l’immagine tradizionale. Io allora, siccome abitavo a Monteverde vecchio, al Gianicolo, via Innocenzo decimo, allora per me era facile; venivo giù, via Dandolo, mi fermavo lì, e per qualcosa come tre-quattro mesi, due-tre volte a settimana, mi fermavo e salivo al secondo piano o al quarto piano, dov’è l’istruzione superiore. Andavo da Gaità, Gaetano, no?, Gaità, Gaetano Floridi[76], per spiegargli come e qualmente la sociologia era una materia perfettamente umanistica e per questo andava bene al Magistero. Quindi noi fummo favoriti da questa spregiudicatezza incredibile del filologo romanzo Piccolo, vero?, preside; gli altri, Volpicelli, Bosco, che insomma accettarono. Poi, dalla relativa, diciamo, mancanza di prestigio di quella facoltà, che quindi era più aperta agli sperimentalismi, alle cose nuove – cosa che poi è stata verificata anche dalla presenza di psicologia, per esempio –, e infine da questa sotterranea, piccola cospirazione con Gaetano Floridi, il quale materialmente metteva poi i titoli delle cattedre sul tabellone; che allora lui aveva nella sua stanza, un enorme tabellone con tutte le facoltà e tutte le cattedre disponibili; come erano distribuite, con colori diversi: gialli, azzurri, rossi, no? Niente! Finalmente, un bel giorno, la sera, arrivai lì e mi disse “Franco, allora, beh, t’abbiamo accontentato. Abbiamo messo sociologia”. Ora lui non si rendeva forse conto, neppur io francamente, però era una cosa abbastanza storica; era la prima volta. Quasi subito dopo, celebrato il concorso, io ebbi una riunione di cui ho vivo il ricordo, con Sergio Cotta[77], da poco venuto qui a Giurisprudenza a Roma, come filosofo del diritto, e Norberto Bobbio[78]. Devo confessare una mia debolezza, andavo, andavo di fretta e quella mattina arrivai anche un po’ in ritardo. Loro erano già riuniti alla Facoltà di Giurisprudenza nell’ufficio di Cotta, loro due. Io non capii bene, non percepii, cioè capii che era una cosa importante perché uomini come Cotta, ma soprattutto come Bobbio, già allora, non è che convocano una riunione così per battere l’aria; è gente che … Ma in sostanza non riuscii, cioè avevo, mah, avevo una certa prevenzione contro di loro. Non contro di loro come persone, ma contro il formalismo. Perché oggi si può dire tutto quello che si vuole, ma la sociologia è tornata in Italia contro il veto, crociano d’accordo, il veto marxistico d’accordo, ma anche contro il veto formalistico giuridico, che fu totale. E infatti loro poi deviarono cercando di, misero in piedi Scienza politica. Perché Scienza politica, la politologia, è tutta concepita in funzione antisociologica. Questo lo debbo dire. E la sociologia è considerata slabbrata, episodica, non seria, eccetera, eccetera. In fondo, un po’ contestataria. Beh. Quella riunione fu molto importante, retrospettivamente considerata, perché, con l’appoggio di Sergio Cotta, Bobbio mi disse con molta chiarezza, mi disse “Caro Ferrarotti, tu hai in mano la sociologia, no? Così come noi, come io tempo fa avevo in mano la filosofia del diritto. Allora hai due strade davanti. Intanto, premessa: bisogna fare quello che Cesare Musatti[79] e Gemelli, Agostino Gemelli[80] hanno fatto a Milano, cioè bisogna costituzionalizzare la situazione: uno a te e uno a me. Quanti? Pochi! Perché le vie son due: la via di un controllo serio – il discorso era sempre fatto in nome della serietà scientifica –, controllo molto serio, la via impone un numero esiguo. Quindi, pochi concorsi, poche cattedre, cinque al massimo nei prossimi quindici anni, come filosofia del diritto, e secondo un criterio metà-e-metà: laici e cattolici, cattolici e laici, come Gemelli e Musatti avevano fatto per Milano”. Beh, io gli dissi di no; in faccia. Non lo so. Insomma parlarono…, cioè io dissi di no, probabilmente proprio perché ero contro persino l’idea di pensare in termini costituzionali questa faccenda. Loro avevano ragione, forse, a considerare oggi il fatto che la disciplina ha imbarcato degli avventurieri, delle persone, in fondo, diciamo la verità, con cui uno non ci sta bene insieme perché non sono studiosi. Sono degli avventurieri. Io stesso ho chiamato persone che si son poi rivelate, magari sull’onda emotiva, ideologica, sembrava, poi in realtà si sono rivelati poveretti.  Niente. Ma io, però, rifiutai l’approccio maltusiano. Nettamente!

RC: Questo avviene …

FF: Quando io avevo…, nel sessantadue …

RC: … abbastanza dopo.

FF: … eh, beh, però, nel sessantadue feci la mia prolusione di ordinariato. Scattati i tre anni solari, è vero?, io ero ordinario. Anzi, la mia prolusione di ordinariato fu poi pubblicata. Era Macchina e uomo nella società industriale, quello della ERI[81]. Fu pubblicata. Tenni, tenni proprio la prolusione nel Magistero, lì al piano di sopra. C’erano ancora però gli statistici, ancora lì, ma insomma, noi avevamo già una stanza, una, o in biblioteca forse. Vennero, vennero tutti. Fu una bella cerimonia. E io dissi di no. Questo avvenne proprio non appena fui ordinario. E cioè dissi di no perché ritenevo che la sociologia non dovesse essere una disciplina diciamo minoritaria, piccoli numeri. Vedevo nella sociologia proprio una vera vocazione sociale. Una vocazione sociale a diventare, ai vari livelli, anche operativa, vero? Quindi ci volevano dei numeri, ci volevano grossi numeri. Tra l’altro non avevo tutti i torti, perché negli anni in cui ero incaricato vedevo queste migliaia di persone che venivano a far … vabbe’, ci sarà stato un venti, un trenta per cento di profittatori, restava però un sessanta, settanta, l’ottanta per cento di gente che aveva interesse. E c’era nell’aria. Poi a questo bisogna aggiungere una certa mia attività televisiva, all’epoca, no?, facevo Vivere insieme. Bisogna aggiungere il Convegno dei cinque[82], che presiedevo molto spesso. Bisogna, non lo so, bisogna aggiungere anche il fatto olivettiano, l’industria. Il Sud si muoveva, l’immigrazione, insomma c’era il boom, il boom era dal cinquantacinque al sessantasette, alla contestazione. Il primo raffreddamento del boom era capitato proprio nel sessantadue, con la nazionalizzazione della Edison, la prima grande nazionalizzazione, l’unica grande nazionalizzazione: l’industria elettrica. Quello fu un colpo forte, infatti, mah, insomma. Io avevo finito nel sessantuno-sessantadue di costruire questa casa ed è da allora che abitiamo qui[83]. In sostanza era il boom, era ancora il boom.  Non so, l’uscita dell’Italia dal mondo rurale, proprio, importante. E poi io non avevo mai fatto vita accademica, quindi non capivo questa logica; non ero mai stato discepolo di nessuno nell’università. L’incontro con Abbagnano era stato appunto una coincidenza; voglio dire un convergere casuale di persone che si trovano simpatiche e pensano abbastanza allo stesso modo. Non a caso venivo, da autodidatta, da letture tardo Ottocento, primo Novecento; lui era l’allievo, l’ex allievo di Aliotta a Napoli, lettore di Rensi, studioso di metodologia, di storia della scienza; oh Dio, lui aveva anche, per bisogno di guadagnare, forse, credo, aveva anche lasciato un po’ i suoi studi originali, aveva fatto queste grandi opere manualistiche, è vero?, Storia della filosofia[84], il Dizionario[85], proprio, così mi pare d’aver capito.

RC: in quelle riunioni erano presenti Cotta …

FF: Cotta e Bobbio.

RC: Cotta e Bobbio.

FF: Noi tre. E devo dire, adesso schematizzo un po’ perché fu una riunione, io almeno la percepii in questo modo: loro erano due professori di filosofia del diritto; vedevano e chiedevano a me di vedere – e mi davano cioè un consiglio fraterno, per il quale io avrei dovuto essere grato –, vedevano la sociologia al loro livello. Cioè la sociologia, loro adesso son sette o otto mi sembra e ecco, non di più, una, e io … non capivo questo, non potevo capirlo perché ero contro il formalismo iuridico, avevo delle obiezioni contro lo stesso Bobbio, contro Cotta, eccetera. E loro in realtà, retrospettivamente parlando, forse non avevano tutti i torti, perché facevano, ragionavano da accademici; ragionavano da universitari. Io invece ragionavo da inventore, ecco… Il contrasto era anche col lato più umano. Il contrasto era tra amministratori di discipline accademiche: oculati, attenti, studiosi seri; e, diciamo, inventore di, quindi portato all’espansione, è vero? Questo è un po’ …

RC: Ma perché proprio loro? Perché proprio questi due filosofi del diritto e non altri?

FF: Mah, fu una circostanza. Io sono anche tuttora abbastanza amico, eccetera, vicino, e voglio dire, a una persona come Bobbio. Perché allora, no?, (la cattedra) fece molta impressione (…) Allora la prima cattedra di sociologia, nel mondo accademico di allora, fece una enorme impressione. E allora credo che ci fu una certa preoccupazione: forse questi sociologi diventano troppo importanti. Troppo numerosi, troppo … (…); dall’altro punto di vista, magari sa, vedevano che io avevo molte esperienza ma non conoscevo niente del mondo accademico, non ero mai stato, per esempio, assistente. (…) Non avevo fatto la carriera accademica, venivo dall’esterno, ero un outsider. Tra l’altro, forse loro questo non lo sapevano: proprio perché outsider avevo potuto aver l’idea di sociologia, cioè di una materia che non c’era. L’outsider non vuole ripetere, vuole una cosa che non c’era. Allora credo, ebbero la preoccupazione, per un verso se si vuole fare una, diciamo così, dare una interpretazione poco generosa, di non essere, diciamo, noyants[86] per un verso; ma io credo che per un altro verso, magari, (si trattasse) appunto di stabilire dei rapporti di collaborazione. Non dimentichiamo che Bobbio era molto legato poi a Renato Treves e viceversa. Treves d’altra parte ha sempre avuto la funzione fondamentale nella cosa sociologica di interessarsi della sociologia al fine di controllarne un po’ l’ambito, attraverso il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale[87], attraverso la prima AISS[88]. Basti dire che quando io fui eletto presidente dell’AISS, perché ormai ero ordinario, quindi dovevo essere io, non solo si dovette votare per una giornata intera – lui non voleva dimettersi – non solo, ma l’AISS cessò dal funzionare, perché io avevo Angelo Pagani[89] nella mia giunta, avevo, no?, e questi qui semplicemente avevano De Rita. Cioè il peso, il peso del gruppo milanese era tremendo. E io credo che dietro questo invito di Cotta – Cotta fungeva da ospite, ci ospitava –, e Bobbio, c’era una preoccupazione milanese. Ma questa è un’interpretazione. Un’altra interpretazione che io ne do, che è un’interpretazione proprio di massima buonafede, era un consiglio fraterno. Era anche una concezione diversa della vita accademica. Io avevo già una concezione post-contestazione, una concezione democratica aperta, un po’ slabbrata, disordinata, un po’ caotica, ma insomma molto presa dall’uomo, dal diverso, … Bobbio ancor oggi è la quintessenza del dejà vu, basta vedere come per esempio, quando presenta le cose, quando parla, è efficacissimo, efficace proprio perché il pubblico italiano da un professore s’attende, s’attende il pastore che parla, s’attende il verbo, il verbo, no?, il verbo. C’è un, diciamo così: c’è un’unzione particolare. Naturalmente poi, diciamo pure la verità, tutta la verità, vero?, sulle labbra, sulla bocca di un uomo di grande valore, con dei meriti notevoli. Nessuno ha dimenticato la sua polemica con Togliatti[90] a proposito delle regole della democrazia, eccetera, no, come Roderigo di Castiglia[91], famoso, Politica e cultura[92], vabbe’; un uomo che ha dei grandi meriti. Però, anche molto ligio alla figura, al ruolo dell’accademico tradizionale. Molto bravo, ma tradizionalista, conservatore, fedele agli antichi padri.

RC: Ecco questo su un versante. Su un altro versante c’è l’esperienza della Facoltà di Lettere e filosofia qui a Roma,

FF: Sì.

RC: che ha accolto la sociologia e che però poi, in qualche maniera, non ha più voluto.

FF: Sì. Ora, devo dire come cominciai. Cominciai col Magistero. Cominciai immediatamente ad avere, diciamo, offerte di andare altrove perché il Magistero, come ho detto poc’anzi, era facoltà di scarso prestigio, ed era per lo più considerato un trampolino di lancio. Si veniva al Magistero per venire a Roma. Una volta a Roma, si andava … Allora le facoltà erano due: c’era Scienze politiche da una parte, con il vecchio preside Raffaele D’Addario[93], che mi voleva molto bene. Ma era un fatto proprio, non lo so, di simpatia umana, non so. Non aveva figli, (…) lui per me stravedeva, questo D’Addario, e mi diede subito degli assistenti. Li portò via a Salvatore Valitutti[94], mi diede Carlo Mongardini[95], eccetera. Dall’altra parte c’era Lombardi: Lettere. E tutti mi dicevano: “Vieni a Lettere, dove c’è filosofia; tu sei anche filosofo”, eccetera, eccetera. Dall’altra parte invece “Vieni a Scienze politiche. Cosa stai a fare con queste ragazzine, no?, del Magistero, queste maestrine? Tu vieni qui, è una cosa seria”. Io debbo dire che un’offerta cancellava l’altra. Dirò con molta chiarezza. Primo: Scienze politiche era una facoltà dove avevo molto rispetto, ma piena di ‘elefanti’. Dal senatore Medici[96] all’onorevole Moro[97], più tardi, però. Io anche votai per Moro, insomma; Fanfani, no, Fanfani era Economia e commercio. Chi altri c’era? Era pieno di politici. Brave persone. Mi trovavo molto bene con loro. C’era Marzano[98], vecchio ragioniere generale dello Stato; c’era Mario Toscano[99], storico dei trattati, Ministero degli esteri. No, mi sono trovato sempre molto bene. Però c’era quest’aria di cimitero di elefanti, non so come dire, di grosso parcheggio per uomini che hanno fatto il loro cursus honorum e che si preparano a una morte gloriosa, tranquilla ma degna, no?, tutti così, tutti: ex ministri, ex primi ministri. C’era poi Franco Valsecchi[100] di storia moderna, nemico giurato della sociologia: “Scienze storico, storico-sociali. Cosa vuol dire? O sono scienze sociali, che non esistono, oppure son scienze storiche, la storia”. Questo era tipico, insomma. Più complesso il discorso di Lettere. Io a Lettere ho avuto grandi soddisfazioni, prova ne sia che gran parte del mio aiuto, personale d’aiuto al Magistero, veniva da Lettere. A Lettere mi trovavo molto bene, umanamente, eccetera. Andavo bene con Vittorio Somenzi[101], andavo bene con Gaetano Calabrò[102], benissimo Franco Lombardi, naturalmente e persino Ugo Spirito[103] e all’inizio persino Carlo Antoni[104], negli ultimi anni Carlo Antoni disse in pubblico “Ferrarotti mi ha convinto”, in una specie di convegno che si tenne in quegli anni, ma molto prima questo, eh, prima, io ero solo incaricato, al teatrino della Vittoria, a via Vittoria, vicino a piazza di Spagna. E lui disse – in un convegno, non so, sulla libertà, qualcosa del genere, dopo che aveva parlato Riccardo Lombardi[105], io avevo fatto una relazione che fu poi pubblicata come Sociologia e realtà sociale[106], – e debbo dargli atto, un ricordo veramente straordinario, questo, Carlo Antoni ha preso la parola, direi proprio il discepolo più fervente di Croce, è vero?, disse: “Oggi Ferrarotti mi ha convinto della opportunità e della utilità della sociologia”. Proprio! La gente non credeva alle proprie orecchie. Sa, queste cose si son dimenticate. Questa cosa fu pubblicata poi da Carlo Ludovico Ragghianti[107] nella sua rivista, rivista gialla che faceva a Firenze, chiamata «Criterio»[108]; di cui uscì qualche numero, poi scomparve.

RC: Questo, in che anno, più o meno?

FF: Era il 1956. Quindi siamo, io ero incaricato, ma insomma prima del concorso, ’58-’59, poi è stato espletato nel ’59-’60, nel ’62 ero ordinario. Ora, perché è più complessa la cosa di Lettere? Dunque, Spirito andava bene anche lui, anche se era contro la sociologia; ma la vera opposizione alla sociologia lì a Lettere, stranamente, è venuta dal gruppo Calogero[109]. Ed è venuta soprattutto non tanto quando c’era lui, che andava molto bene, perché, insomma, io attraverso il CEPAS che era stato fondato allora, andava molto bene. Ma soprattutto quando venne colui che aveva sposato la figlia di Calogero, Gennaro Sasso[110]. Lì cominciò in effetti nella discussione delle tesi, in cui mi trovavo benissimo con Morghen[111], mi trovavo benissimo, (…) mi trovavo splendidamente bene con Gabrieli, Francesco Gabrieli[112], mi trovavo bene con Santo Mazzarino[113], lo storico; bene con tutti. Meno bene coi giovani leoni della filosofia tipo, tipo Lucio Colletti[114], no?,  allora lui, che ha una mentalità da poliziotto, cioè lo dico con amicizia, cioè lui o fa la sentinella dello stalinismo, o fa la sentinella è vero?, della libertà, del liberalismo. Ma son persone, sono teste assolutizzanti che non possono … e allora lì era tutto proprio per la linea, no?, dura, no?, eccetera. Vabbe’. Quindi c’era questa situazione. Situazione difficile che faceva, che produceva un certo disagio, al punto che il nostro successo, che era indubbio, grande successo, però era visto, era un successo che dava sospetto, non solo per invidia, se volete. Beh, ci fu un fatto drammatico una volta, drammatico per modo di dire. Che senza dire nulla, mentre facevamo gli esami, Guido Calogero entra e si siede lì, accanto a noi. Non fa domande, niente, ma prende nota: il tempo di esame, le domande fatte agli esami, eccetera. Io naturalmente appena ho visto questo ho accelerato ancora di più gli esami. E questi dopo un po’ andò via. Non solo. Gli feci sapere che avrebbe dovuto venire. Se voleva venire doveva però, come era tenuto a fare, fare parte della commissione formalmente, doveva venire sempre, a tutti gli esami. Se non veniva sempre non sarebbe stato… Questo fu molto duro per lui e… Poi ci fu, ci fu, niente, su una rivista, non so più quale, forse la «Rassegna di Sociologia» [115]… Anzi, no; comunque nel ’67 ci fu una sparata – insufflata però – di Spirito contro le tesi di laurea in sociologia, e una mia risposta in cui dicevo semplicemente che mi stupivo di queste istanze critiche di Ugo Spirito a proposito delle tesi di laurea in sociologia, che non era strumentalmente in grado di leggere. Quindi, lui era stato un po’ pesante, ma la mia risposta non era leggera, insomma. Infatti lui se la legò al dito. Poveretto, poi doveva morire di lì a poco. Quindi, io poi francamente… Terzo punto. Dunque: no a Scienze politiche, no anche a Lettere, ma perché, non solo per questi motivi negativi, ma perché io, in modo se si vuole abbastanza irrazionale, sono rimasto molto legato e riconoscente alla Facoltà di Magistero. Capisco, non è una facoltà che mi interessi più tanto, questo lo ammetto. Tanto che (…) ero molto favorevole al dipartimento, in funzione antifacoltà. Non avrei mai potuto immaginare che sarebbe rimasta la facoltà insieme col dipartimento, ma insomma! Ma perché …, insomma, il Magistero, cambiato com’è, per me resta quel punto di inserzione nella struttura accademica italiana dentro la quale senza questa, questa smagliatura non sarei mai entrato. Ora non sto a dire se è stato un bene o un male, non lo so; questo nessuno può dirlo della propria vita. Però sta di fatto che mi piaceva trattare libri, mi piaceva scrivere o parlare di queste cose e lì son capitato e lì l’ho potuto fare. M’hanno chiamato. Quando il buon Marcello Boldrini[116] stava diventando Presidente dell’ENI[117] mi chiese di andare, portare la cattedra a Trento, io mi opposi ad Alberoni[118], (…) “Beh, allora perché non vieni tu?” “Beh, io sto a Roma, sto al Magistero, mi ha chiesto la prima cattedra, come posso lasciare?” E lui mi ha detto “Sai, Alberoni anche a me non piace tanto, però ci porta la cattedra. E poi viene dalla Cattolica. Lì c’è sempre, uno può essere peccatore finché si vuole, però viene dalla Cattolica e quindi è un ‘nostro’, insomma. No? Perché questo c’è, eh, fra i cattolici. Lei lo sa meglio di me che c’è questa mentalità”. Io dissi a Marcello Boldrini, ricordo sempre una telefonataccia: “Caro Marcello, segnati le mie parole, ti pentirai amaramente. E io da domani sono dimissionario”. Mandai la lettera. E chi andò però a fare, insieme con l’Andreatta[119], a fare la ciliegia sul Saint Honoré? Vedi caso: Bobbio. Costantemente, capito? Proprio direi come se in qualche modo io fossi un pesce pilota. Appena lasciato, il momento, il laico, il laico diciamo, il cosmetico, la cipria laica, subito, eh, per avere un minimo di controllo, nel Comitato Tecnico, fu lui. Ora tutto questo ha avuto una sua storia, poi io direi che in fondo (…) se io avessi voluto andare a Lettere ci andavo e andando a Lettere, impostando bene un lavoro a Lettere, eccetera, si potevano fare grandi cose. Certamente più che al Magistero.

