Intervista di Roberto Cipriani e Stefano Delli Poggi a Franco Ferrarotti su Valle Aurelia a Roma (11.09.2014)

11.09.2014 – h. 10:00

c/o studio di Franco Ferrarotti, professore emerito

Corso Trieste, 61 – Roma

[Inizio a 5’40”]

FF: “Conoscendo la sua (di RC) incredibile capacità di leggere un testo e di tradurlo in intervista, mi permettevo di dargliele queste cose […]”

N.d.R.: FF consegna contestualmente alcuni scritti da cui trarre indicazioni. Proseguono con preparativi, indicazioni di pubblicazioni e simili. Nonché discorso sulla crisi italiana nel senso della apparente rinuncia della popolazione – in particolare quella giovanile – a un’azione o reazione più forte rispetto a questa che sembra un’accettazione passiva dello scivolamento socio-economico. Le speculazioni di FF derivano dal suo recente e consueto viaggio negli Stati Uniti.

Altresì spazia sui temi della protesta, del disagio sociale, dell’esclusione sociale ecc., attese su una Grande Jaquerie ecc., di una carenza della gestione della magistratura italiana e del ritardo della conclusione delle controversie. È lo spaziare del professore su temi generali.

[14:10]

FF: “… forse dovremmo replicare le nostre ricerche, come lei giustamente ha pensato … “

RC: “Ecco, son passati più di cinquant’anni … “

FF: “Sì.”

RC: “E dunque, ritorniamo indietro agli anni Sessanta e in particolare a quando lei arriva a Roma e comincia a interessarsi delle borgate.”

FF: [Inizia raccontando la storia degli inizia del suo insegnamento a Roma nella facoltà di Magistero. Passa a sostenere l’importanza del lavoro sul campo per il sociologo che non può essere solo un teorico da cattedra, riafferma la interdisciplinarietà necessaria della sociologia. Parla dei sociologi da poltrone, citando Durkheim, Weber e Pareto. Sulla base di questo racconta che la “necessità” della ricerca suk campo partì all’epoca dalla mancanza di fondi e soldi, tranne che per i biglietti dell’autobus. Con i suoi colleghi iniziò andando fino al capolinea esterno di un autobus e si trovò nella borgata Alessandrina – N.d.R.]

[18’40”]

Torna nuovamente sul discorso dell’esclusione sociale stavolta collegata alla “crisi delle parrocchie”.

FF: “… stavamo già occupandoci della crisi del sacro, e di lì le prime ricerche: Roma da capitale a periferia. E poi più ancora: Vita di baraccati, ’73 che ha avuto … Roma da capitale a periferia è uscita nel ’70 perché ho voluto che uscisse nel centenario di Roma Capitale come controcanto alla retorica ufficiale: 1870 breccia di porta Pia, Roma capitale, 1970 Roma da capitale a periferia, decadimento e cose … e poi vite, La città come fenomeno di classe, poi le altre ricerche; noi siamo partiti proprio, da un bisogno di ricerca sul campo e mancanza di mezzi. Quindi, andare fin dove ci portava il mezzo pubblico. Abbiamo avuto fortuna …” [20’19”]

N.d.R.: prosegue riferendosi alla borgata Alessandrina, al disagio sociale che si vedeva evidente ecc. per ritornare poi alla forza della ricerca sul campo. Alla differenza tra la verificazione di ipotesi costruite teoricamente a tavolino e la teoria che cresce dall’impresa di raccolta sul campo (fa riferimento esplicito alla Grounded theory).

In questo senso parla di una nuova metodologia e del rapporto tra teoria e ricerca.

Parla della Scuola di Francoforte rispetto sempre al fare sociologia ex catedra, trovando conferme nei fatti sociali o addirittura nei ritagli dei giornali.

Parla dell’operazionalizzazione del concetto (il paradigma di Lazarsfeld – N.d.R.) e fa un discorso metodologico quasi a parafrasare l’affermazione “i dati vengono dappertutto”.

Tenta una definizione immediata e spontanea della sociologia e continua a incentrare il suo discorso nel rapporto tra teoria e ricerca (molti autori sono stati citati: Adorno, Marcuse, Comte, ancora Weber, Durkhein e Pareto, Parsons, nonché altri  statunitensi della Scuola di Chicago).

