Intervista a Tullio Vinay (14 febbraio 1983)

Ore 17-18,15: partecipano Roberto Cipriani e Consuelo Corradi. Tullio Vinay ci riceve negli uffici occupati dal gruppo Indipendenti di Sinistra nel Senato della Repubblica. Saluta in modo molto cordiale e ci fa sedere nella sala riunioni; è Vinay stesso a iniziare spontaneamente la conversazione, precisando che non si considera un intellettuale, ma piuttosto un uomo che “ha il fiuto dell’esistenza”. II registratore viene acceso quasi subito.

Risposta. Di corsa. Io sono credente, penso che Dio m’ha fatto correre, non m’ha fatto [ride] [incomprensibile]. Adesso che riduco il mio lavoro, perché ho lavorato sempre dalle sei di mattina a mezzanotte, adesso che riduco il mio lavoro mi trovo in un periodo ancora più difficile, perché arrivato alle sei di sera sono stanco, sei, sette, e non ho più forza di leggere, quindi sono in un periodo di imbarbarimento [incomprensibile]. In più metta che nel ’79 io mi sono ammalato fortemente, tant’è vero che i medici non davano speranza che mi salvassi e mi ha lasciato come conseguenza la perdita della memoria. Ed io, se io parlavo sempre senza, senza scrivere, [incomprensibile] può essere benissimo che un giorno non mi venga in mente, parlando, come si chiama il segretario generale del Partito Comunista, o di quello, o di quello democristiano: mi manca il nome di Berlinguer, mi manca il nome di, di De Mita, mi manca il nome. O anche di una parola devo cercare la circonlocuzione, devo cercare il sinonimo, eh insomma. Quindi proprio, mettermi, mettermi l’abito dell’intellettuale sarebbe come mettermi addosso quel pigiama giallo canarino che dopo la guerra mi regalarono gli americani, che dovevo spengere la luce prima di mettermelo [ride]. Allora, uomo di cultura è diverso, uomo di cultura è, è chi ha il fiuto dell’esistenza. Un po’ l’ho avuto anche io, non lo nego, ehm. Creatività, e un po’ l’ho avuta anche io, basta vedere il curriculum della mia esistenza. Ma non intellettuale, perché possono esserci intellettuali non uomini di cultura, possono esserci uomini di cultura non intellettuali, come dicevo di questi analfabeti di inglesi che io ascoltavo volentieri. Cioè il senso della vita. Pensi le do, le racconto un episodio. Forse io son troppo chiacchierone, ma le racconto un episodio. Uno del nostro gruppo andò una volta a lavorare per stare insieme col contadino che tagliava le fave e si mise a tagliare le fave. A un certo momento il contadino disse: “guardi non tagli quel gruppo di fave, perché ci son delle uova, se no l’uccello non viene più a covarle”. Quanti intellettuali avrebbero fatto questo ragionamento? Un analfabeta lo ha fatto. Il senso della vita, no? Nelle risposte alle sue domande tenga, tenga presente questa premessa.

Domanda. Per me va benissimo.

R. Non mi mettete fra gli intellettuali.

D. [voci sovrapposte] No.

R. Se mi hanno dato due lauree honoris causa, me le han date per conoscenza della mia situazione, perché [ride] me le han date come praticone, non come professore, ehm, sia a Praga sia a Montpellier. E tutt’e due mi conoscevano come sono. E lo stesso può essere detto per gli altri titoli o decorazioni. [incomprensibile] Cioè vorrei dire, ecco, prendetemi come un pover’uomo che ha cercato di vivere serenamente, tutto lì [pausa]. Deluso? Non ho niente a che fare con [incomprensibile].