RC: Però voglio dire…

FF: Però allora questo, scusi, per finire la sua domanda, la sua domanda è importante, a un certo punto, questo umore, è successa una cosa interessante. Allora lei deve sapere che Calogero – queste son cose riservate, va da sé – ma Calogero pubblicava una rivista chiamata «La Cultura»[120]. E Franco Lombardi mi disse che questa rivista era pagata dai massoni, un gruppo di massoni, una loggia non so se di rito scozzese o altro. La cosa è molto interessante a Lettere, perché lì, insomma, lì, c’era, fra gli altri, un giovane studente che veniva da me, diligente, attento, che prendeva appunti che poi io ho ritrovato ne La conoscenza sociologica[121], vero?, che era Gianni Statera. Statera che all’epoca era veramente brillante e che…, ambiziosissimo, aiutava Antiochia a mia insaputa. Io spesso – avevo una pessima abitudine, mie cattive abitudini di cui, per carità, (…) accetto tutta la mia responsabilità, l’accetto anche perché non posso farne a meno –, ma, la mia responsabilità consiste in questo: per esempio io avevo Trento, Scienze politiche, Magistero, poi avevo la diplomazia, Parigi, deputato, eccetera, allora, dicevo per esempio ad Antiochia: “Scusi, non ho tempo di andare lì a far quella lezione, vada lei”. Mi è poi risultato, dopo, mi fu riferito dalla Piccone Stella[122], da De Domenico[123], e altri – De Domenico veniva da Scienze politiche – allora, niente, io mandavo Antiochia, Antiochia s’appoggiava a parecchia gente tra cui Statera. Uno era Pacitti[124]… E Statera era bravissimo nell’infilarsi, nel brillare per diligenza …, io gli telefonavo a mezzanotte “Domani, alle sette di mattina, mi porti la graduatoria con…, secondo questi criteri: uno, due, tre, eccetera”. Lui pronto, battuto a macchina, batteva tutta la notte, bravissimo. Ma in qualche modo, secondo il famoso ragionamento hegeliano in La fenomenologia dello spirito circa il servo-padrone, (…) Ora Statera, cui avrei dato tutto – laurea, libera docenza, assistentato, cattedra e direzione dell’Istituto – era l’uomo di Calogero e in parte di Lombardi, attraverso il padre[125], vecchio giornalista parlamentare, eccetera, tant’è che la sua tesi di laurea era su Neurath, Neurath e il positivismo logico. Quando si trattò di pubblicarla, venne subito a trovarmi. Fui io che telefonai ad Abbagnano: “La pubblichiamo”. Resta il miglior libro forse di Statera[126]. (…) Io gli dissi: “Be’ perché non sta lì, a lettere?”. E invece lui fu “usato” per inserirsi nella sociologia. E fu una specie proprio, guardi (…) non ci abbandonò più, attraverso le debolezze di Antiochia si inserì (…) con grande abilità. Devo anche dire, per esempio, però, in questo voglio essere molto equo: un posto di assistente che ci avevano portato via lui ce lo fece ridare, naturalmente per sempre. Fu lo stesso posto in cui fu riconosciuta idonea la Piccone Stella, che poi andò a Messina, poi da Messina, da assistente diventò associata. E anche qualcun altro, e anche lo stesso De Domenico. No, De Domenico partecipò ma fu fatto fuori, anzi era molto offeso con me, perché …, e… ci furono due o tre cose buone, ma con questo fine. Sempre. E da lì si può dire che era una tipica …, era una persona che s’era inserita, non che io l’avessi chiamato. Semmai io l’ho tollerato, un po’ così, per distrazione. Ma era il loro uomo, si potrebbe dire era proprio l’agente di questo gruppo. Tant’è che quando lui lasciò Lettere la cosa cadde. E cadde perché lui la volle far cadere, d’accordo, ma cadde anche perché, perché veniva meno … Per conto mio non potevano farmi nulla, no?, perché ero così, ma un successore: o era Statera o non era nessuno. E infatti fu chiuso, ci fu Losito per un certo tempo credo, no?, ma poi… Statera mi interessava come tema di ricerca, dopo tutto. Incarnava un tipo sociale nuovo per l’università, il gangster accademico. La cultura non come progetto di vita. La cattedra per fare affari.

RC: Sta di fatto che a tutt’oggi la Facoltà di Lettere e filosofia non ha nessun insegnamento di sociologia.

FF: Credo che così sia.

RC: Allora, voglio dire, qual è l’atteggiamento dei filosofi della scuola romana nei riguardi della sociologia? Favorevoli in parte?

FF: È un atteggiamento, purtroppo, di chiusura, mentre noi abbiamo continuato e io credo che abbiamo fatto bene. Si veda per esempio Bianco, Franco Bianco[127] da noi, eccetera. Io ho sempre detto, al di là delle simpatie e antipatie, ci sono questi personaggi che non sono per niente simpatici, però ho sempre insistito perché dovevamo avere la sponda filosofica. (…) Mentre io mi muovo sulla base di un discorso teorico, d’una esigenza multidisciplinare, eccetera, che quindi faccio valere anche per Lanternari[128], anche per Tentori[129], e anche per Lutte[130], indipendente dalla simpatia-antipatia, cioè alla fine vado al di là di questo; non mi interessa. La gente passa. Debbo dire che il gruppo di Lettere, il gruppo dell’Istituto di Filosofia, Lettere, ha sempre fatto, diciamo, una politica familistica, dinastica, di gruppo ristretto. O si entrava nel gruppo o no. E in qualche modo questa è considerata anche una posizione di élite; la presenza di alcune persone, per esempio c’è poi Romeo[131], vero?, se pure, evidentemente ha di molto aggravato, accentuato, ecco, diciamo aggravato, da un giudizio negativo, ha accentuato questa tendenza.

RC: Quindi non è un discrimine ideologico, è un discrimine proprio di tipo dinastico-familiare nel senso più brutale?

FF: Non c’è dubbio. Su questo io non avrei molti dubbi. Non avrei dubbi su questo.

RC: Perché sennò non si spiega che alcuni sono favorevoli.

FF: E poi ci sono, secondo me, delle persone che decidono lì, c’è ancora un pregiudizio antisociologico di tipo diciamo scientifico. Tanto che poi l’ultimo, il più tardo, diciamo, Spirito espresse questa cosa dicendo: “Due false scienze: la sociologia e la psicanalisi”. Naturalmente facendo ridere. Almeno per quanto mi riguarda, io risposi con tre righe dicendo: un po’ patetico il fatto che uno pensi di potere a tavolino freddamente decidere quali scienze esistono e quali no! esiste una scienza quando ci sono gruppi di studiosi che bene o male, identificandosi in una certa cosa, conducono ricerche. (…) È molto strano, cioè il vecchio, il tardo Spirito tornava alle sue vecchie, alle sue primitive posizioni comtiane. E lui è sempre stato, sempre stato un fascista corporativista gentiliano e nello stesso tempo positivista comtiano, perché tutti e due i disegni sono disegni globali di organizzazione della società, in maniera teocratica, insomma, no?, monocentrica. Questo è quello che io chiamo, ho sempre chiamato il sociocentrismo, vero?, di Comte. Era in fondo rovesciato,  non era diciamo lontano rispetto alla globalità dell’autoctisi, l’autofondazione di Gentile, l’atto puro, no?, lo spirito come atto puro. Sono concezioni diciamo monistiche sistematiche senza residui; non ci sono mai, non c’è la contingenza, non c’è margine, non c’è il momento dell’indeterminazione. E poi, sa, quando c’è un uomo come Sasso…

RC: E uno come Gregory?

FF: Gregory. Ecco io sono amico, sono stato personalmente un amico di Gregory; quando l’Accademia dei Lincei decise di darmi un premio per la Sociologia, gli domandai perché e lui mi rispose che, dopo il mio L’enigma di Alessandro, li avevo costretti a farlo. Gregory è un duro organizzatore. Merkel andrebbe già molto meglio per me. Però loro non c’erano, è molto recente.

RC: Sì però ricordo che Gregory…

FF: Gregory.

RC: aveva una certa politica nei riguardi…

FF: Gregory, Gregory è sempre stato per una emarginazione della sociologia, cioè la sociologia è accettabile in piccolissime dosi, condotta da una persona d’alto livello; non si può chiamare, così, un incarico. Andata via questa persona, che ero io nel caso specifico, e venuto meno per incompatibilità l’uomo di fiducia, l’uomo che appartiene alla famiglia, io non appartenevo alla famiglia, però ero al di sopra, allora la cosa tace. O la si controlla, oppure meglio il silenzio. Devo dire che è piuttosto scandaloso, io son d’accordo, è naturale. Però c’è, voglio dire, c’è una quasi inevitabile diciamo evoluzione, nelle cose, perché alla fin fine chi è impoverito non è tanto la sociologia son quelli che la escludono. Questo…

RC: Fra l’altro han dato spazio ad altre discipline delle scienze sociali che però interferiscono meno, tipo antropologia culturale, tradizioni popolari, etnomusicologia.

FF: Tutto ciò che si riferisce… Il problema è questo, così come lo posso dire, tutto ciò che si riferisce alla descrittiva sistematica di usi e costumi, tutto ciò che ha a che vedere con una, diciamo così, una esplorazione a livello morfologico elementare del sociale, va molto bene. Laddove si voglia avallare o far funzionare una concezione della sociologia come scienza teoreticamente forte e autonoma, con i suoi contenuti teorici, le sue premesse filosofiche, ma per carità, questo non si può, (…)  E infatti fu su questo su cui sostanzialmente le cose… Infatti anche pedagogia, c’è quest’uomo che poi tra l’altro contribuii a far venire a Roma, lui era d’Aosta, no?, Visalberghi[132], fu allora, diedi voto favorevole, fui consultato. Certo. Perché? Perché io ricordavo il traduttore di Dewey, The Logic of Inquiry, La logica della ricerca[133], ricordavo appunto questa pedagogia che era in realtà strettamente legata alla sociologia e alla ricerca sociale, la comunità e i suoi problemi, il pubblico e i suoi problemi, insomma. È arrivato lì, è diventato un esperto di docimologia, il grande progetto IARD[134], no?, scoperta dei talenti. Facemmo una sola ricerca insieme, lo ricordo, gli demmo una mano, questa ricerca, le due cattedre. Ma debbo dire che a un certo punto le riunioni comuni con lui mi riuscivano così fastidiose, così noiose che, insomma, sarà che io sono un po’ allergico… No, no, voglio dire tutto quel che va detto (…) Ecco, ho una scarsissima capacità di sopportazione, mai avuta la capacità di sopportazione della noia. Minute, pedanti riunioni sul nulla, poi, va beh, lunghissime, poi tutte profumate – per modo di dire – da queste pipe, queste pipate interminabili. No, questo quindi lì fu un po’, devo dire, un’occasione mancata. È stata anche un po’ la cattiva azione di Statera. (…) Venendo via lui sapeva, d’altra parte lui si trovò, la legge gli imponeva di scegliere di qua o di là. Qua c’era la cattedra. Là no. Cattedra che poi naturalmente, nella famosa riunione a Padova con Acquaviva[135] e gli altri, nessuno aveva fatto il suo nome. Io dissi “Beh, Izzo[136] da una parte, diciamo teorico storico, dall’altra però ci vorrebbe un metodologo per Roma anche, chi lo fa? Ecco Statera”. Tutti sanno che lui è andato in cattedra per il mio intervento. Sennò lui era già fuori, non lo consideravano per niente. Lui era per niente considerato. Anzi mi dicevano che a Roma dopotutto uno era già sufficiente. No? Io per averne due, non avevo altri sottomano. Debbo dire, se guardo indietro − lei mi costringe a guardare indietro, giustamente, bisogna farlo −, bisogna dire che la sola scusa che potrei trovare per tanti esiti più o meno felici sarebbe questa: ognuno se vuol costruire deve costruire con i mattoni che ha, o con i mattoni che ci sono, no?, e i mattoni erano spesso quelli. Vabbe’, io ho commesso errori, tipo quando Franco Crespi[137] voleva venire – è stato mio assistente – voleva venire a Roma, forse avrei potuto chiamare lui invece che chiamare altri, insomma. Avevo anche questa specie di tendenza − glielo posso dire, in vena di confidenza −, questa specie di convinzione, cioè una tendenza pratica che corrispondeva a una convinzione teorica: che il rinnovamento dell’università dovesse passare anche attraverso il rinnovamento delle persone dal punto di vista esistenziale, cioè bisognava chiamare persone appartenenti a famiglie che non avessero avuto né universitari, né contatti forti. Per esempio Marcello Santoloni[138]. Ecco, poi naturalmente adesso, se mi consente una confidenza, visto che siamo su questo piano, a volte mi prende il rimorso che forse gli ho dato una cosa per lui avvelenata, cioè l’ho costretto a uno stress costante. Perché? Perché la cattedra universitaria gli andava un po’ larga, ecco. Credo, credo. Perché questa è una grossa responsabilità, uno può rovinare una persona dando una possibilità a questa persona, un posto eccessivo. Eccessivo,  così come anche per Antiochia, appena sono riuscito a farlo diventare aggregato, professore ordinario in fondo. Come Santoloni, beh, nel momento in cui questo succede, l’ultima cosa che Santoloni… era la prefazione di questo libro su Acciarito[139], no?, tutti e due si danno al bere. Sa, la cosa che mi fa pensare spesso, molto, soprattutto nel caso di Santoloni, così, voleva venirmi a trovare, non avevo mai tempo. Non avevo mai tempo anche perché capivo che, sa, l’uomo era già partito alle dieci di mattina, spesso. Cos’è questo se non l’angoscia di non potercela fare, di non (riuscire), il peso di una posizione di eccessiva responsabilità? Anche il fatto che coloro che hanno un passato accademico già in famiglia, oppure in strutture di studi, eccetera, sono poi proprio coloro che possono vivere quella vita. La vita intellettuale, proprio questo è un errore che ho fatto, in alcuni casi. Un altro tipo, come Viola[140]. Sì, è un bel gesto perché rinnova il mondo accademico portando dentro i sottoproletari, d’accordo, si può fare; però, però il prezzo poi da pagare – per loro, parlo di loro – è fortissimo, perché delle due l’una: o si danno alla bottiglia o si danno alla rivoluzione. Eh, insomma, sì. Fu al di fuori delle coordinate del discorso scientifico, cioè della communis opinio scientifica, vero?, … Non perché si debba stare dentro, si può stare al di fuori ma non ignoranti, cioè conoscenti, cioè si può stare al di fuori essendo invitati a entrare dentro, questo è. Lì invece no. Questo è stato. Ma la scelta strategica era quella dell’approccio maltusiano, restrittivo, oppure approccio aperto. Io ho seguito per istinto, perché non credo nella restrizione del commercio, non credo nell’oligopolio e tanto meno nel monopolio, ho seguito la seconda. Devo anche dire che c’è un’altra ragione. La ragione è che ero talmente sicuro della mia influenza, del mio potere, del mio primato, da pensare di non aver bisogno di avere un mio piccolo gruppo. Sarebbe bastata sempre solo la mia presenza. E questo naturalmente è sbagliato. È un errore … Se vuole un’analogia un po’ grossolana, in Francia lei consideri i due, diciamo, schemi di comportamento di Bourdieu[141] da una parte e Touraine[142] dall’altra. Touraine, grande parlatore, d’accordo, più anziano, eccetera, niente, finisce col nulla: ha parlato, parlato a studenti, poi ha smesso, niente. E Bourdieu, invece, piccolo gruppo, molto coeso, chiesuola quasi, no?, una setta, molto (coesa)…, eccetera, però Collège de France, grosso riconoscimento. Un altro è anche Crozier[143] che ha il suo piccolo gruppo, eccetera, su un altro piano. Touraine mica stupido, Touraine. Ma Touraine ha pensato in fondo come ho pensato io, seppure in condizioni diverse, … − loro avevano già Durkheim alle spalle −, ha pensato che in fondo sarebbe bastato il suo nome. Non basta. Se vuoi costruire, e infatti poi l’ho imparata questa lezione e bene o male adesso abbiamo, attraverso La Critica[144], abbiamo questo gruppetto di collaboratori abbastanza abituali e anzi adesso vorrei fare una riunione di redazione un po’, diciamo de La Critica, e lo dico già da parecchio, bisogna che la facciamo. E debbo dire, ecco, se non altro, intorno a un tema, per esempio il qualitativo, si va coagulando un’interessante cosa. Il qualitativo che non esclude il quantitativo ma lo mette al suo posto, eh, questo va sempre detto. E chi lo sa che fra alcuni anni si possa anche arrivare ad avere… Certo che è andata molto male se io penso a tipi come Viola, fatti venir lì, per avere Viola ho dovuto lottare contro tutta la facoltà. Intendiamoci, con quali risultati? Tipi come Marcello Santoloni, tipi come Antiochia, son perdite gravi, perché è tutta gente che poteva ancora essere lì oggi. Eh, niente. Sono perdite insostituibili, eccetera. Per esempio Statera, invece, lui segue lo schema leninista, proprio, nell’organizzazione. Lui fa un’organizzazione piramidale…, è vero? La cosa che naturalmente lo limita è che non ha, è un uomo, un uomo d’organizzazione, un capitano, non ha il gusto della vita intellettuale. Non ha un problema, cioè ha il problema di guadagnare, ce l’abbiamo tutti evidentemente, ma insomma lui lo mette al di sopra.

RC: Senta, a proposito di, in tutto questo quadro, sta un po’ in ombra quello che potrebbe essere stato l’apporto di matrice cattolica, per esempio. Allora, Sturzo ritorna da Londra, Sturzo primi anni Quaranta, anni Cinquanta.