[29’58”] – prima interruzione

[32’58”] – riprende sugli stessi temi.

[33’34”] – interviene RC: “Ecco, diciamo che gli inizi furono alla borgata Alessandrina, acquedotto Felice, s. Policarpo (…)

FF: “Non solo. La posso far ridere un momento?! Che Angelo Pagani a Milano, citandola e sbagliandola, ha detto: Hanno fatto grandi ricerche per la brigata Garibaldina (… segue su questo episodio)”

RC: “A un certo punto l’interesse si sposta su valle Aurelia.”

FF: “Sì. Fa parte. Lì c’è anche la Magliana (…)” [segue il racconto dell’affitto di una baracca al Borghetto latino per svolgere osservazione partecipante e cita ancora altre borgate e/o zone di periferia in cui ha fatto ricerca – N.d.R. ]

[35’44] FF: “In realtà si finì, grazie agli studenti, devo dire, grazie ai collaboratori, si finì poi (…) una, grazie poi a lei e grazie a Maria Michetti un giorno io fui portato alla Casa del lavoro della valle, di valle Aurelia, chiamata anche valle dell’Inferno, chiamata anche così (…) che era in fondo la fornace Veschi. Ora io non l’ho mai detto questo, mi permetto di dirlo a lei come una novità assoluta. Io sono nato, troppi anni fa immagino, in località di Palazzolo vercellese, fra Trino, Fontanetta e Trescentino sulla strada di Torino, poi l’altra strada che andava a Vercelli, c’era Trino, Costanzano, Desano, Vercelli. Sono nato non proprio nel paese, ma fuori paese, lungo il Po (…) infatti per me il Po è dall’altra parte con le colline del Monferrato, Tagliaferro, Camino, Cantavenna e così via, in una località chiamata La Furnas, che significa La Fornace. Io questo non l’ho mai detto, ma il mio interesse notevole, anche se ormai erano interessi (…) io avevo in quegli anni altri interessi, ma l’interesse molto notevole che ho avuto per valle Aurelia, soprattutto, e per la fornace Veschi. Che la fornace Veschi da cui il nome valle dell’Inferno era una tipica, era proprio il nome del cascinale dove io ero nato, che si chiama appunto La Fornace (…)”

[37’23”] – seconda interruzione

[30’06”] – riprende RC: “Quindi dicevamo, la fornace.”

FF: “Sì, la fornace (…)”

RC: “È il moment …”