D. Allora, vogliamo cominciare un po’ a parlare della sua vita? Dove nasce.

R. Beh, io sono…

D. Da quale famiglia?

R. Io sono di padre valdese, cioè delle valli. Quindi la prima generazione non contadina, perché mio padre era insegnante e mio nonno era contadino, ma quei contadini, no?, colti, perché lì alle valli valdesi c’era un sistema di istruzione che è stato distrutto dal fascismo, perché il fascismo, come molti regimi, hanno la malattia del letto di Procuste, farli tutti uguali. E lì nelle alte montagne non si può avere maestre diplomate in tutti i villaggi, perché nel ver…, nel villaggio molto alto dove c’è un metro, due metri di neve, il bambino non può fare lunga strada per andare alla scuola. E allora c’erano quelle cosiddette università delle capre, dove l’anziano del villaggio faceva le due prime classi. Quando erano questi grandini andavano nel villaggio principale. Poi quando erano più grandi ancora andavano in fondo valle, alla cosiddetta scuola latina, che era praticamente le prime tre classi del ginnasio, dove i contadini imparavano anche il latino, perché anche mio nonno contadino sapeva il latino. E c’era una preparazione molto più alta di quando hanno voluto mettere i maestri diplomati, perché non possono mettere un maestro diplomato per due o tre alunni. E qui la conoscenza, l’istruzione, ebbe un ribasso. Dunque mio nonno era uno di questi, mio padre era insegnante, mia madre era pisana. E io son nato a La Spezia per la semplice ragione che mia nonna abitava a La Spezia, mia nonna materna abitava a La Spezia e mia madre andava a partorire da lei, ma io a La Spezia non ci sono mai stato, tranne che per nascere. Poi son stato, quindi, quattordici anni a Trieste, di quattordici anni, nove, diciotto, otto, nove anni sono venuto dall’austro-ungarico, che era serio nell’istruzione. Feci il ginnasio e poi parte del liceo al, al Petrarca, che era una scuola molto seria. Poi dopo ci siamo trasferiti a Torre Pellice, dove io ho fatto la quinta ginnasio e il liceo. Dopo sono andato, venuto a Roma per la Facoltà di teologia, quattro anni, e poi un anno a Edimburgo in Scozia, all’Università teologica di Edimburgo. Poi ho cominciato il mio lavoro pastorale. La prima Chiesa che ho avuto è stata Milano, cioè non la prima Chiesa che ho, io ero come coadiutore del pastore di Milano. E la mia prima Chiesa è stata Firenze, contro la mia volontà perché io avrei voluto andar nel Sud fra il basso proletariato del Mezzogiorno, ma allora l’amministrazione della Chiesa volle che stessi lì, e lì ho passato quattordici anni, fra cui gli anni della guerra, dove quello che ha lasciato forte impronta su me è stata la sofferenza durante la guerra su due cose. Una è sulla persecuzione degli ebrei, che ne ho salvati, adesso chi se lo ricorda?, quarant’anni fa, se quaranta o cinquanta o sessanta. Mi hanno dato recentemente, l’anno scorso, forse l’ha saputo, la medaglia per aver salvato tanta gente. Ora lei sa che la medaglia è una cattiva ironia. Ed era la medaglia dei giusti. Ora, lei sa che noi protestanti non troviamo più nessuno giusto, tranne i farisei. Ad ogni modo, l’ho presa per non fare dispiacere a, alla gente che mi ha amato. Ma ho preso posizione netta contro il governo Begin. Questo lo sa, forse. L’altra cosa che mi ha lasciato un’impronta sono i bombardamenti, perché la gente in quella condizione è tremenda. Allora la mia tattica era questa: quando cominciava un bombardamento tutti sanno che un bom…, un bombardamento dura cinque, quindici minuti, non più, quindi io non andavo nei rifugi ma m’incamminavo verso la zona bombardata, per poter essere dentro appena finito il bombardamento e poter soccorrere la gente. Però questa situazione di sofferenza ha lasciato un’impronta così profonda che se prima della guerra io avrei potuto di…, dire di essere un integralista protestante, dopo l’integralismo, dogmatismo, tutto è finito: c’è solo vita e esistenza degli uomini. Ed è lì che è nata l’idea del centro di Agape, il quale centro, Agape dice già il concetto. Lei conosce il termine Agape? Amore per gli altri, non per sé e neanche per Dio, perché, dice Giovanni, l’Agape non è che noi abbiamo amato Dio, ma che Dio ha amato noi. E, e questo centro nella mia visione era un centro di riconciliazione prima di tutto fra i popoli, tant’è vero che [incomprensibile] è stato costruito a Prali, a 1600 metri, dove i villaggi erano stati bruciati dai tedeschi perché c’era guerra partigiana. Ora era importante dopo la guerra la riconciliazione, far venire i tedeschi anche lì. Questa è stata una grossa avventura, avventura perché ho incominciato a costruire senza denaro [incomprensibile] e attraverso le critiche di tutti. Anzi una delle critiche era questa: “un centro internazionale lo fate in alta montagna dove non c’è neanche la strada”. Il mio ragionamento era diverso. Se è vivo, verranno a cercarci, se non è vivente neanche a Milano sarà frequentato. Ora a trentasei anni dalla fondazione, a trentuno dall’inaugurazione, è sempre stato pieno e continua a vivere questo centro. La difficoltà poi era anche dell’ambiente tutto contrario, perché le critiche son facili, ma il ragionamento può essere diverso dalle critiche. Le critiche erano queste: “come? Volontari costruire un progetto così grande?”, perché il progetto era dell’architetto Ricci; secondo, costruirlo prima di far la strada e senza un’impresa. Ora il mio ragionamento era diverso: o qui sfondo nell’opinione europea come mio minimo, a livello mondiale poi, o non vado avanti senza quattrini. Allora, se io consumavo le forze di quei venti, trenta lavoratori, nella prima estate, a costruire cosa?, un pezzo di strada, un chilometro di strada, un pezzetto di strada, per fare il ponte, per…, io non muoverò mai. E beh io cominciai la costruzione senza strada. E poi dopo l’attenzione l’attireremo. E così abbiamo, studia e ristudia, studia e ristudia, inventato una teleferica che funzionasse senza motore, cioè a contrappeso, va e poi riscende, con tutti i materiali imprestati. Fu un capolavoro di, di avventura [ride], perché non è facile. Se mette poco peso, il carico ascendente si ferma e a tirarlo su a braccia è da diventar matti. Poi era una teleferica di uno sbalzo solo di mezzo chilometro. A metterne troppo, viene su come un proiettile. E difatti una delle prime cose fu che venne con tanta velocità che spaccò la stazione di arrivo e ruppe la gamba al teleferista. Però a poco a poco l’abbiamo migliorata. Prima era a cuscinetti di legno, poi cuscinetti a sfera, fino