FF: Mah, no, io…

RC: Penso anche al rapporto…

FF: Devo dire, devo dire, dato che non ragiono mai in termini di steccato ideologico, mi riesce persino difficile, però mi è capitato, per esempio, di avere i rapporti con lo stesso Ardigò[145], abbastanza buoni, al tempo di Cerveteri. I cattolici in quel momento (…) erano molto minoritari, molto minoritari.

RC: Perché diceva Cerveteri? Al tempo della ricerca?

FF: Sì della ricerca “tra vecchio e nuovo”[146]. E così. Tipi che però hanno chiesto il mio aiuto, io glielo ho dato, Gianfranco Morra, Morra[147].

RC: Che è un filosofo in sostanza.

FF: Sì, però…

RC: Ha una sola…

FF: … quando parla di cose così. E per esempio un’altra persona, così, all’epoca ancora legata era qui alla Pro Deo, era proprio Crespi, Crespi, ecco. Poi sto pensando, Padre Rosa[148] per esempio, per Trento. No, io non ho mai (…) poi tutto il gruppo di San Fedele[149], perché io nel ’54 andai lì per Olivetti[150] contro Angelo Costa[151], che era presidente della Confindustria all’epoca, a fare una terribile polemica, perché Olivetti aveva accusato gli industriali italiani di essersi mangiati i fondi ERP[152], che erano i fondi per la ricostruzione, il Piano Marshall. Questo, figurati!, andò su tutte le furie, no?, perché la cosa era uscita sui giornali americani e Olivetti mandò me a difendere … E diventai molto amico dei gesuiti, così come qui a Villa Malta[153] avevo degli ottimi amici, padre Caldiroli[154] e altri. Poi anche Messineo[155] avevo incontrato all’epoca, per sindacati e questioni sociali. Messineo con Caldiroli faceva… Io avevo pubblicato Il dilemma dei sindacati americani[156]. Però debbo dire che in linea di massima io non ho mai, beh, politicamente io ho avuto una stagione molto vicina, non solo a Cesare Pavese che era l’ala laica della Einaudi, ma Felice Balbo[157] del mondo cattolico. Ma i miei contatti coi cattolici sono sempre stati contatti con individui cattolici, per la verità. Con grande interesse, avendone sempre dei grandi stimoli. Anzi, devo dire, nel caso di Felice Balbo, noi eravamo così diversi eppure ci trovavamo in una consonanza meravigliosa, e debbo dire che anche il recupero del vissuto come espressione della persona è in fondo, può essere concepito come un riflesso di posizione cattolica. Perché io parlo proprio della persona, e questo è indubbiamente, non solo, ma è proprio il senso della morte. Il pensiero laico (…) è aperto, cioè non  ha il senso proprio preciso della finitudine. Non l’accetta. Entrerebbe in crisi se l’accettasse, no? Quindi ecco, io, per esempio, ero riuscito, riuscivo ad avere simultaneamente un colloquio aperto con Felice Balbo e sull’altra sponda un colloquio aperto con Nicola Abbagnano. Nicola Abbagnano, diciamo il greco, no?, l’epicureo nel senso classico, il sereno, diciamo, μηδὲν ἄγαν[158], ne quid nimis, sempre. Eh? E Balbo, invece, così, alla ricerca. C’era sempre ciò con cui non potevo legare: era il giurista formalista. Il giurista formalista non, direi che se c’è un’antifigura, no?, è proprio quella. Perché per me il giurista formalista è la negazione della sociologia. Perché  è la vittoria della istituzione formale codificata, rispetto  alla fluidità del sociale, rispetto alla società civile, rispetto…

RC: Ecco vorrei per un attimo ritornare a Sturzo. Cioè, in sostanza il suo peso è stato trascurabile.

FF: No, no, io a Sturzo ho dedicato, nel manuale della ERI[159] che la ERI adesso ha sepolto, una larga sezione. (…) Sturzo per me era importante nel senso che (…) riscopriva sempre la società civile, cioè homo quam res publica senior: la persona viene prima dello Stato. E questo secondo me è, se si vuole, l’anarchismo intrinseco, rispetto allo Stato, del pensiero cattolico; e da questo punto di vista anche il tardo Sturzo con quelle sue terribili polemiche contro gli enti di Stato.  Sturzo mica è stato capito in pieno.

RC: Sturzo non ha esercitato…

FF: Sturzo, secondo me, vabbe’, però quel libro La società. Sua natura e leggi[160], è vero?, è un bel libro, nel metro sociologico è un buon libro. Io ho letto attentamente Sturzo. Credo di avergli dedicato qualche pagina in una nelle ultime edizioni del manuale della ERI: Sociologia. Storia – Concetti – Metodi. No, il fatto è che non solo a Sturzo, che poi aveva avuto una giovinezza, vero?, di militante di primordine, era un grosso organizzatore politico, perché aveva un’esperienza di gruppi sociali nel loro farsi; era a Caltagirone, molto, al livello comunale; a livello comunale era temibile; era un vero grosso politico, uno dei grossi politici.

RC: Cioè, in sostanza, perché non fa presa soprattutto per quanto concerne la sociologia, c’è anche nell’area cattolica un’avversione ideologica.

FF: Oggi come oggi non voglio dare giudizi. Ne ho già dati anche troppi in questa conversazione, soprattutto appunto parlando di Lettere. Questi qui, i crociani, post-crociani, eccetera, i calogeriani. Ma nessun dubbio che i cattolici di oggi, secondo me, soffrono di strani complessi di inferiorità, non hanno piena fiducia in se stessi, nelle loro radici, nelle loro… Per esempio, io sono, lei l’ha visto, nella Teologia per atei[161] ci sono interi capitoli, per Maritain stesso, insomma, ci sono interi capitoli che sono assenti nei sociologi. Ma perché? Perché secondo me essendo arrivati un po’ tardi, non hanno digerito quel momento egemonico americano o sistematico anche luhmanniano per esempio, che in fondo, sì, può dire delle cose interessanti ma non più di tanto. Perché io sono sempre stupito del (fatto che), per esempio viene a parlare Niklas Luhmann[162], Niklas Luhmann è diventato una sorta di, cioè si passa prima da Harvard, poi Habermas, poi Luhmann, poi tutto Parsons come scusa. Se tu leggi, se uno legge attentamente quel libro di Sturzo: La società. Sua natura e leggi, non voglio dire che ci sia il sistema sociale di Parsons ma c’è un senso storico e sistematico nello stesso tempo, direi quasi il sistema come contrazione, proprio, sintesi, vero?, del momento storico che sarebbe straordinariamente utile esplicitare, ma, strano,   (…) non viene fatto, non viene. E non solo, ma anche l’esigenza, per esempio, del decentramento, l’esigenza della democrazia di base, l’esigenza dei gruppi sociali contro le istituzioni formali, in Sturzo è fortissima. Le sue prime pubblicazioni credo sono in difesa della libertà comunale. Le posso dire una cosa? C’è molta ignoranza. Purtroppo, forse siamo tutti troppo occupati; troppe riunioni, troppe lezioni e troppe ricerche, troppe faccende, sa. Io poi per esempio, lei prenda un uomo come Ardigò, che è un uomo certamente intelligente: eh, la cotta che sembra essersi presa per Niklas Luhmann, per me, non è concepibile, non è concepibile! Ma non è solo, lei pensi a Messedaglia[163], pensi a tutti quei sociologi – non mi viene il nome, ma sono parecchi – che durante il fascismo, cioè la corrente, non è solo Toniolo[164], ma la corrente, chiamiamola sociologica-cattolica, forse proprio in virtù del suo essere cattolica riuscì a sopravvivere, anche durante il fascismo; e non è stata una delle ultime cause di quella perenne fronda antifascista che animava l’Azione Cattolica. È sempre stata la riserva notevole, anzi (…). Non lo so. Le debbo confessare che sono, è una domanda questa, per quanto mi riguarda, io credo, siccome non ho diciamo tabù, veti ideologici, per me il pensiero sociologico elaborato da cattolici ha eguale dignità, anzi spesso è più utile, prova ne siano i nomi che ho citato. Ma quello che mi stupisce molto nei sociologi diciamo cattolici, di area cattolica italiani, è questo incredibile sbavare verso gli ultimi esiti, più recenti poi, esiti della sociologia o americana o tedesca o francese; basta vedere anche un po’ Studi di sociologia[165]. Ho una sola spiegazione, che non è di tipo scientifico, ma psicologico: che ci sia quasi il bisogno, attraverso questa sorta di avanguardismo, diciamo di ostensione di informazione, di far capire che si tratta sì di cattolici, ma non per questo di cattolici in sacrestia. Insomma, di cattolici aggiornati. E il fatto di essere cattolico non vuol dire in fondo, appunto, di essere fermi a Toniolo. Ma in questo modo però intanto si trascurano in fondo le proprie radici. Per esempio, che spiegazione dare del fatto che a un certo punto Ardigò, per esempio, esce anche lì nel discorso (…) sulla legge finanziaria e societaria, eccetera? Insomma, c’è questa, questa teoria dei sistemi[166], eccetera, tra l’altro non sempre intesa correttamente. Io non posso dar la certezza, cioè, far vedere che “Noi siamo cattolici, ma badate non siamo in sacrestia, siamo più in là” (…) Non, non può. Cioè una sorta di pudore per cui non si fa riferimento alla tradizione del pensiero sociologico cattolico, perché essendo cattolici bisogna dimostrare di conoscere anche il pensiero degli altri, essere cattolici più, un po’ come i cattolici marxisti, perché sono marxisti, eh, più hanno anche il Vangelo. Poi così “Ci abbiamo una cosa in più”. Cioè sono i marxisti col più. E loro sono cattolici, sono sociologi col più. Sono cattolici col più! Ma questa, può darsi che questa sia una spiegazione. Certo lei mi pone una domanda imbarazzante.

RC: No, perché vedo una strana coincidenza, cioè uno iato dopo gli anni Dieci: trionfa il positivismo, però c’è il sopravanzare dell’idealismo romantico, interruzione dell’interesse sociologico come fatto diffuso.

FF: Certo.

RC: Lei parla di una continuità della sociologia soprattutto di stampo cattolico anche durante il fascismo, una…

FF: C’è, c’è. Anzi è la sola corrente che si salva. Perché il positivismo diventa mentalità media comune. No? Croce sbaraglia completamente le cose. E Gentile anche di più come ministro della Pubblica Istruzione. Non c’è più una catechesi. Oggi si dice essere di moda. C’è uno a Pisa, mi ricordo, Pogliano[167], credo si chiami, un professore: “Ah, quelli che dicono che la sociologia è stata venduta agli idealisti, non è vero, perché in fondo il positivismo…”. Sì. Il positivismo è vero che è diventato, diciamo, mentalità comune, la gente è più fattuale, (…) è diventato costume. Oh, però, una cultura è fatta anche degli strumenti di questa cultura. Vai a vedere le cattedre: tutte soppresse, cacciate via, mancate, impedite. A un certo punto Croce e Gentile han dominato veramente la scena per quarant’anni, aiutati indirettamente dal fascismo, uno perché era fascista e l’altro perché antifascista. Però siccome non c’era altro, La Critica[168] diventava la grande rivista dove tu potevi prendere una boccata d’ossigeno. Tutto lì. Intere correnti di pensiero. Ora in tutto questo, questo panorama, i cattolici, il pensiero sociologico cattolico, secondo me, che aveva, aveva una sua, una sua extraterritorialità. Perché? Perché in fondo era un pensiero con radici storiche saldissime. Che però non è stato, a mio giudizio, non è stato sfruttato, non è … Bene o male i conti con chi son stati fatti? Io credo di averli fatti. Per questo la cattedra poi è stata data ed è stata data a me, perché c’è stata una battaglia culturale. Io a Croce, quando lui stroncò, il 15 gennaio 1949 nel Corriere della sera, La teoria della classe agiata e accusò Veblen della più completa ottusità nel cogliere il carattere storico dei fatti, io risposi duramente nella «Rivista di filosofia» con due articoli e addirittura scrissi a «Critica economica»[169] diretta da Antonio Pesenti[170] – che è morto – scrissi una lettera, no?, con cui dicevo … Il direttore e poi un certo Vittorio Angiolini, che era il capo redattore, fecero una risposta a me, alla mia lettera che pur pubblicarono, dicendo “Mah, ci dicono che costui sia il traduttore dell’opera. Ma come si permette questo – non diceva proprio così, ma il, diciamo, senso era questo – presuntuoso saputello?” Vero? Così, eh! Questi erano marxisti, erano d’accordo con Croce, contro (di me). Io, per carità, avevo vent’anni, quindi probabilmente non misuravo le parole, avevo mandato una lettera certamente dal tono arrogante, però la battaglia, cioè i conti son stati fatti, io ho cercato di farli, nel mio piccolo; e continuo a farli[171]. Adesso i conti bisogna farli con i quantitativisti, però dopo aver vinto quella battaglia, insomma. Ecco, io ho l’impressione che i sociologi cattolici, in Italia, non facciano il loro dovere, se si può parlare di un dovere in questi casi. Cioè non fanno né i conti critici con la loro tradizione, né l’accettano in blocco questa tradizione. Cosa fanno? La ignorano.

RC: Ardigò per esempio non cita mai Sturzo, nemmeno in chiave critica, come se non esistesse. Ecco perché dicevo c’è questo iato da prima degli anni Dieci e poi in sostanza dopo gli anni Cinquanta. Cioè, una presenza cattolica nel campo della sociologia comincia ad affacciarsi molto tardi, alla fine degli anni Sessanta, gli inizi degli anni Settanta. In precedenza, voglio dire, è come se non fosse esistito nulla.

FF: Non c’è dubbio.

RC: Nonostante la Cattolica di Milano, che pure aveva dei riferimenti di sociologia.

FF: Sono perfettamente d’accordo. È difficile dire.

RC: Cioè, mi domando: può essere stata una sorta di ipoteca filosofica rispetto allo sviluppo della sociologia a impedire che ci fosse un ruolo di peso, dei cattolici all’interno di essa?

FF: Certo.

RC: Delle discipline di scienze sociali?

FF: Certo che nella prima commissione, nella commissione giudicatrice del primo concorso, del mio concorso, lì di cattolici in senso pieno c’era Francesco Vito, il Rettore della Cattolica e presidente, per età, della commissione.

RC: Quale fu il suo atteggiamento?

FF: Vito, che io conoscevo, a parte l’economia, faceva un certo tipo di politica economica, economia politica, e per quanto concerneva proprio il pensiero sociologico non arrivava mai al piano critico della discussione. Era un bravo economista, informato, Francesco Vito, degno, vero?, ma più che mai un amministratore. E poi, no?, se uno pensa che c’è una rivista, ce ne sono altre due, con quella dello Sturzo[172], eccetera… Devo anche dire che (…) io vedrei con grande favore una ripresa critica del pensiero di Sturzo, perché secondo me ci sono delle cose da imparare. Importanti. Ma non mi pare che andiamo in quella direzione. Cioè, poi, chi sono i sociologi diciamo cattolici oggi in Italia? Sono maggioranza; una volta erano minoranza, ma quando erano minoranza, stranamente, erano più visibili. Adesso così, per esempio Ardigò, gli altri sono passati, il gruppo di Bologna, dicono cose piuttosto leggere. Qui adesso c’è la LUISS[173], non hanno più tanto. Tuttavia in sostanza i gruppi non contano per i numeri, vero?, per la quantità delle persone, eccetera, contano per le idee. Non vedo le idee. Non le vedo proprio. Per esempio consideri anche tutta questa crisi dello stato del benessere. Sa, in fondo Ardigò è molto preso dalla questione sanitaria, è chiaro, ma è una questione già applicativa (…). Per esempio, il modo con cui s’è buttato su questi “mondi vitali”[174], secondo me, teoricamente non regge. Torno sempre alla mia idea: laici e cattolici, i sociologi in generale in questo paese studiano troppo poco, hanno prospettive limitate, scarsa originalità, ripetono. Molta di questa sociologia è derivativa. Derivativa. Sa, sempre in attesa di un profeta: o Parsons[175] o Lazarsfeld[176] o Habermas[177] o Luhmann.

RC: I francesi ci rimproverano di tradurre troppo.

FF: Sì, forse. Io sono contento che loro traducano i miei libri.

RC: Loro esagerano per un altro verso però.

FF: No, no. Io credo, per esempio, che tra le due situazioni meglio forse la nostra. Però il fatto che si traduca, si butta sul mercato. Nel 1959, appena tornato dagli USA, viene a trovarmi, per “Il Mulino”, Fabio Luca Cavazza. Gli do una lista di libri da tradurre, fra cui David Riesman. Tutto esce, a tempo debito. È venuto a trovarmi un altro rappresentante de “Il Mulino” l’altro giorno. Appunto, a getto continuo, questi testi, anche dei manuali, ma senza una riga di introduzione, di acclimatazione al nostro, ai nostri problemi. A me sembra incredibile. Ma come è possibile? Ma è una cosa incredibile! Persino quella di Berger[178], di lui e della moglie[179], così[180]. Ma come è possibile? Cioè, oltretutto vuol dire avere un certo disprezzo (…) Mi dispiace che questa chiacchierata sia stata un po’ disordinata, però la pregherei di prendere quella recensione, quelle due prefazioni, più anche quella di, quella io gliela voglio dare, più anche quelle due che ci sono, tre del Max Weber e il destino della ragione[181], quelle nuove edizioni. Quelli sono elementi molto personali. Io mi sfogo sempre nelle prefazioni, è una vecchia abitudine.

RC: No, comunque, eh, sicuramente questa chiacchierata servirà per questo saggio che devo preparare per i rapporti tra filosofia e sociologia[182] in Italia, però, però penso di utilizzarla poi anche in vista di questo volume.

FF: Certo. Certo. Ma in generale, no? E poi, sì, proprio, quando poi si tratta dei rapporti in senso stretto tra sociologia e filosofia ci son molte cose da dire e bisogna interrogarsi su quale filosofia dava un minimo di apertura alla sociologia. La caduta, a Lettere, di sociologia è tutto sommato, forse appare scandalosa (…) ma è anche molto coerente. Con un tipo di filosofia neo-crociana, o impostazione puramente storico-evolutiva come quella di Gregory, non c’è dubbio che la sociologia è un bruscolo nell’occhio, non è tollerabile.

RC: Però voglio dire, un uomo come Calogero, sostenitore della filosofia del dialogo, voglio dire che il suo atteggiamento antisociologico era una negazione del suo stesso pensiero, tutto sommato.

FF: In un certo senso sì, però, però è anche una concorrenza con il suo pensiero.

RC: Sì, il dialogo. Poi allora dice “Il dialogo lo dico io come va fatto”.

FF: Questo è piuttosto contraddittorio, e poi devo anche dire, ci sono appunto, anche lì, io sono colpito degli stereotipi che continuano a vagare, no?, come rari nantes in gurgite vasto che non sono legati a nulla delle immagini della sociologia. Quando un uomo come il buon Spirito diceva, buonanima, “La sociologia non può esistere”. Vabbe’, che cosa aveva in  mente? Questo è un po’… E così, anche, se mi è permesso, Calogero, anche Gregory e così anche gli altri. Cioè, io, per carità, non voglio mica dire che la gente sia costretta a leggere sociologia − che oltretutto i sociologi scrivono male −, però, quel tanto di umiltà per informarsi sulle cose che si criticano, no?, anzi sulle cose di cui si nega l’esistenza mi sembra…

RC: Però c’è anche questo, in sostanza c’è stato un decennio, forse due, durante i quali la sociologia è stata in buona misura gestita da filosofi. Per esempio, uno come Felice Battaglia[183], chi era?

FF: Ah no, ma Battaglia per la verità io lo ricordo molto bene. All’epoca però non è che avesse avuto mai una forte influenza. La sola persona che ha avuto influenza forte, perché è stato un preside di tipo organizzativo oltretutto, è stato Treves, che però fungeva da vice di Bobbio. Questa è stata, è una cosa cui ancora sto pensando. Cioè, è stata una manovra elegante di cooptazione. Il pensiero crociano più avanzato, riconosciuta la legittimità di queste scienze di osservazione, si è preoccupato affinché l’osservazione avvenisse secondo determinate regole, che dettero certi altri risultati. Questo è. Di Battaglia si può dire, spiritosamente, che ha cambiato il Croce con la croce.