FF: “No, devo dire che io ho visitato, soprattutto con questa mia assistente che non cesserò mai di rimpiangere, che era [??] Maria Michetti (…) che era per molti anni qui membro del consiglio per il PCI a (…) a Roma, sempre non solo nell’opposizione che c’era il PCI, ma dentro il PCI sempre minoritaria, sempre contro, una persona straordinaria che (…) insieme, dunque c’era lei, c’era la professoressa Macioti, bhè c’era, lei [RC?] è venuto, tutti (…) e abbiamo, abbiamo la (…) mi sono reso conto che qui non eravamo in una situazione effettiva di, diciamo, di miseria che si autoriproduce (…) non si applicavano in concetti di Oscar Lewis [l’antropologo?]. qui c’era un’emarginazione di tipo particolare. Famiglie che avevano, in qualche modo, occupato suolo pubblico dentro quello che era un po’ la valle Aurelia. Questa valle Aurelia che poi il Comune, mi duole doverlo dire, di sinistra, in maniera abbastanza diciamo unilaterale, se non cieca, avrebbe in qualche modo sradicato. Perché questo è quel che avvenne agli abitanti proprio (…) alcuni resistettero, ma gran parte andarono a finire dove? Si pensò di sanare la situazione mandandoli in grossi «casoni», in questi edifici anonimi – è vero!? – spesso con persone, uomini e donne di una certa età, però in edifici spesso privi di ascensori funzionanti in maniera decente; in sostanza con grave disagio, distaccandoli dalla loro, da quella che era diventata la loro comunità originaria, per quanto, questo il lo dico sempre, non si tratta di demagogia, era una comunità originaria che evidentemente allo stato elementare, non c’era (…) Questo mi fece capire, una delle cose che imparai, proprio parlando lì le domeniche alla Camera del lavoro di valle Aurelia, la, la pianificazione democratica dev’essere non soltanto a due vie, ma dev’essere anche flessibile; deve tener conto dei radicamenti storici che ci sono. Non può agire come un ferro da stiro in nome di una razionalità astratta. Anzi, lì proprio valeva il problema del contrasto fra razionalità razionalistica astratta e razionalità come ragionevolezza e storico radicamento che in qualche modo ha una sua accidentalità, ha una sua razionalità post-razionalistica. L’esperienza di valle Aurelia secondo me fu molto bella perché soprattutto indicò una forma, diciamo, oppressione del potere anche illuminato, anche democratico, ma un potere che faceva valere, appunto, una cogente, diciamo, astratta razionalità su quella che era invece ormai la produzione, la realtà determinata da una lunga tradizione [questa è la dinamica elementare del materialismo storico ortodosso – N.d.R.]. Devo anche dire poi che la, il (…) cioè che era necessario a valle Aurelia non era poi (…) erano i servizi (…) io debbo, per dirla tutta, erano servizi elementari, cioè: fognature, acqua, eccetera che non sempre erano adeguati; lei ricorderà grossi problemi, non dico proprio di epidemie, ma di infezioni a largo raggio, insomma. Invece, questo è un altro aspetto, si concepì questo isolamento sociale, da cui era bene far uscire la popolazione, cioè aiutare la popolazione a uscire in prima persona, non farla uscire, costringerla; si pensò che tutto questo poteva essere, non dico risolto con delle Notti bianche, ma risolto in termini di produzione quasi artistiche; soprattutto una domenica mattina, io non potrò mai più dimenticare, nella, proprio nella valle Aurelia e addirittura su un palco eretto nelle vicinanze delle rovine della fornace – io non so se lei ricorderà, però, io quasi mi rifiutavo di prendere la parola, ma poi dovetti prenderla – la scena fu, come si dice in termini, così, teatrali, fu rubata da un assessore alla cultura che vedeva – del comune di Roma, di sinistra, il PCI – che vedeva appunto che i problemi dell’esclusione sociale in termini non di servizi, non essenziali, non di autonomia, ma vedeva, questi, questi, diciamo vedeva, concepiva la esclusione sociale che resta, (??), resta su scala mondiale planetaria, resta la connotazione essenziale dei gruppi emarginati (…) la concepiva in termini culturologici. E questo, ottimo immagino architetto, dalla faccia un po’ patibolare se posso esprimermi …, rispondeva al nome di Renato Nicolini, con una improntitudine, che lui non era mai, non aveva mai fatto ricerca, proponeva, diciamo … cinema, teatri, attività dopolavoristica, come se il problema dell’esclusione sociale e quindi della partecipazione dei cittadini, consistesse solo, consistesse solo nel divertirli e farli partecipare a una serata filodrammatica. Ora, lei non so se può ricordare questa (…) ma (…), e questa come una, diciamo pure, veniva non da uno come me da un quidam de populo, è vero, ma veniva, questa era l’espressione di una politica offerta, avanzata, enunciata dal responsabile, dall’assessore alla cultura del comune di Roma. E questo trovai anche che su scala non più di valle Aurelia, ma romana, si era, si andava affermando una tendenza barocca, seicentesca, delle Notti bianche, delle … cioè, la movida come soluzione dei problemi di partecipazione. La partecipazione popolare voleva dire invece dare strumenti linguistici, politici, effettivi, rapporti di potere e soprattutto comunicazione a due vie plurale, per elaborare decisioni che avessero una sostanza comunitaria; cioè rendessero dei gruppi umani slabbrati e frammentati, dessero loro la capacità di coagularsi … ma non intono, non per … intorno a una balera, non intorno a che so io, un fatto teatrale, ma invece intono a problemi che erano problemi, primo: di sopravvivenza, reddito, lavoro effettivo; secondo: erano problemi di vera e propria partecipazione alle decisioni che li riguardavano; terzo: trasformare, diciamo, dei sudditi, degli emarginati in cittadini, cittadini responsabili. E qui l’informazione, in questo Nicolini aveva ragione, l’informazione come momento di auto sviluppo può giocare un ruolo importante, ma non era, la informazione da non concepire, così come ancor’oggi accade, a concepirsi come qualche cosa che dà luogo, diciamo, al divertimento, dà luogo all’eccitamento, all’effervescenza, niente affatto al ragionamento. Io poi da lì ho capito anche come c’era – col fenomeno Berlusconi, l’ha confermato e soprattutto oggi il fenomeno del «5 Stelle» lo conferma – che spesso, nella storia italiana … non è il caso di evocare Masaniello, nella storia italiana c’è questa tendenza a tramutare il problema etico-politico in atteggiamento estetico (…) a tramutare, quindi, il bisogno di partecipare, di essere presenti e di condividere il potere in un bisogno di pura visibilità: facciamoli uscire! Se escono con le Notti bianche, col cinema, con la cosa, vanno a ballare, ecco che non sono più emarginati. Lo sono, anzi, può essere questo l’inizio di un fenomeno che io ho trovato solo embrionalmente enunciato in Weber e che possiamo chiamare non più lo sfruttamento ottocentesco – che poi lì non c’è perché c’è la disoccupazione volontaria – ma possiamo chiamarlo al di là della vendita della forza-lavoro, la possiamo chiamare la vendita dello spirito, cioè la proletarizzazione dell’anima … cioè l’estraneazione di sé rispetto a sé stessi. Ora quest’idea di proletarizzazione dell’anima, per cui si diventa proletari in maniera doppia, si è doppiamente sfruttati nel momento in cui si diventa, come dire, oggetti e comunque presunti soggetti di divertimento questa è una situazione abbastanza grave. Valle Aurelia, quel che mi ha insegnato valle Aurelia è stato questo: che anche in una situazione in cui non c’è, non si registra la stessa emarginazione e la stessa miseria totale, proprio, che non è solo l’indigenza, è proprio l’impossibilità di sopravvivenza se non attraverso escamotage; anche là dove ci sia in realtà persone con case eccetera, anche in questi casi, la partecipazione, l’uscita dalla esclusione sociale non presuppone soltanto dei palliativi, delle chiamate, delle adunate, delle balere, dei cinematografi, dei fatti teatrali, presuppone al contrario (…) – delle Notti bianche, quelle poi sono state fatte da Veltroni – presuppone al contrario una vera e propria opera di trasformazione interiore che consenta al cittadino [si corregge N.d.R.] al suddito, di porsi e di trasformarsi in cittadino. Questa è la cosa che ho imparato soprattutto da valle Aurelia.“