alle lampade di segnalazione. Questa teleferica ha lavorato ventiquattrore su ventiquattrore, giorno e notte per portar su tutti i materiali occorrenti alla costruzione. Ma la storia di Agape è una storia di avventure. Per esempio fino a [incomprensibile], abbiamo dovuto farci la calce noi. Pagarci il cemento era troppo. Farci la calce come facevano gli antichi. Quindi si è riparato un vecchio forno degli antenati. Sono un po’ come nu…, nuraghi, no?, torri rotonde. E un gruppo di sette giovani per due mesi hanno lavorato a sradicare radici per avere il calore più forte, le radiche, trasportare il legno, poi scavare e trasportare il minerale, poi caricarlo nel forno e dieci giorni e dieci notti di fuoco continuo, fuoco continuo bisogna portarlo ad alta temperatura. Sono, sono scene che non si dimenticano, questi dieci giorni e dieci notti. Io facevo un po’ la spola tra il cantiere che si trovava a Prali e questo campo a tre ore di cammino, che dovevo farmele con le mie gambe, perché non c’era mezzo diverso, per sostenere moralmente questi altri. Ma quei dieci giorni e dieci notti erano qualcosa d’infernale. Io non avrei mai più nella mia vita chiesto una fatica simile a dei giovani. Cioè, il calore era veramente forte, che si, si davano il turno questi sette per caricarlo. E chi si avvicinava al forno lo bagnavano prima con un secchio d’acqua. Poi buttava il legno e con un bastone lo cacciava dentro e balzava subito fuori che già lui fumava. Ma questo, fatto una volta o due, ma per dieci giorni e dieci notti su sette uomini, era qualcosa. Erano poi bruciati, sen…, senz’abiti, feriti, tutto quanto. Hanno dato 250 quintali di calce viva, no? E quando ebbi il primo pezzo in mano, no?, a me pareva di aver l’Agape in pietra. Ecco, avevan fatto il loro motto: “tutto per Agape”, no? Niente conta, tutto per Agape. [incomprensibile] Ora questo entusiasmo dei giovani, sia quelli che lavoravano per la, mettere le fondazioni del grande centro, sia quelli che portavano la calce, ha poi impressionato l’opinione europea. Io ebbi la chance di essere stato invitato come rappresentante della gioventù italiana al primo, ehm, raduno dei Segretari Europei per 1a Gioventù al Consiglio Mondiale delle Chiese, al Consiglio Ecumenico. E, e lì queste fotografie delle fondazioni di questo grande centro, quelle della calce, eccetera, fecero impressione. E la stampa cominciò a parlarne, di modo che il secondo anno, il primo anno eravamo un gruppetto di venti italiani, il secondo anno c’erano già quattordici nazioni. In totale nei cinque anni son venuti lavoratori da trentacinque nazioni diverse, dalla Nuova Zelanda al Canada, dal Sudamerica alla Norvegia. Così nel ’51 abbiamo potuto inaugurarlo. Un momento difficile anche quello, perché la gente diceva: “finché c’è l’entusiasmo dei lavoratori, ben”. C’eran dei campi di cento, centodieci, centoventi lavoratori, eh. “Va ben, ma adesso chi riempie questo grande centro?” [pausa] E invece no, ha cominciato subito. Il primo campo era un campo di parigini asociali condotti da, da monitori parigini, che dicevano che non bisognava parlar di Cristo per non scandalizzare [ride]. E io dovevo mettere due lavoratori di sorveglianza alle cucine perché andavan lì a embêter le ragazze laggiù. Però, questo centro ha avuto un’influenza forte. Io poi ho parlato di Cristo, perché, perché, perché non dovevo parlare di Cristo? Ho parlato e ascoltavano. La religione annoia, non Cristo. Anzi io dirò paradossalmente che bisogna distrugger la religione per annunciare Cristo, per liberarlo [incomprensibile]. E questo centro ha avuto una fortissima influenza di formazione su generazioni. Ormai siamo alla terza generazione. Ovunque io viaggio, negli Stati Uniti o in Europa, io trovo di quelli che sono stati trasformati. C’erano dei tipi assolutamente asociali. Pensi, dopo la guerra: c’eran di quelli che avevan fatto la guerra ai partigiani che non eran tanto ben ricevuti nelle Chiese. Ora sì, ora no. C’eran di quelli che eran completamente asociali e son stati trasformati. E poi anche altri, singoli casi che, finché sono stato direttore, quattordici anni sono stato direttore a, a Agape, io ricevevo dei casi speciali di gente. Per esempio il tribunale dei minorenni di, di Neuchâtel quando aveva un caso difficile me lo mandava. Ma vuol credere che noi non facevamo niente? Tranne che amarli e tenerli nella comunità. E questi cambiavano! Tanto che ho avuto la scena così bella di veder uno ricuperato che qua accompagnava altri lì dal tribunale dei minorenni. Cioè, la vita comunitaria, questo partecipare a tutto forse aveva una forza di, di, di edificazione dell’uomo, non lo so. Del resto ricordo di aver avuto tra altri un ladruncolo italiano che era di quelli che son condannati sempre per furti. Io gli davo piena fiducia. Portava il denaro, faceva spedizioni, pacchi. Mai che mi abbia levato niente. Cioè, a me pare che l’unica pedagogia possibile è quella di Agape, come l’unica politica possibile è quella dell’Agape. Ora lì è cominciato con, come un centro di riconciliazione e poi le circostanze storiche sono cambiate. E allora ci è venuta la guerra fredda. [incomprensibile] La posizione nostra durante la guerra fredda era quella del disarmo unilaterale, assolutamente utopistico allora, non più tanto adesso, ma allora assolutamente. E le cito il caso che un parente di Bonhoeffer che venne nel ’52 rifiutava questa politica. Io l’ho incontrato l’anno scorso al novantesimo compleanno del dottor Martin Niemöller, per far festa a Niemöller, che poi non venne perché lui era malato. Lui era d’accordo sulla tesi del disarmo unilaterale. Del resto tutta la Chiesa riformata in Germania, non la luterana, la riformata in Germania, al Sinodo si son pronunciate per il disarmo unilaterale. E vede che nel, nel Sinodo della Chiesa anglicana in questi giorni c’era una parte che è per il disarmo unilaterale, che non è un’utopia, nel senso di cosa impossibile, ma utopia nel senso di quello che non è irrealizzabile ma non ancora realizzato e che si può. E che è il pronunciamento più chiaro di fronte a un momento. Poi per i credenti il significato è semplicemente vivere per fede [pausa]. E lì a Agape fra tante altre cose ritornavano sempre certi problemi. Per esempio, c’è stato il problema della, della guerra fredda, degli armamenti. Questo è importante, è stato…, ehm, la lotta per l’obiezione di coscienza. Lì sono durate anni e anni e anni questa lotta e… e non era facile. Per esempio, abbiamo avuto un campo. Chiacchiero troppo?