RC: Però, voglio dire, Battaglia è uno che ha gestito l’Istituto Sturzo per molti anni, per esempio.

RC: No, no. Battaglia era, secondo me, io ricordo, con molto, molto interesse questa sua filosofia del lavoro, le sue cose, anche questo volume[184]… Però Battaglia, Bologna, Rettore, eccetera, sì, ma poi il momento più alto fu quando rischiò di essere ministro della Pubblica Istruzione. Lo mandarono a cercare. Lui partì da Bologna convinto di essere ministro e arrivò a Roma e non lo era più. Capito lo scherzo un po’ da prete che gli han fatto? Comunque poi subito dopo morì. Battaglia, però, così come lo posso io ricordare, non, non aveva, non ha mai avuto una, un vero impact filosofico-concettuale. Era, questo volume, di cui io ricordo molto bene per aver letto attentamente, era però un catalogo ragionato delle varie concezioni del lavoro. Questo era, non c’è un pensiero filosofico. Il pensiero robusto non c’era. Io devo dire una cosa: non capisco bene l’Istituto Sturzo. Invece di fare tutte queste cose benemerite che fa, oltretutto molto importanti, ma non si dà un po’ da fare per far conoscere di più Sturzo.

RC: Ma lo ha fatto sul versante storico.

FF: Beh, no. Ma Sturzo, Sturzo è un sociologo. Per esempio, un convegno, beh sì, ma l’attualità della sociologia di Sturzo. Si vadano a prendere i libri e si legga e lì c’è cosa leggere e si vede cosa è applicabile oggi. Voglio vedere. Io parlo di società policentrica. Parlo contro l’equazione tra pubblico e statale, lì c’è tutto. E non è un caso che uno che nasce alla politica sul piano locale è un prete, nasce sul piano locale. Un grosso personaggio. Sa, c’è Franco Rizzo[185] da noi, che è ‘matto’, però, abbiamo, però m’ha detto delle cose. Abbiamo discusso anni e anni fa, mi riferisco a molti anni fa, quando io ero deputato e lui era al seguito di Fiorentino Sullo[186] e lui aveva, si era un po’ interessato, in maniera un po’ autodidattica. No, insomma, chi sono i grandi sociologi – laici più o meno lo sappiamo – i grandi sociologi della tradizione cattolica in Italia chi sono? In Italia? Lasciamo stare, non so, i belgi, (…) i francesi, potremmo citare Leclercq[187], altri, che so? Ma i sociologi cattolici, proprio, in Italia: uno, c’è monsignor Olgiati[188], vabbe’, è più un educatore, poi non è più filosofo; c’è, certo Toniolo; poi bisognerebbe scavare in tutti questi, Messedaglia, mi sembra, (…) Igino Petrone[189], un altro importante, Petrone. Ma non si capisce mai bene: spesso sono medici, altre volte sono biologi, no?, così. Sturzo secondo me resta l’unico nome. Tra l’altro poi, questi, questi rinnegamenti della propria tradizione secondo me sono proprio, si mutano in veleno, sa (…) indeboliscono moltissimo. Infatti, secondo me, una volta era minoranza sparuta, la pattuglia dei cattolici. Adesso invece è molto cresciuta di numero, ma non di peso. Numero, sì, possono avere delle cattedre. Comunque, questa, questa è una questione aperta per tutti i sociologi, non solo per i cattolici. È la perdita della propria coscienza storica. Questo è, io lo vedo, lo vedo per i cattolici e lo vedo anche però per, lo vedo molto duramente, con preoccupazione crescente anche per i cosiddetti laici; lo vedo per i sociologi in generale. Cioè, il fatto cattolico, seconde me, non è che una fattispecie confermante, è vero? (…) E questo perché non si ritiene più o non si ritiene affatto che i concetti di cui si serve la sociologia siano concetti storici, cioè storicamente maturati. C’è ormai, (…) indubbiamente, c’è una grossa crisi dello storicismo, anzi lo storicismo è finito, siamo entrati nell’età sincronica. La sistematica, l’impostazione sistemica aiuta a capire le interdipendenze funzionali fra le diverse variabili. È tutto sullo stesso piano, quindi un enorme presente, non c’è più passato. Va bene. Questo può essere comodo, ma non è vero, perché noi, anche per capire questa interdipendenza funzionale, abbiamo bisogno dell’antefatto. E poi c’è un problema d’identità perché, o si cancella tutto, (…) ma gli stessi problemi poi emergono, sono significativi in base al retroterra storico … Da che cosa è derivato questo? Secondo me è derivato da un fatto solo: che, se tu fai valere la tua coscienza storica, sei costretto a fare certe ricerche ma a rifiutarne altre. Se tu vuoi fare tutte le ricerche che ti dà il mercato, allora tu riconosci nel mercato il solo fondamento storico e giustificativo di quello che fai. Allora tu fai, c’è la crisi della sanità, la riforma della sanità, e fai la sociologia sanitaria; c’è la crisi delle banche, fai la sociologia bancaria; c’è la crisi della pubblica amministrazione, fai la…; c’è la crisi dei partiti e fai la sociologia dei partiti. Cioè, non è più un disegno. Io rimprovero oggi ai cattolici, ma anche ai laici, ai sociologi in generale, rimprovero la mancanza di un disegno. Ma il disegno, tuo, autonomo, può venirti solo da una considerazione critica delle tue radici, delle tue basi di partenza. Hanno venduto questo loro diritto fondamentale per un piatto di lenticchie. Magari invece che un piatto di lenticchie ci sarà anche, che so io, l’antipasto, il secondo piatto, non lo so, non mi interessa la quantità. Il fatto è che questo è. Io dal tempo de La sociologia alternativa[190] – chiaramente era un libro polemico, per certi aspetti anche eccessivamente corrosivo – debbo però dire che ancor oggi in America, qui, ovunque, siccome la nostra disciplina è una scienza d’osservazione che ha una valenza teorica, ma anche una valenza pratica organizzativa che costa, quindi è una scienza da svilupparsi e per svilupparsi ha bisogno di soldi, eccetera. A un certo punto il finanziamento diventa la struttura teoretica portante! E beh, accidenti, allora! Purtroppo, lei lo sa, lì c’è l’università che dovrebbe garantire, che dovrebbe garantire un finanziamento libero, in modo da non essere condizionati, ma se l’università diventa solo una piattaforma per il business, che cosa resta?

         Trascrizione di Stefano Delli Poggi

N. B.: il testo è stato rivisto dal Prof. Franco Ferrarotti.


[1] Thorstein Veblen (1857-1929), economista e sociologo statunitense.

[2] F. Ferrarotti, Introduzione, prefazione e cura di T. Veblen, La teoria della classe agiata, UTET, Torino, 1949; ed. or., The Theory of Leisure Class, Allen & Unwin, London, 1924.

[3] Benedetto Croce (1866-1952), filosofo e storico.

[4] Giovanni Gentile (1875-1944), filosofo.

[5] Arrigo Bordin (1898-1963), economista.

[6] Francesco Forte (1929-), economista e politico.

[7] Alfredo Niceforo (1876-1960), statistico e criminologo.

[8] Enrico Ferri (1856-1929), criminologo e politico.

[9] Scipio Sighele (1868-1913), criminologo e psicologo.

[10] Franco Rodolfo Savorgnan (1879-1963), statistico e demografo.

[11] Rodolfo Benini (1862-1956), statistico ed economista.

[12] Alessandro Groppali (1874-1959), filosofo e sociologo, autore di Elementi di sociologia, Libreria Moderna, Genova, 1905. 

[13] Nicola Abbagnano (1901-1990), filosofo.

[14] Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, storico e politico.

[15] Augusto Guzzo (1894-1986), filosofo.

[16] Alessandro Pizzorno (1924-), sociologo.

[17] Antonio Aliotta (1881-1964), filosofo.

[18] Giuseppe Rensi (1871-1941), filosofo.

[19] Paravia, Torino, 1939.

[20] Le sorgenti irrazionali del pensiero, F. Perrella, Genova-Napoli-Firenze-Città di Castello, 1923.

[21] Martin Heidegger (1889-1976), filosofo tedesco.

[22] Gabriel-Honoré Marcel (1889-1973), filosofo francese.

[23] Louis Lavelle (1883-1951), filosofo francese.

[24] Aubier, Paris, 1936.

[25] Soren Kierkegaard (1813-1855), filosofo danese.

[26] Il concetto dell’angoscia, Bocca, Milano, 1941; Sansoni, Milano, 1966; ed. or., 1844.

[27] György Lukács (1885-1971), filosofo ungherese.

[28] Rensis Lickert (1903-1981), psicologo statunitense.

[29] William Lloyd Warner (1898-1970), sociologo e antropologo statunitense.  

[30] Samuel A. Stouffer (1900-1960), sociologo statunitense. 

[31] Princeton University Press, Princeton, 1949.

[32] Jean-Paul Sartre (1905-1980), filosofo francese.

[33] Società Autonoma Torinese Tranvie Intercomunali.

[34] René Descartes (1596-1650), filosofo e matematico francese.

[35] Discorso sul metodo, Loffredo, Napoli, 1937; ed. or., 1637.

[36] Edmund Husserl (1859-1938, filosofo tedesco), Meditazioni cartesiane, Armando, Roma, 1999; ed. or., 1931.

[37] Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), filosofo tedesco.

[38] Comunità, Milano, 1955.

[39] Paolo Spriano (1925-1988), storico.

[40] Franco Rodano (1920-1983), filosofo e politico.

[41] Enrico Pozzi (1946-), sociologo e psicoanalista.

[42] Alessandro Portelli (1942-), storico ed anglista. 

[43] Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni, 1830-1985, Einaudi, Milano, 1985.

[44] Centro per l’Educazione degli Assistenti Sociali, fondato nel 1946 e trasformato nel 1966 in Scuola Speciale di Assistenza Sociale e Ricerca per le Scienze Morali e Sociali e poi nel 1971 in Scuola diretta a fini speciali nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma.  

[45] Guido de Ruggiero (1888-1948), filosofo.

[46] Luigi Pirandello (1867-1936), scrittore e drammaturgo, premio Nobel per la letteratura nel 1934.

[47] Antonio Labriola (1843-1904), filosofo.

[48] Franco Lombardi (1906-1989), filosofo.

[49] Filippo Barbano (1922-2011), sociologo

[50] Camillo Pellizzi (1896-1979), saggista e sociologo.

[51] Francesco Vito (1902-1968), economista.

[52] Renato Treves (1907-1992), filosofo e sociologo.

[53] Angelo Pagani (1918-1972), sociologo.

[54] Natalia Ginzburg (1916-1991), scrittrice.

[55] Cesare Pavese (1908-1950), scrittore.

[56] Taylor, Torino.

[57] Nel 1978 dopo un incendio in Grecia in effetti è stata messa in disarmo. Dal 1927 al 1937 era stata usata dalle Matson Lines con il nome di Malolo, cambiato poi in Matsonia nel 1937. Acquistata dalle Home Lines nel 1948 era stata ridenominata Atlantic. Nel 1954 era passata alla National Hellenic American Line (collegata alle Home Lines) ed intitolata Queen Federica. Era stata acquistata dalle Chandris Lines greche nel 1965. Ormeggiata nel fiume Dart all’inizio degli anni Settanta era stata noleggiata nel 1973 dalle Sun Cruises.

[58] Alessandro Cavalli (1939-), sociologo.

[59] Luciano Gallino (1927-), sociologo.

[60] Francesco Piccolo (1892-1970), filologo romanzo.

[61] Paolo Filiasi Carcano (1911-1977), filosofo.

[62] Pietro Prini (1915-2008), filosofo.

[63] Giorgio Petrocchi (1921-1989), critico, filologo e storico della letteratura italiana.

[64] Gaetano Mariani (1923-1983), critico e storico della letteratura italiana.

[65] Umberto Bosco (1900-1987), critico, filologo e storico della letteratura italiana.

[66] Luigi Volpicelli (1900-1983), pedagogista.

[67] Giuseppe Caraci (1893-1971), geografo.

[68] Enzo Vincenzo Marmorale (1907-2000), latinista.

[69] Corrado Antiochia (1914-1999), sociologo.

[70] Martino Ancona (1923-1992), sociologo.

[71] Si allude qui al fatto che Antiochia non divenne ordinario.

[72] Istituto Mobiliare Italiano, ente di diritto pubblico per il credito industriale.

[73] Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), sindacalista della Confederazione Generale Italiana del Lavoro.

[74] Renato Bitossi (1899-1969), sindacalista della Confederazione Generale Italiana del Lavoro.

[75] Gianni Statera (1943-1999), sociologo.

[76] Gaetano Floridi, originario di Guarcino (Frosinone), direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione, vice del “mitico” Di Domizio.

[77] Sergio Cotta (1920-2007), filosofo.

[78] Norberto Bobbio (1909-2004), filosofo.

[79] Cesare Musatti (1897-1989), psicologo e psicoanalista.

[80] Agostino Gemelli (1878-1959), religioso francescano, medico e psicologo.

[81] Torino, 1963.

[82] Trasmissione radiofonica settimanale iniziata il 25 aprile 1946 e proseguita fino al 31 ottobre 1990.

[83] Via Appennini 42, a Roma.

[84] UTET, Torino, 1946, 1948, 1950, 1963, 1963.

[85] UTET, Torino, 1961.

[86] Affoganti, cioè affossatori.

[87] Fondato a Milano nel 1948 da Adolfo Beria di Argentine (1920-2000), giurista, magistrato e giornalista.

[88] Associazione Italiana di Scienze Sociali, fondata a Bologna nel 1957 ed attraversata da alterne vicende fino a quando nel 1971 un tentativo di ricostituzione fallì per una contestazione da parte dei sociologi più giovani. Il 5 aprile 1982 nacque l’Associazione Italiana di Sociologia.

[90] Palmiro Togliatti (1893-1964), politico. 

[91] Rodrigo di Castiglia (?-873), conte di Castiglia (pseudonimo usato da Palmiro Togliatti sulla rivista Rinascita).

[92] Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino, 1955.

[93] Raffaele D’Addario (1899-1974), statistico.

[94] Salvatore Valitutti (1907-1992), politico e docente di Dottrina dello Stato.

[95] Carlo Mongardini (1938-), sociologo.

[96] Giuseppe Medici (1907-2000), economista e politico.

[97] Aldo Moro (1916-1978), politico e docente di Diritto e procedura penale.

[98] Carlo Marzano, ragioniere generale dello Stato dal 1956 al 1967.

[99] Mario Toscano (1908-1968), storico e diplomatico.

[100] Franco Valsecchi (1903-1991), storico.

[101] Vittorio Somenzi (1918-2003), filosofo.

[102] Gaetano Calabrò (1926-), filosofo.

[103] Ugo Spirito (1996-1979), filosofo.

[104] Carlo Antoni (1896-1959), filosofo e storico.

[105] Riccardo Lombardi (1901-1984), politico.

[106] Opere nuove, Roma, 1958.

[107] Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), critico e storico dell’arte.

[108] Mensile di cultura, società e politica, pubblicato dal gennaio 1957 al maggio-giugno 1958, per un totale di 15 numeri.

[109] Guido Calogero (1904-1986), filosofo.

[110] Gennaro Sasso (1928-), filosofo.

[111] Raffaello Morghen (1896-1983), storico.

[112] Francesco Gabrieli (1904-1996), arabista.

[113] Santo Mazzarino (1916-1987), storico.

[114] Lucio Colletti (1924-2001), filosofo.

[115] Rassegna Italiana di Sociologia, fondata da Camillo Pellizzi nel 1960.

[116] Marcello Boldrini (1890-1966), statistico.

[117] Ente Nazionale Idrocarburi, nato nel 1953 e presieduto da Enrico Mattei (1906-1962), imprenditore.

[118] Francesco Alberoni (1929-), sociologo.

[119] Beniamino Andreatta (1928-2007), economista e politico.

[120] Fondata nel 1881 da Ruggero Bonghi, soppressa nel 1936, ripresa da Guido Calogero nel 1963 e diretta da Gennaro Sasso dal 1987.

[121] Gianni Statera, La conoscenza sociologica. Aspetti e problemi, Liguori, Napoli, 1970; edizione ampliata, La conoscenza sociologica. Problemi e metodo, Liguori, Napoli, 1974.

[122] Simonetta Piccone Stella (1935-), sociologa.

[123] Francesco De Domenico (1943-), sociologo e dirigente RAI.

[124] Achille Pacitti (1940-), sociologo.

[125] Vittorio Statera (1909-1987), giornalista e collaboratore del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.

[126] Gianni Statera, Logica, linguaggio e sociologia. Studio su Otto Neurath e il neopositivismo, Taylor, Torino, 1967.

[127] Franco Bianco (1932-2006), filosofo.

[128] Vittorio Lanternari (1918-2010), etnologo.

[129] Tullio Tentori (1920-2003), antropologo culturale.

[130] Gérard Lütte (1929-), psicologo.

[131] Rosario Romeo (1924-1987), storico.

[132] Aldo Visalberghi (1919-2007), pedagogista.

[133] John Dewey (1859-1952), Logic: the Theory of Inquiry, Holt, Rinehart and Winston, New York, 1938; tr. it., Logica, teoria dell’indagine, Einaudi, Torino, 1949.

[134] Individuazione e Assistenza Ragazzi Dotati, associazione nata a Milano nel 1961.

[135] Sabino Samele Acquaviva (1927-), sociologo.

[136] Alberto Izzo (1933-2014), sociologo.

[137] Franco Crespi (1930-), sociologo.

[138] Marcello Santoloni (1934-1985), sociologo.

[139] Pietro Acciarito (1871-1943), anarchico che tentò di pugnalare Umberto I il 22 aprile 1897 a Napoli e fu condannato all’ergastolo.

[140] Filippo Viola (1933-), sociologo.

[141] Pierre Bourdieu (1930-2002), sociologo.

[142] Alain Touraine (1925-), sociologo.

[143] Michel Crozier (1922-2013), sociologo.

[144] La Critica Sociologica, fondata da Franco Ferrarotti nel 1967.

[145] Achille Ardigò (1921-2008), sociologo.

[146] Achille Ardigò, Cerveteri tra vecchio e nuovo: note sui cambiamenti di struttura sociale in un comune rurale arretrato nei primi anni della riforma fondiaria, Centro Studi Sociali e Amministrativi, Bologna, 1958.

[147] Gianfranco Morra (1930-), sociologo.

[148] Padre Luigi Rosa (1920-1980), gesuita e fautore della fondazione della Libera Università di Trento.

[149] Centro Studi Sociali di Milano, noto come “Centro Culturale San Fedele” e “Fondazione Culturale San Fedele” della Comunità Gesuiti, che pubblica la rivista Aggiornamenti Sociali, nata nel 1950.

[150] Adriano Olivetti (1901-1960), imprenditore.

[151] Angelo Costa (1901-1976), imprenditore.

[152] European Ricovery Program, che prevedeva un finanziamento di oltre 17 miliardi di dollari statunitensi in 4 anni.

[153] A Roma, in via di Porta Pinciana 1, sede della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, fondata a Napoli nel 1850.

[154] Padre Luciano Caldiroli (1916-), gesuita.

[155] Padre Antonio Messineo (1897-1978), gesuita.

[156] Franco Ferrarotti, Il dilemma dei sindacati americani, Comunità, Milano, 1954; edizione ampliata, Sindacati e potere negli Stati uniti d’America, Comunità, Milano, 1961.

[157] Felice Balbo (1914-1964), filosofo e scrittore.

[158] Medèn ágan: niente di troppo.