RC: “Lei fu presente alla distruzione della borgata, all’arrivo della ruspa che ne’ottantuno abbatté molte delle case?”

FF: “Sì, sì. Non solo, ma noi abbiamo, mi pare che, c’è una mia fotografia che fu scelta come la, diciamo, come copertina della critica sociologica dell’epoca, in cui una benna della ruspa, la si vede proprio, che sta in qualche modo sradicando. Il problema era questo, lì era … il problema di valle Aurelia va meditato altrimenti, perché c’era un radicamento naturale, originario, accidentale e così [INC], a cui si voleva invece sostituire un insediamento più razionale, democratico. Questo poteva avere una sua, diciamo così, una sua, un suo rationel, una sua razionalizzazione, una sua … l’errore è stato il modo di realizzazione. Un modo tecnocratico, un modo dall’alto, un modo per cui «Voi venite qui, siete lì, adesso noi facciamo pulizia – anche questa cosa: la pulizia … – e voi andate ad abitare [INC] andate ad abitare in case» diciamo razionalmente costruite. Casoni in cui ognuno aveva il suo appartamentino. Non rendendosi conto che in questo modo queste persone che bene o male avevano un rapporto diretto col territorio, con la natura, con la cos… con gli alberi, dunque eccet…, venivano completamente, diciamo, rilocati. Sloggiati in una … in una situazione che poi si è rivelata – dalle interviste che si son fatte anche dopo – molto alienante. Cioè l’alienazione, come è tipica dell’esclusione sociale, si raddoppiava anche se l’esclusione sociale nei suoi aspetti, diciamo, osservabili era stata apparentemente superata. Il che significa che l’esclusione sociale ha a che vedere con le situazioni di fatto, sul terreno, ma è anche un fatto psicologico profondo.