D. Va bene, va bene.

R. No, perché sennò.

D. Tra l’altro è una esperienza che io conosco. Quindi mi, mi interessa capirne.

R. Sì, per esempio un campo fatto a tipo processo all’obiettore di coscienza, presieduto con il grande giurista Pedretti Griva. E Pedretti Griva diceva che l’obiezione di coscienza è impossibile perché ci sarebbero troppi napoletani [pausa]. E invece non è vero questo. Lo vedeva come un… [pausa] testimonianza per un mondo nuovo, ma non realizzabile adesso. E questo campo fu un campo molto riuscito, tant’è vero che La Stampa di Torino teneva un giornalista fisso lì, durante tutto il campo. C’era un… Dunque Pedretti Griva, presidente del tribunale, e a latere un giudice protestante e un giudice cattolico. L’avvocato di accusa era un avvocato comunista, per la posizione dei comunisti allora, adesso non è più così. Nella difesa c’era Lelio Basso, ehm, per testimoniare della pace nel mondo, la pace nel mondo. C’era Tassoni sul metodo della non violenza. Poi c’era Bruno Segre che era l’esperto allora,sui, sui processi per obiezione di coscienza. Ed io, che non sono proprio avvocato, per fare la parte evangelica, vero? E qui c’è una cosa che le farà ridere perché ho fatto saltare su Pedretti Griva, perché io ho fatto un’osservazione: “va bene qui c’è l’accusato”, l’accusato era un pastore, “l’accusato per obiezione di coscienza. Però ci sono due qualità di obiezione di coscienza. Quella che è un senso di umanità di chi risponde alla propria coscienza, che io rispetto pienamente. Ma c’è chi lo fa a obbedienza a Cristo. Quindi il mandante è Cristo. Ora di Cristo gli uni dicono che è morto, gli altri dicono che è risuscitato. Bisognerebbe prima provvedere a precisare questo punto” [ride]. È saltato su, dicendo: “mai ho sentito una cosa simile in tribunale”; però dice: “se Cristo fosse oggi qui sarebbe ancora condannato secondo le leggi di qualsiasi Stato anche democratico”. “Bon”, ho detto, “presidente, era quello che volevo farle dire”. Ed è vero questo, questa frase è vera. Insomma, Agape è stato un centro di formazione. Adesso lasciamo Agape. A Agape, fra l’altro, si è parlato molto del Terzo Mondo e delle zone depresse. Una parte di queste zone depresse le abbiamo nel nostro Mezzogiorno e quindi il progetto di lasciare un gruppo di noi Agape e andare a romperci le ossa, dopo aver fatto delle disquisizioni teoriche sul Terzo Mondo, andare a vedere cosa è e cosa si può fare. E qui siamo alla terza tappa, direi così, della mia vita, nel novembre del sessantuno. Lasciato Agape, ho, son andato giù con sette, poi subito dopo otto giovani per fondare questo centro. Anche lì senza quattrini, tant’è vero che il primo anno abbiamo patito la fame, poi la cosa ha di nuovo interessato molti. Noi abbiamo vissuto sempre un po’ come un kibbutz, una comunità che prende l’argent de poche, senza stipendio, diplomati e laureati ma senza stipendio, argent de poche e vita comunitaria, pasti e abitazione insieme, eccetera. E questo evidentemente ci ha fatto risparmiare una cifra enorme. Ma questo ci ha procurato anche l’aiuto di molti amici, per cui giù finanziariamente, tranne i due o tre primi anni, non abbiamo avuto difficoltà. Le difficoltà vengono dal luogo con, con una città mafiosa. E chi non conosce cos’è la mafia non può realizzare le difficoltà che abbiamo avuto. Lì s’è imperniato il lavoro così: per il primo anno siamo stati a studiare la città, a fare indagini, inchieste, parlare con la gente, molto con i bambini, che sono poi i futuri uomini, per vedere di non portare i nostri problemi, ma di comprendere i problemi dell’uomo. E dopo questo anno abbiamo concepito un progetto, che noi chiamiamo un progetto globale nel senso che voleva entrare in tutti i settori della vita della città. Nel settore dell’educazione progressivamente abbiamo fatto scuola materna, scuola elementare, scuola formazione meccanici, biblioteca, lezioni di lingue, lezioni di musica, eccetera. Avremmo voluto fare la scuola media, perché è un anello che manca. Soltanto, ci è stato difficile realizzarla per mancanza di persone. Del resto poi da ultimo non avremmo fatto una scuola media, ma piuttosto una scuola serale per ricuperare quelli che fanno la scuola media statale, perché la situazione dal ’61 a adesso è fortemente cambiata. Nel settore dell’assistenza avevamo un ufficio di assistenza che [incomprensibile]. Abbiamo lavorato molto, perché all’inizio c’era proprio bisogno di tutto. Poi una scuola, un, un ambulatorio pediatrico, che non c’era nessun pediatra giù, poi un consultorio [pausa]. L’ufficio di assistenza praticamente è, è caduto con, con l’evolversi della situazione, perché il consultorio continua e la pediatria lo stesso. Poi il settore economico. Allora c’è stato il centro agricolo che aveva due funzioni: una quella di collaborare a mantenere il gruppo e una quella di trasformazione dell’agricoltura locale. La prima parte è andata avanti bene nei primi anni e invece in seguito si è data molta più importanza alla trasformazione locale, dell’agricoltura locale. E lì il lavoro è stato effettivo, perché [pausa] soprattutto su due produzioni. Bisogna tener conto delle produzioni locali. È inutile trapiantare delle produzioni che non corrispondono al clima e al suolo, è vero? Infatti noi abbiamo avuto fra i collaboratori un esperto agricolo tedesco, che era di gran valore, che fece la prima mappa delle coltivazioni del comune di Riesi. Però praticamente fece degli errori perché piantò gli alberi del frutteto come li aveva piantati in Germania. E quelli dopo pochi