[159] Franco Ferrarotti, La sociologia. Storia – Concetti – Metodi, ERI, Torino, 1961.

[160] Luigi Sturzo, La società. Sua natura e leggi. Sociologia storicista, originale in lingua francese, 1935; serie prima, vol. I, in Opera Omnia, Atlas, Milano-Bergamo, 1949; prima serie, opere, vol. 3, in Opera omnia di Luigi Sturzo,Nicola Zanichelli editore, Bologna, 1960.

[161] Franco Ferrarotti, Una teologia per atei. La religione perenne, Laterza, Roma-Bari, 1983.

[162] Niklas Luhmann (1927-1998), sociologo tedesco.

[163] Angelo Messedaglia (1876-1960), statistico e sociologo.

[164] Giuseppe Toniolo (1845-1918), economista e sociologo.   

[165] Rivista fondata nel 1962 e pubblicata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

[166] Il riferimento è alla teoria luhmanniana.

[167] Claudio Pogliano (1953-), storico. Il riferimento è al suo capitolo, il 23, dal titolo “Nuovi temi e interpretazioni del positivismo”, in Emilio R. Papa (a cura di), Il positivismo nella cultura italiana tra Otto e Novecento, Franco Angeli, Milano, 1985, prefazione di Norberto Bobbio e saggi, tra gli altri, di Filippo Barbano, Luciano Gallino, Giorgio Sola, Renato Treves.

[168] Rivista di letteratura, storia e filosofia, fondata nel 1903 e diretta da Benedetto Croce fino al 1944 (Giovanni Gentile ne fu condirettore fino al 1923).

[169] Fondata da Antonio Pesenti nel 1945.

[170] Antonio Pesenti (1910-1973), economista e politico.

[171] Per una rivisitazione più recente della questione si rinvia a Tiziana Foresti, “Ancora sulla Teoria della classe agiata di Thorstein B. Veblen: intervista a Franco Ferrarotti sul dibattito italiano del 1949”, Studi e Note di Economia, XVI, 2, 2011, pp. 273-281.

[172] Fondato a Roma nel 1951.

[173] Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, già nota come “Pro Deo” (fondata da Padre Andrew Félix Morlion, domenicano belga, 1904-1987), a Roma.

[174] Achille Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna, 1980.

[175] Talcott Parsons (1902-1979), sociologo statunitense.

[176] Paul Felix Lazarsfeld (1901-1976), sociologo statunitense.

[177] Jürgen Habermas (1929-), filosofo e sociologo tedesco.

[178] Peter L. Berger (1929-), sociologo statunitense.

[179] Brigitte Berger.

[180] Peter L. Berger, Brigitte Berger, Sociology. A Biographical Approach, Basic Books, New York, 1972; tr. it., Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, il Mulino, Bologna, 1977.

[181] Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Laterza, Roma-Bari, 1965, 1968, 1985.

[182] Roberto Cipriani, “Dalla filosofia alla sociologia”, in Leonardo Allodi (a cura di), Dova va la sociologia oggi? Studi in onore di Gianfranco Morra, Cantagalli, Siena, 2010, pp. 135-45.

[183] Felice Battaglia (1902-1977), filosofo.

[184] Felice Battaglia, Filosofia del lavoro, Zuffi, Bologna, 1951.

[185] Francesco Saverio Rizzo (1927-2011), sociologo.

[186] Fiorentino Sullo (1921-2000), politico.

[187] Jacques Leclercq (1891-1971), filosofo e sociologo belga.

[188] Francesco Olgiati (1902-1964), filosofo.  

[189] Igino Petrone (1870-1943), filosofo e giurista.

[190] Franco Ferrarotti, Una sociologia alternativa: dalla sociologia come tecnica del conformismo alla sociologia critica,

De Donato, Bari, 1972.

Intervista del giornalista Antonio Tufariello a Roberto Cipriani sulla democrazia

  1. Che cosa significa per lei democrazia?

Il rispetto delle singole persone e delle loro istanze ma anche degli interessi della comunità. L’equilibrio fra i due interessi, individuale e comunitario, è l’obiettivo di una democrazia ben praticata.

2. In riferimento alla citazione di Umberto Eco: “Internet? Ha dato diritto di parola agli imbecilli: prima parlavano solo al bar e subito venivano messi a tacere”. Qual è la sua opinione a riguardo?

Quello che sosteneva Eco si riferiva ad un particolare aspetto degli effetti prodotti da Internet. In realtà le possibilità di comunicazione si sono allargate enormemente. Ma va anche detto che occorre una capacità di base per gestire l’immenso sistema di informazioni e saperi in circolazione.

3. Nonostante internet sia strutturato su infiniti link, collegamenti, l’utente medio tende ad informarsi principalmente all’interno di domini chiusi come Facebook, Twitter o lo stesso Google. Crede che questo meccanismo limiti la raccolta libera e obiettiva di informazioni?

4. In effetti il ricorso a domini chiusi è prevalente e limita le potenzialità di comunicazione. Invece un uso parsimonioso dei social networks consente di utilizzare anche e soprattutto altri canali informativi e formativi.

5. La possibilità di navigare avendo accesso a milioni di contenuti gratuitamente e di poter esprimere se stessi sul web ha inizialmente entusiasmato milioni di utenti. Secondo lei, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, è cambiata la concezione circa la tutela dei propri dati? Se sì, come? Se no, perché?

Certamente lo scandalo citato ha reso più avvertiti gli utenti. Restano tuttavia molti ostacoli da superare per essere in grado di governare il proprio tempo e le proprie disponibilità conoscitive ed economiche. Anche le persone più attente ed esperte si ritrovano manipolate da altri agenti che mirano ad ottenere vantaggi dalla rete e dalle sue straordinarie possibilità. Ancora una volta però molto dipende dalle competenze e dalle scelte della singola persona che di volta in volta deve decidere il da farsi. 

6. Secondo lei quanto è necessaria un’educazione civica orientata ai cittadini da parte delle istituzioni?

La ritengo fondamentale. Anzi è un compito ineludibile di uno stato democratico. 

7. Lei si sente libero e parte di un paese democratico?

Libertà e democrazia assolute sono utopie, cioè irrealizzabili. Tendere verso una maggiore libertà ed altrettanta democrazia rimane un impegno irrinunciabile. Ognuno poi riesce a conquistarsi spazi di libertà e democrazia nella misura in cui conosce bene (e scientificamente) la realtà e non si lascia influenzare dagli interessi e dai tentativi di altri che tendono a ridurre le possibilità di agire dei cittadini.

La religión no puede gobernar el Estado

La relación de la fe religiosa con la cultura y la política en el siglo XXI. Las teorías del fin de las doctrinas y por qué permanecen a pesar de los pronósticos. Cómo serán a futuro.

Foto: Ezequiel Torres

“No hay Estado, papa, rey o iglesia que pueda decidir lo que uno hace”, Ñ Revista de Cultura, Clarin.com, 12.1.2012, pp. 1-3.

Hace más de cincuenta años, al menos dos sociólogos reconocidos anunciaron que las religiones pasaban por una crisis de tal magnitud que iban a desaparecer. El italiano Sabino Acquaviva, además periodista y escritor, publicó en 1961 El eclipse de lo sagrado en la sociedad industrial, donde predecía que la oscura noche en que vivía la humanidad se iba a cerrar totalmente. Cuatro años más tarde, el estadounidense Harvey Cox afirmó, en Secular City, que el hombre se había liberado de las ideas religiosas, haciéndose responsable del acontecer. Sin embargo, una reciente encuesta realizada en Italia determinó que si bien sólo el 25 por ciento de los ciudadanos asiste a los ritos religiosos, el 80 por ciento continúa rezando. “Rezar no es una constricción, una imposición, no tiene control social como la asistencia a un templo, por eso es un fenómeno de mucha consistencia. Y si hay el rezar, hay religión”, afirma Roberto Cipriani, autor de Manual de sociología de las religiones, que acaba de actualizar y reeditar con Siglo XXI. Cabe preguntarse, entonces:
–¿Por qué no pierden peso las religiones?
–La historia dice que hay cambios, adaptaciones, pero las religiones tienen la fuerza, el poder de la continuidad histórica, de las instituciones, de los templos, de la organización de personas que trabajan sólo para eso.
–¿También ayuda el poder económico de las religiones?
–Es un problema más complicado. Por un lado, Max Weber dijo que el capitalismo nace del protestantismo, donde la intensidad del trabajo y la acumulación de dinero demostrarían que son los elegidos. Otra idea es la del mercado religioso: una persona decide pertenecer a una religión porque le conviene para un negocio, para establecer relaciones o vender un producto, pero esta teoría también es criticada. En esa decisión influyen, además, las emociones, el grupo familiar, el contexto histórico, la cultura. Es evidente que una persona religiosa está predispuesta a aceptar casi todo, pero ahora, para evitar que quienes manejan dinero y bancos se aprovechen de eso, se va a difundir la ética económica. Tanto en Estados Unidos como en Europa está comenzando a dictarse una disciplina de valores éticos en la economía.
–La pregunta se refería a que la mayoría de las iglesias se mantienen con el aporte de los practicantes y acumulan poder económico; tienen un funcionamiento similar al del Estado.
–Sí, hay situaciones que permiten a la Iglesia Católica en particular, pero también a otras, recibir dinero del Estado. En Alemania se declara la religión en la declaración anual de impuestos y el gobierno reparte un porcentaje de las tasas en base a esa declaración. En Italia se aplica el 8 por mil: ese porcentaje de lo que cobra el Estado se destina a las iglesias por las que optan las personas. El problema es que sólo el 32 por ciento de la población especifica una opción, pero cuando se calcula cuánto le corresponde a la Iglesia Católica se hace sobre el total del dinero disponible, no sobre la opción efectivamente indicada. Es un sistema muy similar al diezmo feudal.
–Dijo que se estudia ética económica, justo cuando las protestas de los indignados se extiende hasta Nueva York. ¿Cómo ve ese movimiento?
–Los indignados de Nueva York no son los de Puerta del Sol ni los de Roma, pero creo que estas manifestaciones son sólo una pequeña parte del fenómeno religioso, que es más complejo. Al mismo tiempo, es una señal para comprender lo que sucede. Cuando enfrentan casos similares, los sociólogos saben que pueden ser la punta de un iceberg, el inicio de una actividad, operación importante. Sin duda, esta participación, esta respuesta al poder, puede estar basada sobre específicos valores religiosos, porque en las religiones en general el valor de la persona es fundamental y cuando está amenazado, hay una reacción, una decisión de contestar y preparar una revolución, un cambio en la situación dada. Aquí me parece aplicable el discurso de Marx: él hablaba del opio de los pueblos, pero también de la voluntad de cambiar, la religión como parte de una revolución.
–¿Cambiaron las formas de revolución? En su inicio, las religiones dirigieron los movimientos revolucionarios…
–Ciertamente, el cristianismo nació de una verdadera revolución. Ahora en muchas religiones, catolicismo, ortodoxia, protestantismo, judaísmo, hay grupos que constituyen movimientos de cambio. Los misioneros en África, los médicos que van a cualquier parte que los necesite, las personas que trabajan con los pobres, las que ayudan de manera voluntaria, son formas de revolución, al interior de la modalidad de diferentes iglesias.
Cipriani viajó desde Italia para participar de las XVI Jornadas sobre Alternativas Religiosas en América Latina, que se realizaron del 4 al 14 de noviembre en Punta del Este, organizadas por la Asociación de Cientistas Sociales de la Religión del Mercosur, bajo la consigna “Religión, cultura y política en las sociedades del siglo XXI”.
El tema no es nuevo en la sociología. Hace un siglo y medio, el francés Auguste Comte imaginó una religión de la humanidad, pero laica. Lo que parece una flagrante contradicción se explica en que aquel hombre estaba convencido de que la “Ciencia de la Sociedad” era “la madre de todas las ciencias” y que podía dar respuesta a cualquier problema social. Tan poderosa la pensaba que le dio categoría de religión universal, cuyos principios eran altruismo, orden y progreso. Hoy, Comte es considerado el padre nominal de la sociología, aunque fueron Émile Durkheim, Karl Marx y Max Weber quienes la establecieron como disciplina académica. El aporte más recordado de Marx, aunque no el único, es la frase tantas veces citada, “la religión es el opio de los pueblos”, en tanto Weber desató una polémica con su libro La ética protestante y el espíritu del capitalismo, donde asocia esa religión con el origen del sistema económico dominante.
El Manual… –del también profesor en la universidad Roma III y miembro del comité ejecutivo de Sociedad Internacional de Sociología de la Religión– fue traducido del italiano al inglés, francés, español, portugués y chino, y luego de presentar esos orígenes de la sociología de la religión, se lanza a analizar las posiciones de diferentes autores europeos, norteamericanos y sudamericanos, entre los que se destaca Floreal Forni, referente en el país para el tema.
“Ahora la laicidad del Estado empieza a ser un punto de discusión y la religión en el espacio público fue un tema central en las jornadas –señala Cipriani–. La sociología ayuda a ver la relación entre Estado e Iglesia de una manera no conflictiva. Sin duda la religión es parte de la cultura, una presencia importante en la sociedad, pero no puede gobernar el Estado ni el Estado puede aprovechar la religión para conseguir resultados. Entonces, una justa distancia, un buen acuerdo puede ser la solución.”
–Los líderes religiosos tuvieron mucha presencia en los gobiernos a través de la historia, ¿se puede cambiar?
–La semana pasada vi una obra de teatro en Roma, sobre un grupo de judíos que llegaron del África a Jerusalén. Son marginados y pobres en Israel y continúan manteniendo la misma forma de comunidad que tenían en África. En esa obra había dos cantores, sacerdotes, que cantaban los antiguos himnos. Cuando terminó el espectáculo hablé con el director y me contó que los sacerdotes son los jefes de las tribus. Poder político y religioso en la misma persona. La novedad es que ahora eso es una excepción, la idea es generar una mayor separación entre Estado e Iglesia. Mi perspectiva es de respeto recíproco, no de conflicto. Las personas deben tener libertad de practicar la religión que quieran. El problema es cuando se presenta como fundamentalismo, perspectiva única, poder religioso y político.
–Las religiones no desaparecieron, pero ¿están en crisis?
–Probablemente las religiones van a continuar su papel en la sociedad contemporánea, pero de una manera diferente. Lo que analizamos es que los practicantes prefieren una opción individual sobre la manera de vivir la religión. Hay una educación religiosa en la familia, la escuela, la iglesia, con influencia diferente. Pero si una persona debe decidir algo, los valores que funcionan son los religiosos, los adquiridos en la vida precedente, en la fase de producción de la concepción de la realidad. La construcción social de la realidad se basa en lo que las personas reciben en los primeros años de vida. Hay personas que no participan del culto, pero creen. Y cuando necesitan hacer una opción, proviene de los valores de base. Hay autores, como la inglesa Grace Davie, que hablan de “creencia sin pertenencia”, pero también es posible lo contrario, pertenencia sin creencia, porque hay personas en las iglesias que viven en contrario de lo que dicen creer.
–Esa autora también habla de religión vicaria, ¿qué características tiene?
–Esa teoría sostiene que la nueva frontera de la religión sería un grupo pequeño de practicantes, militantes, que están en las iglesias y organizan el culto, mientras la mayoría de los creyentes están afuera aunque, de todas maneras, están de acuerdo con quienes se mantienen en la institución. Hay separación de comportamiento, de estilo de vida, de acciones individuales. La fuerza de la religión está exactamente en esta relación entre las personas más involucradas y las menos, que tienen algo en común que permite la prosecución de la perspectiva religiosa.
–¿Hay sociedad sin religión?
–Se puede discutir. Probablemente no la hay si hablamos de una sociedad tecnológicamente avanzada, industrializada, urbanizada. Esas características permiten influencias provenientes de otras culturas y contextos. Si hablamos de una comunidad aislada, que no tiene mucha relación con el extranjero, se puede decir que no hay lo que interpretamos como religión, hay algunas cosas que parecen ser, pero no alcanzan a constituir un fenómeno de determinadas características.
–¿Cuál es la tendencia dentro de las religiones?
–A individualizarlas. Las organizaciones no contestan de manera adecuada las instancias provenientes de los practicantes, entonces ellos deciden construir su propia religión sin un conflicto directo. No significa una separación completa, hay continuidad.
–¿Los rituales pierden presencia?
–El ritual no es un modelo secundario de experiencia religiosa, es central. La cuestión es cómo se organiza. Las personas quieren rituales, celebraciones, fiestas, pero analizan cómo se usa el dinero, cuál es la verdadera finalidad de una fiesta. Creo que, en general, las personas no están contra las religiones sino contra algunas maneras de vivir la experiencia religiosa. Sin duda, en el catolicismo, el judaísmo, el islamismo, hay personas que creen y viven los valores religiosos, pero no son la mayoría.

“Intervista a Roberto Cipriani: la prospettiva della sociologia della religione”, a cura di F. D’Ambrosio, Sociologicamente.it, 13 gennaio 2021

Checché se ne dica, la sociologia studia e accompagna i cambiamenti. In particolar modo in questo periodo di pandemia è accresciuto l’interesse verso la religione. A tal proposito è stato interessante fare due chiacchiere con il professor Roberto Cipriani, ordinario emerito di Sociologia nell’Università Roma Tre. Per citare solo alcune voci del suo vastissimo curriculum è stato presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia, presidente del Consiglio Europeo delle Associazioni Nazionali di Sociologia nell’European Sociological Association. Le sue pubblicazioni riguardano problematiche teorico-metodologiche e fenomeni culturali e religiosi. Vari suoi saggi sono editi in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e russo. Dal 1990  al 1994 è stato presidente del “Research Committee” di Sociologia della religione nell’International sociological association.

Le religioni oggi sono protagoniste

  • Che ruolo gioca la religione in questo periodo storico?

Roberto Cipriani – “Non si può dire che la religione abbia mai smesso di svolgere un suo ruolo nelle varie fasi storiche dell’umanità. A maggior ragione in periodi problematici. Il vasto riscontro ottenuto da papa Francescoquasi solitario in piazza san Pietro in un tardo pomeriggio della primavera passata, ne fornisce una prova lampante. Per quanto concerne in particolare l’Italia è attualmente in corso un’indagine per accertare come le diverse religioni presenti nel nostro Paese abbiano affrontato la fase della pandemia, peraltro ancora in corso. Segnatamente mi sto interessando al mondo dell’ortodossia cristiana. Ritengo comunque che ogni religione sia stata protagonista nelle vicende in atto“.

La benedizione Urbi et Orbi a Pasqua 2020 papa francesco piazza deserta
La benedizione Urbi et Orbi a Pasqua 2020

R. C. – “Se poi ci si vuole riferire ad una crisi delle religioni, ad un calo della pratica ma anche della credenza, il discorso appare ancora più complesso, come mostrano i dati dell’indagine nazionale sulla religiosità in Italia, condotta nel 2017 da Franco Garelli dell’Università di Torino per la parte quantitativa (3238 interviste ad un campiona statisticamente rappresentativo della realtà italiana) e da me per l’approccio qualitativo (164 interviste, sia del tutto aperte sia miste cioè in parte aperte ed in parte focalizzate, seguendo una stratificazione ragionata per titolo di studio e poi per genere, età, ampiezza demografica del luogo di residenza, nonché per area interregionale). In proposito sono usciti da poco i volumi di Garelli (Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, il Mulino, Bologna, 2020) e mio (L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa, FrancoAngeli, Milano, 2020)”.    

C’è sempre un influenza sulla società

R. C. “In effetti le diverse religioni, pur a fronte di andamenti oscillanti in relazione ad alcuni indicatori, mantengono un loro peso nell’influenzare gli atteggiamenti ed i comportamenti delle persone, anche quelle dichiaratesi non credenti e tuttavia coinvolte nell’affrontare tematiche di natura religiosa, magari anche solo per muovere osservazioni critiche”.