Tu non puoi fare il bene degli altri contro gli altri, devi in qualche modo convincere, far capire (…) che era mancato completamente lì. Io ricordo una serata con un giornalista de Il Messaggero che si chiamava Vittorio Troidi [RC: Roidi], Roìdi, Ròidi … e Roidi riconobbe tra l’altro in quella serata la continuità del nostro lavoro – dall’Alessandrina era venuti … – e però mancava a noi ma soprattutto ai giornalisti, ma in parte a noi, è mancata, andrebbe ricostruita oggi, una sorta di fenomenologia, una gradualità di tappe nella esclusione sociale.

L’esclusione sociale è un concetto generale che rischia di diventare generico, quando venga applicato come etichetta in situazioni che sono invece storicamente … e anche proprio dal punto di vista logistico è completamente diverso. Il mio rischio qui (…) ho cercato (…) bisogna cercare di .. cosa c’è di comune fra le favelas di Rio, le pobreaciones [?] del Cile, le barriadas di Lima del Perù, poi le borgate come vengono chiamate anche lì venezuelane, cosa, e poi i ghetti di Los Angeles, di Old Manhattan, di West Medison a Chicago, cosa c’è, cosa sono, quali … sì, c’è il problema: l’esclusione sociale, l’irrilevanza politica, la incapacità e l’impossibilità di partecipazione significativa; un momento! Ma ognuna di queste situazioni ha alle spalle una storia particolare. E la storia pesa. La storia pesa al punto che per esempio fra i riots di Watts nel ’64 a sud di Los Angeles, anzi a Los Angeles, era un quartiere di Los Angeles, come Ferguson è un quartiere di Saint Louis Missouri … non aveva nulla a che vedere con la violenza che esplodeva allora ad Harlem, oggi nel Bronks; Harlem è stata gentrificata. La esclusione sociale in una situazione …” [dal minuto 56’36” al minuto 1h03’02”, fa una disquisizione sulla esclusione sociale, citando ancora Oscar Lewis e il Messico, le rivolte nei ghetti neri statunitensi, la funzionalità tra la posizione logistica della borgata e i luoghi (patrizi o borghesi) presso cui questi proletari andavano a lavorare “a servizio”; richiama “il donnone” che spazzava i ministeri, i momenti di lotta urbana (cui ha partecipato FF), alla “dialettica del baraccato” che diventa il piccolo borghese, il nuovo sfruttatore dell’emarginato (richiama “i balconi fioriti” della borgata Alessandrina) e lo sfruttamento desiderante; la simbiosi tra la storia e il quotidiano. Lo sviluppo umano dei baraccati.

Riguardo a valle Aurelia la cita una sola volta per dire che anche quel luogo si è assistito a questa funzionalità tra classi e [ripresa a 1h03’03”]: FF “Io credo che un fenomeno [gentrificazione e svilimento dei baraccati] analogo, non identico, ma analogo sia avvenuto e sia ancora da studiare proprio nella valle Aurelia quando i vecchi insediamenti sono stati distrutti, sradicati – perché? perché bisognava ripulire, bisognava un bel parco, così tutti ne godranno e però quelli che ci sono lì da tempo immemorabile … li mettiamo nei casoni. Si sono trasformati, diciamo, degli esclusi sociali in piccoli borghesi anelanti anche lor a sfruttare il prossimo come loro stessi erano stati sfruttati. Una categoria concettuale che potrebbe esprimere questo, molto lata, partendo dalla ricerca, potrebbe essere proprio quella dello (…) un tipo di sfruttamento particolare che non solo la vendita della forza-lavoro, non è solo l’estraneazione di sé rispetto al sé, e non è neppure la reificazione di Geog Lukacs, non è la reificazione, la cosificazione dell’operaio eccetera è al contrario la trasformazione dell’ex sfruttato in piccolo … piccolo borghese sfruttatore a sua volta.” [dal 1h04’20” fino a 1h21’39”; prosegue su questa categoria “dialettica del baraccato” e a quello che è – di fatto – la sostituzione dei poteri da chi si affranca dal potere stesso per acquisirlo ed esprimerlo a sua volta. Parla della Rivoluzione cristiana; dello schiavismo, della negazione del prossimo, delle caratteristiche negative e individualistiche delle società capitalistiche; del lavoro sul campo come plus della sociologia; della critica a Malinowsky, della sociologia come nuova antropologia, del suo testo Scienza e coscienza, della fotografia come strumento sociologico, dell’istante dell’istantanea; parla di interdisciplinarietà e nuovamente un discorso su idee epistemologiche della sociologia; dei fotografi più o meno famosi, di Ugo Mulas ecc.; la ricerca come partecipazione a-due-vie; la sociologia come strumento essenziale di gruppi sociali specifici e di acquisizione della consapevolezza. Digressioni filosofiche anche sul suo testo Scienza e coscienza; sull’esperienza, sulla coscienza ecc. … finisce poi con ripetere che l’esperienza che lo portò alle borgate e a valle Aurelia fu la povertà di risorse della sua ricerca] …