anni se ne sono andati. E invece il lavoro fatto dopo da Rocco, un membro del, del gruppo, sulla cantina sociale e sulle olive, è stato di grande valore. Riesi non aveva quasi vigna, adesso se lei va, tranne qualche vigna vecchia ad alberello, adesso se va a Riesi e nei comuni vicini vede estensioni enormi di vigna e, è stata fondata una cantina sociale di 60.000 ettolitri, grande. Ma come è sorta questa? È sorta dai contatti col popolo. Nel ’69, mentre ero in Riesi, mi fermarono alcuni contadini che mi dissero: “perché non facciamo una cantina sociale?” “Bon”, ho detto io, “io di vino, anche se mi chiamo Vinay, non me ne intendo, però possiamo provarci insieme”. E così ogni settimana si faceva una riunione di contadini per discutere sulla vigna e ho fatto venire anche della gente che ne conosceva ben più di me. Siamo venuti alla definizione che era ridicolo tentare la vigna ad alberello, che costa molto lavoro e poi dà un vino ad alto grado di alcool, che non è vendibile. Molto meglio la vigna a tettoia, o tutt’al più a spalliera, che produce molto di più, che si lavora col trattore e che dà un vino a dodici gradi, undici e mezzo, dodici gradi. Ad alberello possono farla in Germania e in Svizzera che non hanno tanto sole, non giù. Questa cantina, la prima, e secondaria la cooperativa, ed è una cooperativa non di tre o quattro grossi proprietari, ma ha cominciato subito con 80, 80 piccoli proprietari. Adesso credo che siano sui 500, piccoli proprietari. E questo salva i contadini da dover vendere l’uva a, agli accaparratori [incomprensibile]. E l’altra cosa che è stata prima sperimentata da noi è stata la, la, l’uliveto ad arbusto. Anche qui c’è sempre le critiche. Quando i contadini del luogo hanno visto che piantavamo le piante così, loro che le piante sono alte, dicevano: “ma cosa vogliono fare questi qui del continente?” E poi il secondo anno le hanno viste così. Il terzo… Ah, il secondo anno sono venuti dall’Università di Palermo a fotografarle, perché c’era già un po’ di fiori. Il terzo anno c’era già il raccolto, buono. Il quarto anno: raccolto completo. Mentre piantandole ad albero fino a dieci anni non raccogli niente, dieci, dodici, quindici anni. E adesso anche questo si diffonde, tant’è vero che adesso stanno, ehm, direi realizzando, perché sono in piene pratiche, ma è già preso il terreno e tutto, per una cooperativa, per il frantoio per le olive. L’altra coltivazione possibile giù è le mandorle, che ci sono. Io ho viaggiato per cercar queste cose dove c’è il mercato delle mandorle, che sono praticamente a Brema, Hannover, Amburgo, Lubecca e Zurigo. E le mandorle vengono prodotte in Spagna e in Sicilia e vengono lavorate. Logica sarebbe far la lavorazione del marzapane giù, no solo quei frutti che non hanno grande importanza. Soltanto è stata poi fatta dallo Stato un centro di lavorazione delle mandorle a Ravanusa, che come tutte le cose fatte giù dalla Regione, dallo Stato, non ha mai camminato. Allora era inutile farne uno noialtri. E poi il mercato italiano delle mandorle, tutto quello che ho seguito m’è risultato che l’Italia ha perso il 50% del mercato delle mandorle per mandar la produzione non selezionata, cioè mandorle amare e mandorle dolci insieme, oppure mandorle uniche e mandorle doppie insieme. L’unica ha più valore della doppia, non può… Son tutte queste cose che si sanno. Però il lavoro giù è continuato. Evidentemente la grande difficoltà è data dalla mafia. Già quando venne la Commissione antimafia nel sessantatre, sessantaquattro, un avvocato del luogo amico nostro disse: “fate attenzione che adesso non hanno più la lupara, ma hanno la calunnia”. E questo è durato sempre e durerà ancora per il Comitato antimafia fondato a Riesi: nel Comitato antimafia ci sono i due capi mafiosi della città. Questo vi dice cos’è. Però, insomma, senza fare troppo trionfalismo, perché… Anzi il gruppo è fin troppo critico, perché il gruppo è sempre a criticare e cercare di vedere, rivedere: “siamo sul giusto?” Fanno bene questo, però una critica vera per conto mio non deve guardare solo le difficoltà soggettive, ma anche quelle oggettive, sennò non si… E le difficoltà oggettive ci sono, quelle dell’ambiente. Io penso che se avessimo fatto lo stesso lavoro nella Sicilia orientale già sarebbe stato molto diverso. Se l’avessimo fatto in Puglia cento volte più facile. Ma insomma, d’altra parte, era necessario conoscere questo. Poi metterei… Questa: terza tappa. Quarta tappa: Vietnam, nella mia vita. Siccome devo parlar di me, mi scusi, faccio questo. Cioè, io ero ancora a Riesi, che ho vissuto fortemente il problema del Vietnam, quando ancora le Chiese se ne disinteressavano, vedi discorso in piazza, ehm, Castello a Torino. Era molto bello. Adesso non so se lei è credente o non credente, non importa, ma era molto bello, perché era organizzato. Tenete conto la data: ’67. Da protestanti, cattolici e comunisti… ecco una manifestazione meravigliosa. Poi nel giugno dello stesso anno ci fu una grande manifestazione a Milano, centomila, da, da Bologna in su che vennero. C’erano tutti i capipartito. Poi, non so a che santo votarmi, ma m’han chiesto di parlare. Ho parlato anch’io in questa grande riunione. Poi vennero a sempre più interessarci, finché mi chiese il Comitato Internazionale per la Liberazione dei Prigionieri Politici di andare in Vietnam. E ci andai. Lei sa che c’andai vestito da prete? Perché una grande personalità cattolica di Parigi mi disse: “se vai in borghese non puoi far niente”. Allora mi son comprato un vestito da prete, ehm. E quindi