R. C. – “In conseguenza delle modifiche prodotte dalle necessità indotte dal contagio, le diverse religioni hanno posto molta più attenzione ai nuovi ritrovati tecnologici, utilizzandoli in maniera sempre più frequente e riproponendo vari aspetti tipici del cosiddetto televangelismo, ampiamente diffuso in Nord, Centro e Sud America. Così i ministri di culto tendono a prediligere modi e tempi di maggiore impatto sulla popolazione, puntando alla crescita dell’audience, onde raggiungere molte più persone, specialmente quelle più deboli, anziane, disabili. Tale insieme di innovazioni punta ad esercitare una forte attrazione, ricorrendo a proposte spettacolari, liturgicamente ben curate e guidate da personaggi carismatici ed accompagnamenti musicali e coreografici“.  

Tutti i grandi sociologi si interessano di religione

  • Perché è importante studiare i fenomeni ad essa connessi dal punto di vista sociologico?

R. C. – “Per le stesse ragioni che si possono desumere dalla risposta precedente ma anche da una semplice constatazione dei fatti, che in sociologia sono all’origine di qualsiasi procedura conoscitiva: i maggiori sociologi del passato e del presente hanno preso in esame il fenomeno religioso. Anzi per alcuni di loro la questione religiosa costituisce il focus di maggiore attenzione: per Comte come per Durkheimnel caso di Weber ed in quello di Simmel, seguendo Berger ma altresì Luckmann. E si potrebbe continuare ben oltre”.
R. C. – “La storia stessa ci narra degli stretti legami fra società e religione, specialmente fra politica e religione, come ha ben mostrato Bryan Turner, a partire dall’antica Grecia (cfr. Religione e politica. Una sociologia comparata della religione, Armando, Roma, 2018). La monarchia, il matrimonio, la legge e le conversioni rappresentano un filo rosso conduttore che permette la disamina delle numerose relazioni (ed interferenze) fra Stato e Chiesa. Sullo sfondo si affaccia la problematica preminente della libertà di culto, che dichiarata formalmente ma smentita dagli eventi presenta vari casi di violazione dei diritti universali“.  

Le tecnologie digitali supportano le liturgie

R. C. – “La tecnologia è certamente di grande aiuto in molte attività, ma comporta sempre l’apporto umano diretto per la gestione delle varie operazioni e per rendere più efficace la comunicazione. Il personale religioso è piuttosto ben predisposto all’uso delle tecniche innovative per migliorare la propria azione pastorale. Ciò vale in molteplici occasioni: dal suonare elettronicamente le campane per chiamare a raccolta i fedeli al comunicare via altoparlante con coloro che non si trovano in chiesa o nei locali annessi, dal diffondere via radio e/o televisione sia celebrazioni che preghiere e canti fino ad un uso intenso dei social networks per entrare in contatto con un cerchio sempre più largo di devoti e non”.

L’IMPORTANZA DELLA RELIGIONE NELLE CRISI, TRA REVIVAL E DIGITALIZZAZIONI

R.C. – “La novità maggiore è stata quella della chiusura totale dei luoghi di culto per alcune settimane, durante la prima ondata di covid19. Il che ha costretto numerosi operatori ecclesiali a trovare soluzioni alternative alla messa celebrata con la presenza in loco dei partecipanti. Questo ha indotto i celebranti a rivedere diversi aspetti del loro modo di esprimersi, pronunciare omelie, recitare orazioni, intonare canti e provvedere alla distribuzione dell’eucarestia. A tal proposito è stata rispolverata una soluzione ormai andata in disuso, cioè quella della cosiddetta comunione spirituale, consistente in una formula secondo la quale s’invoca la venuta “spirituale” del corpo di Cristo anche presso persone non fisicamente inserite nello spazio liturgico”.

In mancanza di abbracci si cercano nuovi segni e simboli

R. C. – “Ovviamente la pratica della comunità non è più la stessa. Quella sperimentata con la presenza personale e la frequentazione intersoggettiva non è replicabile via etere. Eppure la messa in streaming (o persino in differita) riesce in qualche misura a colmare un vuoto altrimenti poco sostenibile a lungo andare. Nella seconda ondata pandemica è stato consentito alle diverse espressioni di culto di poter prevedere l’accesso (anche se contingentato) ai templi, ovviando così a tutta una serie di inconvenienti sul piano relazionale ed ecclesiale. Ma intanto, nel caso del cerimoniale cattolico, si è dovuto rinunciare all’elemento forse più innovativo e maggiormente efficace e simbolicamente comprensibile di tutta la riforma liturgica deliberata nel corso del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965): lo scambio del segno (ora chiamato dono) di pace (una stretta di mano, un abbraccio, un bacio, un gesto di amicizia)”.

Marx, Durkheim, Weber: la religione come costruzione sociale
Marx, Durkheim, Weber: la religione come costruzione sociale

R. C. – “Le diverse religioni, consapevoli del costante bisogno di sacro (abbastanza vistoso nel periodo pandemico), cercano di soddisfare le richieste dei fedeli in termini di sostegni forti ed utili ad affrontare le vicende drammatiche del contagio. I personaggi a capo delle diverse religioni costituiscono dei punti di riferimento per molta parte della popolazione in cerca di sostegno e conforto nelle condizioni più problematiche e rischiose. Non è un caso il fatto che il personaggio più citato in assoluto nei social networks sia papa Francesco“.

Uscire per pregare si può, ma in sicurezza

  • In Francia, durante la primavera 2020, la chiusura dei luoghi di culto ha generato proteste e polemiche. In altri paesi si era valutata la chiusura. Qual è la sua idea? È meglio chiudere o rimanere aperti?

R. C. – “Invero le proteste e le polemiche non sono mancate neanche in Italia, soprattutto da parte dei gruppi più tradizionalisti. Invece papa Francesco ha detto chiaramente che andavano osservate le norme impartite dal governo italiano. Successivamente, quando si è trattato di stabilire il da farsi al sopraggiungere della nuova stagione infettiva, si è ritenuto più opportuno consentire la frequentazione delle chiese e delle altre sedi religiose, nel rispetto delle precauzioni igienico-sanitarie prestabilite: distanziamento, lavaggio delle mani con liquidi antivirali, uso costante delle mascherine per coprire adeguatamente bocca e naso. In tal modo si è ripresa la consuetudine della partecipazione personale alle manifestazioni religiose settimanali, offrendo peraltro una motivazione valida per poter uscire di casa anche in zone e tempi connotati dalla colorazione maggiormente proibitiva (quella rossa)”.

Forme tipiche di preghiera nelle varie religioni.
Forme tipiche di preghiera nelle varie religioni.

R. C. – “In linea di massima non si sono create ulteriori occasioni di propagazione del virus e principalmente si è data occasione per meglio sopportare il disagio della chiusura in casa, trovando qualche possibilità di sollievo ed interrompendo le lunghe fasi di clausura estesa e quasi monacale. Dunque si tratta di un’opzione ben accetta”.

La pandemia è un occasione per tornare a essere solidali

R. C. – “Secondo un’indagine condotta dall’Ipsos e diretta da Franco Garelli (che ne ha dato notizia ne Il Messaggero del 30 marzo 2020, pagina 15), su un campione nazionale – statisticamente rappresentativo –  di 1000 persone fra 18 e 75 anni, il 16% degli intervistati ha detto di aver pregato di più che in precedenza, prima della pandemia. In particolare il 26% del campione afferma che “sente di più l’esigenza di avere una vita spirituale, di coltivare i valori dello spirito”. Ma tali dati interessano maggiormente i soggetti già credenti e praticanti, meno quelli tendenti ad un’appartenenza più blanda. Invece i non credenti non hanno fatto registrare alcun incremento”.

R. C. – “Il 23%, poi, dichiara di prendere parte spesso o con una certa frequenza alle offerte religiose in rete (tale dato corrisponde all’incirca alla percentuale dei praticanti settimanali costanti). Anche in questo caso il coinvolgimento dei credenti più periferici è ridotto al minimo. Nondimeno il consenso verso le nuove forme di comunicazione religiosa è abbastanza ampio e coinvolge circa due terzi della popolazione (il 63%). Allo stesso tempo il 68% degli interpellati condivide la scelta di tenere chiuse le chiese ed il 61% quella di non tenere funerali religiosi (fatta salva la benedizione della salma)”.

Le proprietà formali delle religioni. Émile Durkheim ci spiega la religiosità

R. C. – “Circa la metà giudica positivamente il lasciare aperte le chiese per una frequentazione individuale, ma altrettanti sono contrari ed un 10% non si esprime. Apprezzato è il volontariato religioso in tempi di contagio. Il 70%, inoltre, non reputa la diffusione del virus come una punizione divina. E l’80% valuta la situazione drammatica quale “tempo propizio per tornare ad essere più umani e solidali”. Circa la metà del campione ritiene l’evento covid19 una sorta di messaggio divino e di richiamo verso ciò che è più importante nella vita”.

CHIESA

Non c’è più religione: la crisi delle vocazioni in Italia e nel mondo

Tutti i numeri di un fenomeno in atto da tempo, ma che sembra destinato ad accentuarsi ulteriormente. Le testimonianze di due giovani consacrati e l’analisi dell’esperto

di Alessandro Vinci

Il parere dell’esperto

Al di là dei percorsi di fede individuali, non si possono non analizzare le dinamiche socioeconomiche che negli ultimi cinquant’anni hanno reso così infrequenti casi come quelli di don Alessandro Viganò e suor Nicole Francescato. A fornire alcune chiavi di lettura utili in tal senso è il professor Roberto Cipriani, ordinario emerito di Sociologia presso l’Università Roma Tre ed ex presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia, che rigetta anzitutto ogni scenario apocalittico relativo al futuro della Chiesa e del sacerdozio. «Tutte le grandi religioni – spiega – hanno alle loro spalle una storia plurimillenaria, che non può crollare all’improvviso. Ci sono testi, radici, strutture, retaggi culturali e patrimoni immensi, anche sul piano artistico. Quindi è senz’altro da attendersi una generale resilienza al fenomeno della secolarizzazione».

Il quale, effettivamente, viene indicato come la principale minaccia per l’avvenire della fede cristiana.

«Certo, infatti è indubbio che abbia avuto effetti importanti. Tuttavia, gli studiosi che nella seconda metà del secolo scorso profetizzavano l’“eclissi del sacro” e la “morte di Dio”, oppure parlavano di “vangeli e città secolari”, hanno dovuto ricredersi. Oltretutto non è da escludere che, in un certo senso, la secolarizzazione abbia anche giovato alla Chiesa, in quanto l’ha spinta ad adattarsi, a rivedere alcuni suoi aspetti. Ma è sempre stato così, fin dai tempi dell’Impero romano».

Ci sono altri fattori che incidono in maniera significativa sul calo delle vocazioni?

«Certamente. Penso all’urbanizzazione, perché l’attività preparatoria al ministero sacerdotale tende ad avvenire più facilmente nelle piccole comunità che nei grandi centri. Da una parte troviamo infatti contesti in cui ci si conosce un po’ tutti, il rapporto è “faccia a faccia” ed è più semplice proporre e coltivare una vocazione alla cura pastorale; dall’altra agglomerati “di massa” che offrono più possibilità di impegno, di svago e di utilizzo delle proprie risorse.
Un meccanismo simile è quello della globalizzazione, che attraverso la partecipazione al villaggio globale di cui parlava McLuhan mette “tutto a disposizione di tutti”. Ma dove c’è globalizzazione c’è anche, per converso, localizzazione. In alcuni casi, quindi, la possibilità di trovare soggetti vocati al sacerdozio si gioca anche sul numero di quanti cercano rifugio nelle proprie radici e nelle proprie identità culturali».

Questi elementi spiegano anche i numeri positivi registrati in molti Paesi asiatici e africani?
«In linea di massima sì, perché ci sono aree in cui il trapasso da quella che potremmo definire “protomodernità” verso la modernità avanzata e la postmodernità sta avvenendo molto lentamente. Quindi permangono ancora tempi e spazi utili per soffermarsi a considerare la possibilità di dedicarsi alla religione. Lontano dal turbinio derivante dall’eccesso di messaggi e informazioni a cui siamo abituati per esempio in Italia, è naturale che fasi di riflessione sul senso della vita e sul mondo che ci circonda trovino terreno fertile».

Dalle interviste realizzate è emerso come il provenire da ambienti già legati alla dimensione religiosa giochi un ruolo molto rilevante in questo tipo di scelta. Quanto contano, dunque, i background individuali?
«Tantissimo, e la mia teoria della “religione diffusa” lo ribadisce. Come sosteneva Piaget, contano soprattutto i primi anni di vita: già a cinque anni ormai è tutto deciso, una persona ha un carattere, un temperamento, uno stile. Insomma, è orientata verso quello che sarà da adulta. Allora è evidente che se in una famiglia sono presenti determinati input, poi le probabilità che i figli li introiettino aumentano. In casi più rari accade invece l’inverso, e le due componenti – genitori atei e figli religiosi – entrano in contrasto. Può bastare poco: un incontro, una lettura, un’occasione particolare».

E come mai, secondo lei, sia in Italia che nel resto del mondo la diminuzione delle religiose è più marcata di quella dei sacerdoti?

«Storicamente, dall’antica Grecia fino a pochi decenni fa, la condizione femminile non è stata certo privilegiata. Non dimentichiamo che in Italia le donne hanno potuto votare soltanto dopo la Seconda guerra mondiale. Di conseguenza, il fatto di averle sempre tenute in disparte ha generato scarsa partecipazione, scarsa consapevolezza e quindi una più facile accettazione di eventuali proposte esterne. Oggi invece, anche grazie alle varie ondate femministe, la loro coscienza è maturata: c’è più attenzione, più capacità critica, più cautela nel valutare determinate opzioni e resistere ai condizionamenti. Ecco perché, complici dinamiche quali il maggiorascato (nell’antico sistema successorio, il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare, ndr) in passato il numero delle religiose era straordinario. Anzi, eccessivo. Un riassestamento generale delle cifre è quindi da considerarsi fisiologico».

Se la sente di azzardare previsioni a lungo termine?

«Come accaduto fin qui, si può anche immaginare che si verifichino ulteriori cali, ma non fino all’azzeramento. In linea di massima, quindi, ci sarà una tenuta. Dovessi fare un’ipotesi astratta, in Italia tra cinquant’anni i religiosi potrebbero aggirarsi intorno ai 20 mila. Meno degli attuali, certo, ma sempre 20 mila. E magari i laici collaboreranno con loro. Poi molto dipenderà dagli eventi storici. Prendiamo il tema della pedofilia: oggi è certamente dannoso per l’immagine della Chiesa, ma è possibile che avvengano anche fenomeni decisamente più positivi. Tutto dipenderà insomma da un bilanciamento complessivo. Quell’equilibrio su cui, a ben vedere, questa struttura si regge da millenni».

INTERVISTA A ROBERTO CIPRIANI

                     A cura di Monica Simeoni e Cecilia Costa

L’intervista al prof. Cipriani si è svolta nello studio del suo appartamento. È uno studio pieno di libri, di ricordi, di foto, di tradizione e con la evidente presenza delle nuove tecnologie digitali, la cui atmosfera tratteggia immediatamente la sua personalità di uomo e di studioso. Una personalità, la sua, che custodisce la memoria del passato, è impiantata nel presente e protesa alla “scoperta” del futuro.

È stata una conversazione, più di un’intervista, data anche la lunga conoscenza che lega da molti anni tutti e tre, condotta in modo informale, discorsivo, ritmata dalle domande e soprattutto dalle risposte, che ha restituito una “storia” accademica e, nello stesso tempo, anche una narrazione biografica. Infatti, in questa intervista-conversazione si coglie, come sottotesto, una forte consonanza tra l’aspetto personale e l’impegno disciplinare.

Tra l’altro, tenendo conto del suo personale orientamento confessionale cattolico, tale circolarità virtuosa tra la sua qualità esistenziale e la natura del suo impegno scientifico è testimoniata  dalla sua impostazione di ricerca rigorosamente avalutativa e dal suo fare tutto il possibile per non scivolare mai in giudizi di valore, in modo particolare nell’affrontare il fenomeno religioso. Non a caso, nel corso dell’intervista, proprio riguardo al principio dell’avalutatività, egli afferma: è una sorta di vigilanza scientifica.

Nonostante questa sua posizione, mai tradita, di rispetto delle regole e delle procedure disciplinari, il suo percorso sociologico è interpretato come un’arte; portato avanti all’insegna di uno stile teorico-metodologico aperto, variegato, molteplice, privo di forme di “sociologismo”, di ansia per il “carisma”di scientificità vetero-positivista; attento alle scienze di confine, come l’antropologia, e soprattutto sempre mirato a sostenere sinergie tra l’indagine quantitativo-oggettivista e quella qualitativo-soggettivista.

Fermo restando il suo rispetto verso criteri disciplinari differenti dalla sua posizione collaborativa, secondo Cipriani, solo l’adozione di una prospettiva integrata quali/quantitativa, ancorata ad una matrice umanistica, può aprire nuove piste di analisi, facilitare nuove alleanze riflessive, una visione sociologica multidimensionale e multidisciplinare. Naturalmente, a suo avviso, ancora non è del tutto scontato l’incontro tra sociologi quantitativi e qualitativi, ma certamente più che nel passato vi sono occasioni di collaborazione e quindi di confronto.

Questa sua opzione metodologica sofisticata, inclusiva, però, non lo allontana dalla sua scelta preferenziale per il qualitativo, perché una ricerca attenta al “materiale umano” e non imbrigliata in asettiche generalizzazioni, spiega lo stesso Cipriani, permette di conoscere persone e di avere quadri molteplici per quanto riguarda l’agire sociale e quindi il ruolo che un soggetto ha in società.

Infatti, riequilibrando un atteggiamento conoscitivo sbilanciato a favore della “sterilizzazione” dei dati e del solo utilizzo di  paradigmi funzionalisti e neofunzionalisti, che partono “dall’idea di sistema e non di storia” (direbbe Ricœur), si può raggiungere un adeguato livello di svelamento di senso della complessità, si riunisce “l’umano al sociale” e si può tentare di comprendere i sentieri misteriosi delle sensibilità dei singoli mondi vitali.

Se è fondamentale per lui l’attenzione al qualitativo, non sottovalutando l’incontro quali/quantitativo o la necessità a volte di ricorrere alla rappresentatività statistica, è altrettanto importante, a suo avviso,  una riflessione critica sulla tenuta esplicativa di alcune categorie concettuali, −  come, per esempio, quelle di classe  e  di causa −, che hanno avuto nel passato un’indiscussa valenza nel rispondere alle sfide con le cosiddette scienze dure, ma che attualmente risultano sature, soprattutto se si fa un lavoro di costruzione della teoria a partire dai dati.

Insomma,pur non trascurando di riferirsi al consolidato patrimonio teorico delle scienze sociali, egli ritiene che sia opportuno operare una parziale ridefinizione semantica e la variazione di qualche classica categoria interpretativa e, quindi, ipotizzare altre modalità, altre prospettive, altri concetti, in funzione di una mutata realtà. Del resto, per sua intrinseca caratteristica, come suggerito dai suoi padri fondatori, la sociologia dovrebbe non considerarsi una scienza “data”, ma essere sempre pronta al cambiamento, in una logica di costante problematizzazione e storicizzazione del suo “oggetto”.

Questa sua impostazione scientifica, − incline alla “fermentazione dei saperi” (direbbe papa Francesco) e a preservare un’equilibrata coniugazione tra la struttura e l’azione,  tra i sistemi sociali e gli attori sociali −,   risulta ancor più evidente se si considera l’ordine di priorità dei suoi autori di riferimento, dai quali ha tratto molta della sua ispirazione e che sono stati, come lui stesso evidenzia,  una chiave di volta fondamentale per il suo pensiero: Weber più di Durkheim; Luckmann più di Berger. A volte, però, alcune delle loro teorie, ci tiene a precisare,  sono state da lui considerate come un polo dialettico, critico e quasi contestativo: per esempio, nel caso del lavoro di Luckmann su la religione invisibile, che ha utilizzato quasi come una sorta di controcanto per la sua tesi di religiosità diffusa.