RC: “Possiamo fare un ultimo passaggio? Non si parla più delle borgate: è avvenuta la gentrificazione, però certe caratteristiche del passato sono ancora presenti, specialmente a valle Aurelia?”

FF: “No, ma basta andare lì e si vede. Ma anche nelle borgate classiche, anche in quelle che sono state gentrificate. Non ci sarà più la scuola – come si chiamava? – … di un sacerdote credo [RC: Sardelli!?] … Sardelli! Sardelli! … ha detto il nome giusto: Roberto Sardelli. Poi anche un amico con cui … ci fu lì una sollevazione; lui aveva detto che in quel posto lì c’erano le zecche e tutte le madri dei ragazzi si sono sollevate: «Noi siamo puliti, non abbiamo le zecche» [ riprende il discorso sul cosa fare in sociologia – N.d.R.] …

RC: “Alcune delle persone che resistettero quando arrivò la ruspa, sono ancora in sede, vivono ancora a valle Aurelia e adesso quella che era la Casa del popolo [del Lavoro – N.d.R.] è abitata da immigrati, probabilmente in queste stesse ore stanno intervistando una signora peruviana che è lì, alla Casa del popolo …”

FF: “No, lei sta dicendo un punto [INC] su cui io sono, credo la professoressa Macioti e altri che lavorano con lei sarebbero pronti … io posso dire che sugli immigrati ho visto il fenomeno, lo capisco, ma io credo che anche ci sia una sorta di sostituzione dell’esclusione sociale …” [torna a rispondere sull’esclusione sociale, dei flussi migratori irlandesi negli USA, dalla Germania, dell’Europa e dall’Italia … della stratificazione della collocazione di questi flussi, della dialettica del baraccato, di An American dilemma, dell’idioma ispanico in Los Angeles, dei Romani e della lingua latina ecc.; della presidenza Obama; della posizione degli immigrati in Italia e a Roma e della sostituzione – N.d.R.]

SDP: “Posso io fare una domanda sui punti che ha toccato e sempre la valle dell’Inferno, valle Aurelia. Senza cadere in quello che lei stesso chiama “materialismo ingenuo” … durante il convegno tavola rotonda alla Parrocchia S. Giuseppe al Cottolengo del 1981,  Mario Sanfilippo dice chiaramente che le fornaci erano nate lì perché c’era la materia prima e poi chiaramente di struttura e sovrastruttura. Ora, anche rispetto a ciò che lei ha detto, ritiene che Valle dell’Inferno sia un vero esempio tipico, anche da presentare didatticamente, come fenomeno, dinamica di materialismo storico ortodosso?”

FF: “Io credo che il materialismo storico ortodosso credo che sia una forma di difesa per chi non vuole pensare fino in fondo i problemi. Per me rispetto al marxismo che poi finisce per essere materialismo storico ingenuo è il Diamat staliniano [parla di marxismo, di alcuni degli epigoni della teoria marxiana e di altre cose … N.d.R.]

[1h37’39”] termina la registrazione con saluti di commiato.