ho potuto fare una, una inchiesta a tappeto, un grosso rapporto. Naturalmente, tornato, a Riesi stavo poco perché bisognava visitare i governi europei. Avevo organizzato una delegazione europea a Washington. Ero sempre in viaggio per il Vietnam, perciò che dico è la quarta tappa che ho vissuto profondamente nella vita. Son tornato poi la seconda volta nel Vietnam, pochi mesi dopo la liberazione, ma allora era per la ricostruzione. Allora non, io non ero più clandestino e non era più pericoloso, ma anzi ero accolto a braccia aperte dal, dal governo di Hanoi, ma soprattutto dal comandante militare della città di, ehm, di Ho-chi-min, dove avevo lavorato durante la guerra. E questa è la quarta tappa. E la quinta è questa qui al Senato, dove si fa una gran commedia. Però io, oh, il mio lavoro principale è sempre dei popoli oppressi e per i casi di ingiustizia. Adesso c’ho sottomano il caso di Vanni Molinaris…e dell’Hyperion, come di altri casi. Cioè, il mio lavoro adesso principalmente è sempre per cause di giustizia. Però quello che dico terminando è che, nelle cinque fasi, la cosa dominante è stata sempre l’annuncio dell’Agape, che per me, è, dunque, l’Agape è l’amore per gli altri, il solo concetto rivoluzionario secondo me. E questo lo fo… discorso lo faccio continuamente qui in Senato, perché in Senato mi succede molte volte su vari problemi di vederli, cioè non posso essere politico da una parte e credente dall’altra. Son tutt’uno, non mi posso dividere. Ed ora io cerco di presentare i problemi sub luce Christi. Mi rivolgerò ai democristiani dicendo: “voi che dite di essere un partito di ispirazione cristiana e allora possiamo vedere insieme questo problema sub luce Christi?” Poi mi rivolgo ai comunisti, no?: “cercate la terza via, ma qual è la terza via? Non ce ne sarà un’altra, una di mezzo tra la prima e la seconda?” Secondo me la terza via è l’assolutamente nuovo, perché nessuno può essere rivoluzionario finché idolatra dei fatti dell’esperienza, finché è incatenato al passato. La rivoluzione si fa tendendo al futuro assolutamente nuovo. Non c’è niente da copiare dal passato. Io ho, ho l’impressione che i comunisti ascoltano questo discorso. Del resto, una volta che feci questo richiamo all’uno e all’altro, l’applauso l’ho avuto dai comunisti, parlando di Cristo, non dai democristiani. Adesso mi hanno chiesto di scrivere un articolo i democristiani sui Quaderni Bianchi. Bon, lo faccio. Non c’è ragione di dire di no, mai. Quanto mi hanno, mi hanno rotto le scatole qualcuno di dire: “non devi andare a prendere, ehm, l’onorificenza a, d’Israele, devi rifiutarla”. “No”, dico, “io vado e parlo chiaro”, dico quello che devo dire. Se l’avessi rifiutato, era finito lì. Lo sapeva l’Ambasciatore. Andando a parlare così, mi diceva: “guarda, questo discorsetto ha girato dappertutto”. Una volta mi invitarono a parlare alla base di Aviano, la più grande base aerea del Mediterraneo. E dicevano: “non andare”. Io ci vado e ho parlato contro gli armamenti. Naturalmente [ride] è finita, ma insomma sono andato a parlare. E insomma io direi che, ehm [sospira], come posso dire?, la vocazione o lo sforzo della mia vita è di far capire che il concetto di Agape non è un concetto solo per i cristiani, o se si vuol dire fra virgolette religioso, ma è un concetto politico. La vera politica è la politica dell’Agape, cioè quella politica che è imperniata sull’amore per l’altro, no? Que…, può essere accettato anche dal non credente, perché l’Agape non è l’amore per Dio, ma è l’amore per l’altro. Allora se questo è alla base, non c’è, si eliminano le strutture della politica che noi abbiamo oggi, di rivalità fra individui, fra partiti, fra, fra nazioni, e viene tutto visto in una visuale nuova. Utopia, sì, ma utopia nel senso del ciò che non è ancora realizzato e che val la pena di combattere. E in questo senso potrei dire che sia a Firenze, almeno nei dieci ultimi anni dei quattordici che sono stato a Firenze, è stata la battaglia per Agape. Infatti io distruggo tutto, ma mi ricordo che già di Agape parlavo prima di aver fondato l’Agape. Ora a Agape c’è stata solo questa predica, a Riesi c’è stata solo questa predica, in Vietnam lo stesso e qui al Senato lo stesso. Sono monotòno. E ho questo, ho preso come mia battaglia per la vita e credo, e son convintissimo, sennò non lo farei, son convintissimo che noi non avremo una svolta nella politica, nella sociologia e nella pedagogia, finché non sarà messo al centro di ogni nostro pensiero, di ogni nostro impegno e azione l’amore per l’altro. Peccato che nel Vangelo e nelle traduzioni il termine Agape è tradotto, perché è intraducibile, è una qualità di amore diverso, non è un sentimento, è azione, non è niente rivolto verso di noi o verso il nostro corporativismo o verso la nostra, ehm, Chiesa, o verso la nostra nazione. È sempre tensione verso l’altro e tensione verso il futuro, dove questo annunzio avrà la sua realizzazione, quando l’Evangelo dice che tutti si rivolgeranno verso colui che hanno crocefisso. Per conto mio suona: tutti stufi di batter la testa contro il muro riconosceranno che non si può vivere se non dando e ricevendo dagli altri. Questo l’ho messo, perché nel parlare sono utili alle volte gli slogan, in tre slogan che hanno girato l’Europa: il mondo degli uomini è mors tua, vita mea, il mondo nuovo di Cristo è mors mea, vita tua, il futuro vita tua, vita mea. Adesso, se non siete d’accordo [ride] io non lo pretendo perché ognuno ha il diritto di vivere, ma questa è stata un poco la mia viCasella di testo: r
ta.