In generale, un itinerario scientifico, quello di Cipriani, improntato alla curiosità costante verso ogni aspetto micro e macro della dimensione sociale, che lo  ha visto anche impegnato a riportare la sociologia, − dopo un periodo, come lui stesso sottolinea, di suo confinamento nell’alveo dell’ordinarietà −, a ricollegarsi di nuovo ai grandi problemi della realtà e, senza scadere in proposte velleitarie, pressappochiste, a riprendere una sua centralità nel dibattito culturale con il massimo grado di preparazione.

Un impegno, il suo, che lo ha condotto non solo a dare, in termini teorico-metodologici, un suo specifico contributo alle scienze sociali, ma anche ad essere un instancabile “organizzatore  della cultura” e ad assumere, in prima persona, ruoli di rilievo accademico-scientifico, nazionali e internazionali, da quello di Direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione nell’Università Roma Tre a quello di Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia; da Membro dell’executive committee della Societé Internationale de Sociologie des Religions a Presidente del Council of National Associations in the European Sociological Assiociation.

In estrema sintesi, considerando la sua produzione sociologica, il modo in cui ha rappresentato i suoi importanti ruoli, il modello di relazione scelto con gli studenti e con i colleghi, e, non per ultimo, leggendo questa sua intervista, si può dire, senza temere smentite, che il suo percorso accademico, teorico, di ricerca e di didattica, è stato − ed è tutt’ora − portato avanti come una “vocazione”, nel segno di una agostiniana castitas animi e di una coerenza tra vita e professione.

M. S.: Professore, la sua attività accademica è iniziata con il professor Franco Ferrarotti: quanto sono stati importanti il suo insegnamento e la sua frequentazione per la sua formazione professionale?

Devo dire che quando mi sono iscritto all’università non avevo affatto in mente di interessarmi di sociologia. Il mio obiettivo di partenza era l’insegnamento scolastico, quindi è stata per me una felice casualità il fatto che Ferrarotti fosse anche nella Facoltà di Lettere della Sapienza oltreché al Magistero e che dunque lo incontrassi, lo sentissi e mi appassionassi alla sociologia come disciplina. Questo avveniva comunque in stretta ed immediata continuità con precedenti mie esperienze che erano state all’interno di organizzazioni cattoliche, in modo particolare per l’apostolato dei laici ma anche in campo sportivo. La dimensione sociale mi aveva già interessato tanto, anche in chiave politica. In sostanza arrivare a Roma e sentir parlare di sociologia è stata tutto sommato una fortunata occasione che mi ha permesso di approfondire ancora di più quelle conoscenze che Ferrarotti mi trasmetteva e di riuscire poi a diventarne – era il mio sogno – assistente ordinario. Le vicende sono andate ben oltre ed ho avuto modo di dare anche un mio specifico contributo alle scienze sociali.

M. S.: La sociologia negli anni Sessanta e Settanta si è imposta con difficoltà come disciplina scientifica autorevole per la comprensione della società e del suo mutamento. Quale pensa sia oggi il ruolo della sociologia in Italia ma anche negli altri Paesi nel comprendere il forte mutamento in atto e quanto può aiutare il rapporto con le altre scienze sociali?

La storia della sociologia in Italia ha i suoi prodromi nell’Ottocento, nella seconda metà in particolare, allorquando vennero istituiti insegnamenti universitari di sociologia. Successivamente, per singolari vicende, tutto si è bloccato a cavallo dei due secoli, fra Ottocento e Novecento. Poco dopo è arrivata la parentesi del fascismo ma, come ha sostenuto Filippo Barbano, non è da attribuire solo al fascismo il mancato sviluppo della sociologia. Negli anni Sessanta del secolo scorso la sociologia si riaffacciava. Certamente Ferrarotti è stato un punto di riferimento essenziale, ma anche altri: penso per esempio ad Alberoni ed al gruppo di sociologi presso la neonata Facoltà di sociologia a Trento. La materia aveva successo. Fra l’altro la coincidenza di questo reinserimento della sociologia con tutta una serie di fenomeni sociali più diffusi, fra cui la contestazione studentesca giovanile, faceva sì che la disciplina a livello universitario, ma anche pubblico, riuscisse ad avere una certa risonanza, con una cospicua audience. I sociologi erano frequentemente interpellati anche per spiegare quello che avveniva in vari ambiti della società. Le iscrizioni alle Facoltà di sociologia continuavano a crescere. Ma forse la risposta da parte della classe docente non era sempre adeguata. Vi sono state diverse modalità di approccio da parte degli insegnanti e studiosi universitari rispetto al mondo studentesco universitario. Il che ha anche prodotto delle conseguenze non sempre positive. Poi a mano a mano la sociologia, come anche altre scienze sociali, ha perso lena, ha ridotto il suo appeal e quindi è rientrata un po’ nell’alveo dell’ordinarietà. Anche le iscrizioni ai corsi di laurea in sociologia sono calate e l’ascolto del sociologo nella società italiana è divenuto sempre più rarefatto. Nondimeno, dagli anni Ottanta in poi sino ad oggi, abbiamo ancora avuto dei soggetti accademici che sono stati, in qualche modo, latori di intervento critico ed anche, diciamo, dei parametri di riferimento per quanto riguarda l’analisi del sociale nel nostro Paese, però in misura inferiore rispetto al passato. Il successo iniziale della sociologia è stato anche l’inizio di una nuova fase di rientro, come dire, nel solco della normalità o quasi. E questo naturalmente non ha dato molte possibilità alla sociologia di svilupparsi ulteriormente così come si poteva immaginare e si poteva desiderare. Anzi diciamo che, come del resto è capitato anche per altre discipline, vi è stato un calo di tensione ed attenzione e quindi sono diminuiti i corsi di laurea in materie sociologiche ed è diminuita anche la presenza sociologica in generale nel Paese, dove, peraltro, a parte la fase intorno al ’68, la sociologia non è stata particolarmente presente.

M. S.: Lei è stato uno dei primi sociologi che nel nostro Paese ha considerato l’analisi qualitativa non in contrapposizione ma in complementarietà con quella quantitativa. Insomma, l’ha ritenuta una metodologia di analisi approfondita ed esaustiva nell’approfondire tematiche forti della società italiana. Ricordiamo i primi studi sulla periferia romana ed altro ancora. Quanto sono ancora attuali oggi, in un momento storico e politico così diverso rispetto a quello passato, le analisi di quel periodo?

Sono state analisi, come si suole dire, seminali, che hanno gettato un seme e che a distanza di decenni stanno producendo esiti ancora importanti. Ricordo che ci fu una prima fase, appunto quella delle ricerche nelle periferie romane, con analisi empiriche che comportavano una grande attenzione alle storie di vita. In seguito, abbiamo avuto la possibilità di ritornare a lavorare sul campo. Penso, in particolare, agli studi sulla borgata romana atipica di Valle Aurelia ed a quelli che, con il titolo di un libro, chiamavamo anche “sentieri della religiosità”. Ed ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, questo tipo di discorso ha davanti a sé un orizzonte rilevante perché, superata la fase della contrapposizione netta tra qualità e quantità, ora si marcia lungo percorsi non dico necessariamente convergenti ma almeno paralleli. E certamente rispetto a trenta, quarant’anni fa si è in grado di proporre metodologie più raffinate ed anche più affidabili. Naturalmente non è vinta la battaglia della collaborazione tra sociologi quantitativi e qualitativi, ma certamente più che nel passato vi sono occasioni di collaborazione e quindi di confronto.

M. S.: Un altro tema da lei approfondito sono stati i giovani, così diversi, differenti oggi da quelli dei suoi primi studi. Anche in questo caso quali sono gli aspetti simili e le differenze in un’epoca nella quale il soggetto è sempre più protagonista anche nei suoi legami, nelle sue relazioni disomogenee, frammentate?

Di giovani come soggetto sociologico mi sono interessato agli inizi, quindi dobbiamo risalire ai primi anni Settanta. Ricordo un testo dal titolo Giovani e futuro della fede. Tra l’altro questo titolo è stato ripreso di recente, inconsapevolmente, da Rita Bichi, che si interessa di mondo giovanile. Però devo francamente confessare che dopo quella prima fase non ho più seguito lo specifico dei giovani, per diverse ragioni. In primo luogo perché mi dedicavo piuttosto alla società in generale e non alla stratificazione per classi di età e d’altro canto vedevo attorno a me dei colleghi che molto più frequentemente, e diciamo anche con maggior acribia, si dedicavano alle fenomenologie giovanili. Faccio un nome per tutti: Franco Garelli, per esempio, stava lavorando sostanzialmente sugli stessi temi. Certamente rispetto a quegli anni, gli anni Settanta in particolare, molte cose sono cambiate. Emerge chiaramente anche dalle indagini a più largo raggio, perché quando si va ad esaminare la categoria più giovane si fa un confronto con il passato e si vede che alcune tendenze di fondo sono le stesse, cioè atteggiamento critico e contrapposizione tra classi di età. Alcuni contenuti sono ovviamente diversificati, ma in fondo la parabola che solitamente si verifica, in Italia come altrove, è connotata da un atteggiamento piuttosto contestativo in età giovanile e da una sorta di recupero, meno critico, in età più matura. Credo che ciò trovi conferma anche oggi, come dimostrano pure le ricerche che stiamo conducendo in questo periodo. Quindi vi è continuità ma anche discontinuità, soprattutto ovviamente nelle tematiche. Le forme in apparenza possono essere diverse, ma la sostanza del discorso è la medesima, come emerge dal confronto a distanza con le diverse generazioni.

M. S.: Lei ha molto approfondito la conoscenza sociologica relativa ai due Giubilei più recenti, con due Papi molto diversi: Giovanni Paolo II e Francesco. Che cosa può dire su questo? Qual è stato il ruolo dei laici in entrambi i Giubilei?

Diciamo che il Giubileo del 2000 ha visto una fortissima mobilitazione dei laici soprattutto a livello di volontariato, il che si è anche verificato nel Giubileo recente della Misericordia ma limitatamente a certi settori. Penso in modo particolare alle giornate giubilari dedicate ai malati e disabili, nel corso delle quali il coinvolgimento laicale è stato importante, anzi decisivo. Un po’, diciamo, meno significativo invece è risultato in altre occasioni del Giubileo della Misericordia. Comunque, l’occasione giubilare offre la possibilità di operare sul terreno sociale e religioso a chi è coinvolto in attività pastorali, religiose o comunque legate al mondo ecclesiale, rendendosi partecipe, anche se la diatriba clero-laicato non viene certo risolta: insomma permane una certa distanza. Forse qualche passo in più è stato fatto: quello che si può constatare è che i laici hanno un po’ più spazio all’interno del mondo ecclesiale.

M. S.: Aggiungo una domanda: nel ruolo delle donne c’è una diversità?

Indubbiamente è cresciuta la funzione, è cresciuto il ruolo delle donne ma anche in questo caso solo fino ad un certo punto. Permane, e per quanto riguarda il laicato e per quanto riguarda le donne, qualche barriera che è frutto anche dell’educazione del passato, in particolare del tipo di formazione dei preti nei seminari e del contesto istituzionale, che naturalmente raffrena, come pure della vecchia idea sulla donna come persona che può essere problematica per le figure ecclesiali maschili. Quindi sono diversi i fattori che impediscono un salto importante di qualità.

M. S.: Lei è stato molto all’estero con frequentazione di molti docenti stranieri e ricerche internazionali, soprattutto di sociologia della religione: Grecia, Israele, Stati Uniti, America Latina. Quanto sono differenti le sociologie nei Paesi che lei ha visitati e quanto possono essere d’aiuto per comprendere invece il nostro?

C’è grande differenza, tra la Francia ed il Messico, tra gli Stati Uniti ed il Canada, l’Argentina ed il Brasile, Israele stesso. Le sociologie ovviamente risentono di quelle che sono le loro contestualizzazioni, per cui nei Paesi dell’America Latina è molto sentito il tema politico e dunque si arriva a considerare Gramsci un sociologo per eccellenza perché fa gioco ad una prospettiva politicamente orientata; altrove c’è una maggiore sensibilità verso la sociologia classica: ovviamente penso alla Francia come agli Stati Uniti. In altri Paesi come Portogallo, Belgio e Spagna vi è, in base al tipo di lingua, una certa sudditanza rispetto ad un altro Paese che resta una sorta di faro e quindi il parametro essenziale. Ma c’è anche una notevole capacità di sviluppare discorsi propri, con delle peculiarità. Ad esempio, in Portogallo vi è una forte complementarietà tra il mondo del servizio sociale e quello della sociologia, cosa che in Italia ci sogniamo; lo stesso discorso potrebbe valere per quanto concerne gli Stati Uniti dove interi dipartimenti sono dedicati al social work. Debbo anche rilevare che in alcuni contesti il discorso associativo per quanto riguarda i sociologi è particolarmente accentuato: penso alla Francia, dove, anche se poi diverse associazioni si sono succedute e vi sono state varie crisi, l’attenzione di tipo corporativo è sempre rimasta viva. Penso agli Stati Uniti dove ci sono decine di migliaia di sociologi associati fra loro e non solo a livello di American Sociological Association ma anche all’interno dei singoli Stati. In Argentina c’è uno stretto legame tra i sociologi accademici ed i sociologi operanti nel consiglio nazionale per la ricerca. Nella parte brasiliana vi è un forte coinvolgimento anche con l’impegno sociopolitico per cui, per esempio, il tema dell’assistenza sociale è molto frequentato e per certi aspetti è da considerare maggioritario per quanto riguarda il coinvolgimento dei sociologi che operano in quel Paese. Poi naturalmente ci sono le numerose sociologie nei Paesi in via di sviluppo, come si suole dire. Inoltre, da qualche decennio a questa parte, è molto attiva la collaborazione fra le sociologie dei Paesi balcanici, in particolare della ex Iugoslavia. Ma anche nei paesi ex comunisti in generale la sociologia ha ripreso un suo percorso che già aveva offerto dei contributi notevoli nel passato. Penso in particolare alla Polonia.

M. S.: La interrompo. Ágnes Heller ha pubblicato una sua lezione, molto interessante, in cui spiega politicamente la deriva plebiscitaria delle democrazie dell’Est che stanno diventando delle democrazie totalitarie. Da ultimo, se un giovane fosse interessato a studiare sociologia quali sono i consigli e le motivazioni forti per intraprendere un percorso che sembra molto accidentato?

Non vi è dubbio che la società contemporanea abbia bisogno di sociologi: specialmente in questo momento particolare in Italia registriamo sfiducia, disaffezione, e questo naturalmente è sociologicamente intrigante, poiché se la politica non funziona non è allontanandosi da essa che si risolvono i problemi. Deriva da qui l’estrema necessità di un’analisi sociologica. Questo potrebbe essere un impegno da proporre ad un giovane, che di per sé parrebbe portato a un forte coinvolgimento nel contesto sociale. E quindi la sociologia, anche come professione e come vocazione, potrebbe essere una proposta concreta. Ma non una sociologia velleitaria, non una sociologia pressappochista, ma una sociologia che richiede una preparazione al massimo grado, possibilmente su tutti i versanti, almeno per quanto concerne gli elementi essenziali (penso in particolare all’approccio qualitativo come all’approccio quantitativo). E poi occorre anche una maggiore apertura alla dimensione internazionale: ogni lingua imparata è un investimento all’ennesima potenza, perché è così che si riscuote attenzione all’estero, quando ci si reca per dei convegni o per delle iniziative di ricerca. La collaborazione internazionale in effetti è molto ricercata e favorita. Quindi credo che ci siano spazi importanti da occupare.

M. S.: Quali differenze ci sono state fra il suo impegno nazionale e quello estero? 

Non molte direi. Ho partecipato intensamente alle attività scientifiche del settore sociologico sia in Italia che all’estero. Ho cercato di essere presente in tutte le iniziative che avessero un interesse precipuo soprattutto in vista di collaborazioni e scambi, senza alcuna distinzione fra studiosi di grande prestigio ed altri ancora in avvio di carriera. Ancora oggi con molti di loro mantengo contatti proficui, come se il pensionamento non avesse interrotto il legame con l’accademia ed anzi lo avesse incrementato. In effetti la lunga e costante seminagione ha prodotto esiti visibili pure a distanza di molto tempo. Per esempio non è raro, anche adesso, il caso di interventi a favore della stipula di convenzioni internazionali con università di altri paesi. Ricevo pure numerose richieste di referaggio per articoli proposti a riviste in lingua inglese e francese, spagnola e portoghese. Non manco, peraltro, di favorire al massimo l’inserimento di studiosi italiani nel board di associazioni internazionali di sociologia e nelle redazioni di pubblicazioni periodiche. Insomma non vi è una cesura fra l’impegno nazionale e quello estero. Debbo comunque rilevare che a livello associativo vi è una maggiore omogeneità, in chiave di uguaglianza dei diritti, in organismi che non siano italiani, nei quali non si distingue certo fra le tre fasce di professori ordinari, associati e ricercatori, ma ognuno partecipa pleno jure a tutte le fasi dei processi democratici elettivi. Riconosco, inoltre, che talora il coinvolgimento internazionale è stato soverchiante rispetto a quello nazionale (ricordo che mi è anche capitato di attraversare l’Atlantico, in aereo, per ben quattro volte in poco meno di una settimana). 

C. C.: A quali autori classici e contemporanei si sente più vicino? Qualcuno ha influenzato in modo più diretto i suoi studi e le sue ricerche?

Sicuramente Weber più di Durkheim, per esempio, e poi tutta una serie di sociologi che un po’ prendono le mosse dalla fenomenologia. Quindi partiamo da Husserl, che è stato per me una chiave di volta fondamentale, e di conseguenza Berger e Luckmann. Devo dire più Luckmann che Berger anche se il dire “più Luckmann” significa soprattutto in senso critico, in modo particolare per quanto riguarda la sua religione invisibile. Non a caso la mia teoria della religione diffusa diventa una sorta di controcanto, comunque una risposta in modo da andare al di là della secolarizzazione, che non si può negare, ma che, come dire, non è l’unica tendenza che possiamo considerare prevalente. Ci sono tante altre situazioni che si vanno a intersecare nei singoli contesti, nei diversi territori, nei cinque continenti. Arrivando a studiosi più vicini a noi, certamente debbo citare Franco Ferrarotti per ovvie ragioni, però una peculiare influenza mi è venuta da parte degli antropologi culturali italiani, specialmente per quanto riguarda i loro studi sul meridione, che sono stati un po’ all’inizio della mia attività di ricerca sul campo, in modo  particolare ovviamente De Martino, ma, come per Luckmann, anche in questo caso in chiave contestativa di quello che è stato il suo approccio. L’antropologia italiana mi è stata molto vicina nel senso che mi sono mosso a metà strada tra antropologia e sociologia, soprattutto nei primi tempi, nei primi anni, quando mi interessavo molto di religiosità popolare. Adesso di meno, anche se di tanto in tanto ritorno sul campo per questo tipo di analisi. La sociologia qualitativa, che è un po’ il mio filone attuale di studio e ricerca, è in fondo figlia di queste iniziali perlustrazioni, per cui il mio orizzonte si è allargato e quindi sono stato in grado di maneggiare diversi strumenti: l’approccio audiovisuale per esempio, l’analisi quantitativa in senso stretto, quella qualitativa in modo più specifico. Quindi diciamo che l’insieme degli antropologi italiani per me ha rappresentato una spinta importante.

C. C.: Quali sono i concetti sociologici tradizionali che ritiene ancora determinanti per l’analisi sociale e quali invece, a suo avviso, sono ormai saturi?

Non sono un funzionalista, però ritengo che il concetto di funzione sia importante. Come importante è il concetto di ruolo che, diciamo, è assimilabile. Non trascurerei, anzi tutte le volte che mi capita lo ribadisco, il concetto di classe sociale. Si può discutere se invece di dire classe si debba dire strato. Certamente le differenze sociali esistono e costituiscono una struttura decisiva per quella che è la società contemporanea. Per quanto concerne concetti meno validi oggi, non ne saprei indicare qualcuno in modo particolare.  È chiaro tuttavia che il concetto di causa, pure presente in studiosi come Thomas e Znaniecki, non ha più molto senso, come non hanno più senso tutte quelle concettualizzazioni che un po’ servivano in passato per rispondere alle sfide in atto con le cosiddette scienze dure. Debbo invece constatare che vari contributi di studiosi più o meno contemporanei sono stati rilevanti per quanto concerne alcune categorie concettuali: penso per esempio a quanto ci ha proposto Bourdieu. Ma non mancano anche nella contemporaneità studiosi, devo dire persino relativamente giovani, i quali propongono nuove concettualizzazioni. Soprattutto se si fa un lavoro di costruzione della teoria a partire dai dati, è chiaro che operando sul dato non necessariamente si deve far rifermento alla letteratura già consolidata ma viene naturale ipotizzare altre modalità, altre prospettive e quindi altri concetti che poi, come si sa, sono la piattaforma essenziale per la costruzione della teoria.

C. C.: Sempre a proposito di concetti, quanto contano o possono contare ancora nella politica, diciamo più in generale nel vissuto collettivo, le due etiche proposte da Weber: l’etica della responsabilità e l’etica della convinzione?

La politica è anche l’arte di raccogliere consensi in merito ad obiettivi che si ritengono giusti, razionali e tutto sommato utili al benessere sociale diffuso; quindi le due etiche weberiane non possono essere dismesse, hanno da marciare come due binari paralleli diretti verso un unico obiettivo. In fondo occorre essere ben convinti per cercare di convincere, ma occorre anche essere responsabili per fare in modo che anche altri si carichino di una responsabilità che poi porta, bene intesa, saggiamente organizzata, opportunamente amalgamata, prudentemente coordinata, a risultati che poi giovano a tutti. Capisco che l’ambizione del potere e l’esercizio del potere e poi il piacere del potere sono tutti elementi che contrastano con l’esercizio delle due etiche. Però questa è la strada.

C. C.: Ritiene fondamentale e, se l’ha praticata, l’interdisciplinarietà ma anche l’intradisciplinarietà e ritiene utile, sempre pensando a questa commistione,  a questo meticciato, se l’ha fatto, tra discipline diverse, prendere ispirazione o avere ispirazione dalla letteratura, dall’arte, dalla musica? Un sociologo può trarre da questi spazi creativi sia concetti, sia spiegazioni?

Proprio questa è un po’ la mia opzione, anzi qualcuno è persino critico su questo nei miei riguardi, cioè per il fatto che si seguano più strade quasi contemporaneamente. Quindi sono fortemente convinto della dimensione interdisciplinare come di quella intradisciplinare, e faccio tutto il possibile per praticare questo duplice tipo di percorsi: quindi vado negli archivi, cosa che non mi pare particolarmente abituale per un sociologo, e poi utilizzo strumenti che mi vengono anche da altre arti. Tutto sommato anche la sociologia è un’arte. Devo dire che una carenza di fondo di cui mi lamento riguarda per un verso la letteratura e per un altro verso la musica, ma per due ragioni diverse. La letteratura perché, al di là della fase scolastica e dell’esperienza molto intensa degli studi universitari, è diventata per me una chimera, in quanto non ho affatto il tempo di leggere interi romanzi, ad esempio. Ecco: mi è pervenuto un romanzo storico, di 700 pagine, interessantissimo, dedicato alla vita di Giuseppe Di Vittorio, ma pur avendo immenso interesse per il personaggio non ho potuto far altro che scorrere il testo pagina per pagina e soffermarmi di tanto in tanto per cercare di capire alcune situazioni e questioni. Quindi si tratta di ragioni di tempo e di distribuzione delle attività nella giornata, per quanto concerne la letteratura, e di mancanza delle conoscenze tecniche specifiche per quanto riguarda la musica. Vorrei tanto sviluppare dei discorsi in termini di sociologia della musica o di antropologia della musica, ma non avendo nozioni musicali adeguate vi debbo rinunciare. Ho anche scritto degli articoli apprezzati da alcuni musicologi, però avrei potuto migliorare di gran lunga il mio contributo se avessi avuto una competenza almeno di base sul linguaggio musicale. E di questo naturalmente faccio colpa al sistema scolastico italiano.

C. C.: A proposito sempre di musica e di letteratura, ha mai pensato che alcuni libretti delle opere hanno anticipato movimenti sociali? Mi viene in mente, era proprio due anni prima dello scoppio della Rivoluzione francese, il Don Giovanni di Mozart o qualche romanzo che è riuscito a descrivere una situazione che in quel momento si stava vivendo, anticipando anche quello che poi sarebbe avvenuto, per esempio rispetto alla povertà, rispetto alla differenziazione sempre più forte in classi.

Certamente sia la musica che la letteratura, provenendo da riflessioni di soggetti particolarmente al di sopra del livello intellettuale medio della popolazione, danno luogo anche ad anticipazioni, a previsioni, in sostanza fanno capire prima del tempo che cosa sta succedendo nel sociale. Questo si può ritrovare nella Bohème di Puccini, o si può rintracciare, per quanto riguarda il discorso del potere, in Turandot del medesimo autore. Su un altro versante, per esempio quello verdiano, c’è una forte consonanza con quello che stava avvenendo in Italia con i moti risorgimentali, proprio in parallelo con quello che per altro verso scriveva Alessandro Manzoni, per cui si vede chiaramente la congiunzione fra i due discorsi: musica e letteratura insistono insieme su un medesimo aspetto. Dirò di più: persino in opere letterarie lontanissime nel tempo (e penso, in modo particolare, ai miei studi classici di latino e di greco), si trovano delle analisi, delle premonizioni, che sono attualissime ancor oggi. Penso alle opere di Cesare, a Sallustio, penso soprattutto a quelle situazioni politiche complesse che hanno caratterizzato l’antica Roma tra le fine dei secoli che precedono il Cristo ed i secoli appena successivi. Lì ci sono tutta una serie di dinamiche che puntualmente noi ritroviamo anche nelle situazioni odierne.

C. C.: Noi viviamo una situazione complessa. Qual è il valore aggiunto del qualitativo di cui lei è stato uno degli esponenti principali in Italia e dei metodi sensibili al “coefficiente umanistico” per la ricerca contemporanea, per la complessità contemporanea? C’è un valore aggiunto?

Il valore aggiunto è dato ovviamente dalla relazionalità con il soggetto. Quando ci si trova di fronte ad un questionario, magari compilato male, difficilmente si ha la possibilità di recuperare il soggetto, di parlargli, di farsi spiegare che cosa intendeva dire con una certa crocetta posta rispetto ad un item già prefissato. Il contatto a faccia a faccia con il soggetto umano è un’occasione non paragonabile, che non va persa. Certo costa fatica riuscire ad ottenere la disponibilità di una persona e costa fatica nel momento in cui si conduce un’intervista perché ci si deve porre con la massima cura possibile in termini di accoglienza e di ascolto nei riguardi di chi ti sta parlando. Ma non è finita lì, perché poi c’è tutto il lavoro di analisi che dura molto di più che la mezzora od ora di intervista e può persino comportare anni per cercare di capire alcuni dettagli, per ritornare magari dalla stessa persona e farsi spiegare qualche aspetto problematico. E non è finita lì anche perché nel frattempo la persona può anche aver cambiato opinione, può aver subito un trauma, od anche aver avuto una situazione più felice, più fortunata, più soddisfacente o meno. Pertanto, ci sono molti fattori in ballo che fanno sì che la metodologia qualitativa sia molto più difficile da implementare che non quella quantitativa.

L’analisi qualitativa richiede una preparazione straordinaria che, dopo molto più tempo rispetto al quantitativo, può offrire frutti di non scarso momento. Francamente devo dire che in questa fase attuale della ricerca sulla religiosità in Italia, dopo aver letto ben 164 interviste, mi sono trovato un po’ spaesato, nel senso che mentre leggevo avevo colto alcuni elementi da recuperare per la costruzione di una teoria sulla religiosità degli italiani, ma poi non ero sicuro sulla loro validità euristica. Ancora adesso andando avanti per temi, per capitoli, sulla figura di papa Francesco, sulla religiosità, sull’immagine di Dio, sulla celebrazione festiva e quotidiana, di volta in volta emergono intuizioni nuove che non sono solo mie, ma vengono dal compulsare quello che, per esempio, altri analisti, con altri strumenti, hanno potuto rilevare, per cui trovo che ci sono delle affinità, degli agganci, come in un puzzle, un enorme puzzle, messo insieme con un approccio multi-metodo. Con il solo approccio quantitativo, esclusivamente con gli incroci, limitatamente con la regressione lineare, riduttivamente con il chi quadro, il tutto poteva offrire sì degli spunti ma non poteva andare oltre un certo limite. Fra l’altro, pur con strumenti quantitativi e statistici significativi, aggiornati ed innovativi, la sicurezza totale del risultato non si riesce mai ad avere rispetto a quello che il dato può dire. Ovviamente nemmeno sul qualitativo si ha una sicurezza completa, sempre e comunque soddisfacente, però si possono raccogliere più informazioni per avere più tasselli da sistemare al fine di costruire il mosaico rispetto al quale si deve dare una spiegazione e se possibile un’interpretazione. Ecco perché il qualitativo mi attrae di più, e mi attrae di più anche perché mi permette di andare a fondo, di indagare sino ai minimi dettagli, soprattutto ponendomi spesso vari interrogativi: “perché è stato detto questo?”, “forse perché al momento la persona era nervosa?”, “probabilmente perché voleva riferirsi a qualcos’altro?”, “oppure perché ha sbagliato ad usare quella frase, ad usare quell’aggettivo?”, “od invece perché voleva presentarsi in un certo modo a chi lo stava intervistando?”. C’è tutta una serie di quesiti a cui non si trova facilmente risposta. Ed invece si deve cercare, in qualche modo, di risolverli arrivando poi alla fine a fornire una spiegazione, un’interpretazione, a beneficio del futuro lettore del libro che si sta scrivendo e che si vuole far circolare in modo tale che si capisca, al di là di qualche percentuale, qual è il dato reale, non dico necessariamente quello “vero” ma quello che in qualche misura è il più verosimile e quindi il più affidabile.

C. C.: Quindi il materiale umano, diciamo pure umanistico, la intriga di più perché arriva alla complessità del soggetto o anche perché ritiene che sia la leva fondamentale per penetrare una complessità sociale generale che altrimenti il dato asettico non ti restituisce?

Non la vedrei in questi termini perché potrebbe apparire un po’ troppo strumentale. Preferisco il qualitativo in quanto mi permette di conoscere persone e di avere quadri molteplici per quanto riguarda l’agire sociale e quindi il ruolo che un soggetto ha in società. Faccio un esempio: se si tratta di andare a cena scelgo, se possibile, di andare in un posto nuovo perché questo mi permette di conoscere altre persone, quindi di fare un’ulteriore osservazione sociologica, di frequentare e di capire altri soggetti. Faccio un altro esempio di tipo applicativo: di fronte ad un’azione che può apparire violenta, che può apparire fuori posto, sono tendenzialmente portato a non reagire sull’immediato, a pormi sempre il problema di che cosa ci sia alle spalle di quella persona, che cosa ci sia prima, che cosa abbia prodotto quel tipo di comportamento e quindi in fondo faccio sociologia continuamente ma è una sociologia che, per quel che mi riguarda, è molto spinta all’interno non da una curiosità in senso generico, ma da una sensibilità nei confronti della persona umana in senso generale e quindi anche nei riguardi di soggetti che potrebbero apparire molto diversi, persino fastidiosi, difficili da trattare. Questo diventa, come dire, una sfida non solo scientifica ma pure sul piano umano. Riuscire a reggere, a mantenere un equilibrio, anche dinanzi ad affronti verbali, se non di altro tipo, è tutto sommato un esercizio che un sociologo, il quale abbia alle sue spalle tutto un bagaglio teorico-metodologico di prim’ordine, dovrebbe essere in grado di gestire almeno passabilmente, non dico nella maniera ideale, ma in modo tale da non produrre conseguenze che riguardano egli stesso ma soprattutto la persona con cui ha a che fare.

C. C.: Tenendo conto della sua esperienza intellettuale e personale e del fatto che si è occupato soprattutto del fenomeno religioso, fede e scienza sono mai entrate in contrasto, si sono sovrapposte nella sua analisi e soprattutto il principio di avalutatività è stato sempre una stella polare, un dogma scientifico?

Facciamo alcune premesse. La prima: ritengo che anche la teologia è una scienza, come naturalmente ritengono gli stessi teologi, e proprio perché scienza a 360 gradi, come le altre scienze, ha bisogno di dialogare con altre discipline. Non a caso ci sono già, anche se non maggioritari nel loro contesto disciplinare, degli studiosi di teologia che dicono di voler fare una scienza pratica, cioè attenta al dato che viene dalla sociologia o da altre scienze come la psicanalisi, la psicologia sociale, l’antropologia, la storia, la filosofia e così via. Ciò detto, preciso che ovviamente cerco di tenere a freno la mia valutatività in chiave di giudizi che potrebbero provenire da quella che può essere la mia matrice confessionale, la mia componente ideologica, la mia attitudine caratteriale. Poiché so che tutto questo per me ha un peso specifico non trascurabile faccio ogni sforzo possibile per evitare che il mio orientamento, il mio punto di vista sia in gioco nella fase in cui sto analizzando una fenomenologia. Naturalmente questo comporta anche dei prezzi da pagare. Ad esempio, talora ho avuto modo di entrare in garbata dialettica con uno studioso come Achille Ardigò (anche lui cattolico) il quale invece pensava che un sociologo dovesse essere anche religiosamente più militante. Lo stesso discorso naturalmente è valso sia ad intra che ad extra: ho cercato sempre di porvi rimedio. Come? Per esempio, facendo in modo che in tutte le mie indagini a carattere collettivo, specialmente quelle che mi vedevano come responsabile scientifico, ci fosse tra i ricercatori qualche studioso che la pensasse in maniera assolutamente diversa dalla mia, così da contemperare varie visioni, differenti interpretazioni. E questo è stato come dire un must, soprattutto nelle ricerche a largo raggio, di carattere nazionale o internazionale. Sentire anche altri punti di vista, compulsare altre sensibilità e mettere insieme il tutto sono serviti per arrivare a delle proposte finali anche più corroborate, dunque anche più sostenibili ed affidabili, tutto sommato. Orbene, non sono solo un sociologo, sono anche un cittadino, un operatore sociale, un soggetto impegnato in attività sociali. Non è che smetto di fare il sociologo quando sono più direttamente coinvolto, né faccio solo l’osservatore che prende, per quanto possibile, distanza dall’osservato o dalla realtà in osservazione. Ammetto che è difficile mantenere una dirittura precisa lungo questo crinale scivoloso, pericoloso, però è opportuno che lo scienziato sociale faccia tutto il possibile per usare al meglio la bussola dell’avalutatività, almeno tendenziale, perché ritengo che ove essa venisse meno ci sarebbe (uso un termine pesante) uno sbraco ideologico, nel senso che poi si parte da preconcetti e da pregiudizi, cioè da decisioni già prese, per cui, al limite, come dice qualcuno, non varrebbe neanche la pena di condurre alcuna ricerca visto che c’è già un risultato scontato. Qualcosa di simile mi è capitato soprattutto in alcune fasi storiche del nostro Paese: ricordo tutta la vicenda dei vari referenda sul divorzio e sull’aborto, sui quali avevo determinate posizioni personali ma non potevo metterle in gioco, altrimenti non avrei capito il pensiero dei soggetti che intervistavo o che cercavo di comprendere nei loro atteggiamenti ed anche nelle loro azioni. In definitiva l’avalutatività è più che altro una sorta di vigilanza scientifica e non una decisione di principio morale a monte. Come è facile immaginare, quando mi trovo di fronte a un fatto non posso dire che non mi interessa perché sto facendo il sociologo: esamino il caso specifico e decido il da farsi o meno. Su questo aspetto non nego di fare molta fatica a farmi capire, non solo in ambito scientifico e non solo in ambito ecclesiale. Evidentemente quando si va a criticare certi comportamenti dei vertici accademici od ecclesiali, non è da attendersi che i soggetti sottoposti a critica si pongano sulla medesima linea di chi li contesta. Questo discorso vale anche in ambito extra accademico ed extra ecclesiale dove per esempio il mio orientamento può essere abbastanza conosciuto ed in qualche caso può far problema. Allora cerco di non creare ulteriori occasioni di frattura, di distacco, di presa di distanza, ma cerco tutte le soluzioni possibili per mantenere comunque un legame, lasciare comunque aperta la possibilità di una comunicazione. Ecco in questo forse sono valutativo: non ritengo nessuno e nessuna quale mio nemico e mia nemica. Capisco anche che invece da parte altrui vi possa essere un orientamento diverso, che però va dato per scontato, giacché rientra nelle possibilità che di fatto si presentano.

C. C.: Professore, come la sociologia è stata un valore aggiunto per la sua vita accademica ed anche esperienziale?

Da giovanissimo non avevo che una vaga idea di quella che potesse essere la sociologia, disciplina non insegnata nelle scuole di allora, per di più. Ma ero, sin dal mio secondo decennio di età, particolarmente coinvolto in attività a carattere sociale: dalla formazione alla pratica sportiva, dal teatro all’arte. Tra le varie iniziative promosse, appena laureato, ricordo quella di un “Corso teorico-pratico di tecnica e linguaggio del cinema” con proiezioni e dibattiti su fotografia, musica, doppiaggio, montaggio, soggetto, sceneggiatura, regia, interpretazione. Nel frattempo facevo qualche esperienza in campo politico, come consigliere della Democrazia Cristiana di Cerignola in provincia di Foggia, aderendo alla corrente di Aldo Moro, una figura che per me rimane di riferimento pur a distanza di quasi mezzo secolo. Insomma era quella l’aria che respiravo, per cui lo sbocco verso la sociologia fu una conseguenza più che logica. Senza soluzione di continuità, la mia dedizione all’attività didattica e di ricerca era e resta un must proprio per la concezione che ho dell’accademia e della relazionalità. Spesso sono stato rimproverato per l’essermi schierato dalla parte degli studenti, cosa che non rimpiango e che anzi continuo a coltivare e prediligere. Tale posizione mi ha creato non pochi disagi, anche con alcuni colleghi docenti, piuttosto attenti a proteggere la loro immagine pubblica. Dagli studenti ai giovani studiosi il passo è facile: per questo ho proposto diverse esperienze rivolte ad un target costituito dalle nuove generazioni (per esempio: il Forum Nazionale Analisi Qualitativa, il VisualFest, il master interuniversitario in Sociologia: Teoria – Metodologia – Ricerca, l’Alta Scuola Internazionale di Sociologia, la Scuola di Alta Formazione in Sociologia della Religione). La mia convinzione profonda è che la sociologia sia un investimento di prim’ordine per la preparazione di cittadini consapevoli e critici, informati e saggi, riflessivi e previdenti. Questo è anche il significato del Nuovo manuale di sociologia (seconda edizione, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2018), in cui sono raccolti i contributi dei maggiori esponenti della sociologia italiana, quasi una sorta di lascito per la futura sociologia (e società) italiana, come ribadito nel mio capitolo conclusivo su “La sociologia e le sue potenzialità” (pp. 335-340).