D. Le manderò un saggio scientificamente ben corredato…

R. Ehm.

D. Che affronta questo tema nel discorso del calendario liturgico. L’ha stampato un professore dell’Università di Chicago, che è Dario Zadra. E appena verrà pubblicato senz’altro gliene manderò una copia.

R. È un saggio su cosa?

D. Beh, lui fa un’analisi, ehm, della presenza dei simboli, ehm, nel corso del calendario.

R. Ah, ah.

D. E, diciamo, la conclusione a cui arriva è dello stesso tipo.

R. Ah, mi rallegro. Del resto, per stare negli Stati Uniti, il grande teologo Tillich diceva: “la Chiesa ha ancora da scoprire il concetto dell’Agape nel Nuovo Testamento”. E io ne son convinto, perché se ne parla ma è marginale, mentre è centrale questo, perché dire Agape è dire Cristo, vero?, ὁ θεός ἀγάπη ἐστί. Ma questa, l’incarnazione, è di questa Agape. La parola si è fatta carne no? E, e se l’Evangelo di Giovanni fosse stato scritto dallo scrittore della prima lettera di Giovanni non avrebbe cominciato: “dal principio era la parola”; avrebbe cominciato: “dal principio era l’Agape, e l’Agape era con Dio e l’Agape era Dio”. E tornava perfettamente [pausa]. Ma m’interessa se mi manda quel, quel lavoro.

D. Senz’altro [lunga pausa]. Allora, visto che lei non si ritiene un intellettuale…

R. Ehm.

D. Come vede gli intellettuali? Italiani in modo particolare.

R. No, gli intellettuali sono in gra…, in gran numero uomini di cultura, ma non è detto questo, no?, sa?, uno che ha il titolo di professore non è detto questo, no? Io sono iscritto nell’Albo dei giornalisti, ma non mi ritengo mica giornalista, per carità [pausa]. Però io difendo la cultura degli analfabeti, la cultura dei contadini. C’era Cesarini che pubblicò, il professor Cesarini, un volume, com’era intitolato?, forse La cultura dei contadini. Bellissimo era. E lui rilevava, dalla storia dell’arte, come la cultura contadina era stata emarginata. Ci sono guerrieri, ci sono imperatori, ci sono dame, ci sono vescovi, ci sono paggi, ci sono angioletti, putti e tutto, ma non c’è il contadino. Ed è vero… tranne che recentemente, mentre il contadino s’è fabbricato lui gli strumenti di lavoro, non il suo sfruttatore. Il contadino ha creato una civiltà sua, è vero? E pensare che io penso alla famiglia di mio nonno, insomma una famiglia sobria quanto volete, ma insomma aveva il senso dell’esistenza, ecco [pausa]. Non è che me la pigli con gli intellettuali, ci tengo a dire che io non lo sono, tutto lì. Come posso dire non sono un medico, come non sono uno studioso. Ho vissuto, tutto lì.

D. Per esempio, in questi anni ’60, ’70, lei ha visto dei cambiamenti fondamentali nel comportamento degli intellettuali? [pausa].

R. Beh, politicamente forte il cambiamento.

D. In che senso?

R. Nel senso: quanto si parlava di rivoluzione violenta prima, adesso non se ne parla più. Io ricordo che nel ’60, mettiamo pressappoco le date, non ricordo, ’64, ’65, ero a Montreux per un congresso sullo sviluppo del Terzo Mondo e ci fu Hoeppler, era ministro allora. Lui comunque è, è il responsabile della sinistra dell’SPD nel Baden-Wüttemberg. E lui diceva: “anch’io vorrei la rivoluzione, ma sarebbe un gran massacro”. È vero questo. Allora in quegli anni si diceva: “non uno ma mille Vietnam”. Chi l’ha visto il Vietnam non ha coraggio di dire mille Vietnam. Anzi dopo tanto, tanto, tanto aver lottato per il Vietnam, io mi sono arrivato a domandarmi: se avessero fatto una lotta non violenta se avessero ottenuto lo stesso senza tanti milioni di morti. Ma non si fa la storia col se. Non è che io condanno l’azione di un Che Guevara o di chi vuole, no?, neanche per sogno. Però mi pare difficile capire che si possa costruire un mondo nuovo sul dolore degli uo…, della gente [pausa]. Quel che manca, direi, alla classe politica è la creativa fantasia dell’amore [ride]. Questa creatività che viene fuori. In fondo anche la Davis riconobbe che il più grande rivoluzionario è stato Martin Luther King negli Stati Uniti, non i violenti [pausa]. Come del resto il mio amico Helder Camara [pausa]. Ma non vada via con il cattivo ricordo che io, che io scomunico gli intellettuali, per carità. Dico solo: “non lo sono”. Ho il diritto di dire che sono un asino, [ride] ma non [ride], ma non…

D. Ecco, comunque proprio a proposito del Vietnam, gli intellettuali presero posizione, gli intellettuali italiani.

R. Sì, sì. Beh, gli intellettuali italiani son schierati molto a sinistra. Semmai forse adesso c’è un po’ più di esitazione.

D. Ecco, allora, proprio questo passaggio m’interessa.

R. Ma non so come dire. Io credo che, ecco, passato, cioè riconosciuto che una rivoluzione violenta non è possibile, adesso lasciamo stare i casi del Guatemala, del San Salvador, dove sono obbligati a questo proprio, ma una rivoluzione violenta negli Stati industrializzati non è possibile perché il potere ha tutti i mezzi di schiacciare. Credo che [pausa] già chi teneva la, la grande bandiera della sinistra era il Partito Comunista, ma ha passato delle crisi, perché anche il Partito Comunista ha dovuto riconoscere certe cose. Il suo staccarsi dalla Russia forse è stato fatto troppo tardi questo, questo strappo, e con troppa poca delicatezza, ecco. Perché io il discorso l’avrei fatto diversamente. Il discorso l’avrei fatto. Non che la spinta propulsiva è cessata. Ci sono le radici in questa rivoluzione, come lo sono nella Rivoluzione francese del resto. Non possiamo rinnegare la Rivoluzione francese ma non possiamo neanche rinnegare quella di Ottobre. Però la decantazione dei valori culturali da quelli contingenti rivoluzionari è mancata in Russia, avrebbe dovuto decantarsi. Allora questa decantazione dei valori culturali da quelli contingenti della Rivoluzione, il Partito Comunista l’ha fatto un po’ troppo tardi, e forse in manie…, perché sono rimasti nelle sezioni tutti quelli che citavano la Russia come… il Regno…, il nuovo mondo. E sono rimasti delusi. Bisognava a poco a poco far capire queste cose [pausa]. Ora [pausa] verso cosa s’incamminano i…, gli intellettuali adesso? Verso una socialdemocrazia, molto, molto a sinistra. Ma oltre a questo non lo so se ci vanno, come non lo so se neanche il PCI va oltre a questo. Cosa ne pensa lei?

D. Ma… appunto stiamo studiando questo problema.

R. Eh!

D. Anche attraverso questo.

R. [voci sovrapposte] Ecco! Io… non lo so. Io non mi son mai ritenuto un politico, un grande politico, io mi ritengo un testimone di Gesù Cristo. Ecco perché l’Agape è al centro. Però le osservazioni che ci vengono da fare, che vengono naturali a tutti noi, è che in questo momento questa terza via non sia chiara nel PCI, perché non basta dire terza via se non si ha chiara. Né possiamo pretendere che sia chiara se neanche noi sappiamo dire cosa. Quello che è chiaro è che il percorso sinora fatto non era buono. Però il nuovo qual è? Io c’ho la mia risposta e dico l’amore per gli altri, che non… Questa, questa è, per usare un linguaggio di La Pira, una bussola, una bussola. Poi le so…, le decisioni contingenti devono essere prese, non è un’astrazione, deve essere presa. Se io sono nella Commissione Lavoro devo vedere che una legge sia al servizio del popolo e non sia a difesa dei privilegi, questo. Le decisioni devono essere prese, però guai se si dimentica la direzione. La direzione è questa, è vero? Ora io credo che… [sospira], se si deve trovare una nuova via, è quella del nuovo assoluto, nel rispettare ciò che non è mai stato rispettato nella storia, cioè l’amore per l’altro, perché anche nella Rivoluzione francese c’è égalité, ma dove c’è stata l’égalité? È vero? E lo stesso è avvenuto con la Rivoluzione russa. Ora questo non c’è né nell’Occidente, né nel, nel, nell’Oriente, perché dico luogo comune se dico che noialtri abbiamo libertà di parola ma non abbiamo il necessario per vivere, se non siamo della nostra classe. E in Russia hanno il necessario per vivere ma non hanno la libertà di parola. Allora l’égalité non c’è né qua né là.

(Fine della prima parte della registrazione)

R. Ma… gli articoli sono un po’ dappertutto. Non so ora vediamo, vediamo. Mi romperei la testa alla Claudiana come in Francia, come in Germania, per fare una raccolta degli editoriali del bollettino di Riesi. E adesso questo, chi mi premeva di più a farlo era sempre Parri. Ed è strano, perché è tutto cristocentrico e Parri che si dichiarava non credente voleva che lo facessi. Ma io sono diventato pigro e non ho voglia di farlo. Adesso c’è forse un collega che lo farà. Poi dev’essere meglio, perché son scritti di venti anni. Ora un altro può giudicare quello che è ancora vero, quello che è tramontato, ma io di meno, è vero? Vedremo. Ma questo semmai sarà per l’estate prossima.

D. Quando ha pubblicato questi tre saggi, questi tre volumi?

R. Ma uno, I giorni a Riesi, che poi è una specie di diario, l’edizione tedesca nel ’64, quella italiana dev’essere del ’67 o il ’68, la francese lo stesso, l’olandese deve essere pressappoco, la cecoslovacca pressappoco, [incomprensibile] queste edizioni. Poi c’è, ehm, la storia di Agape che è solo in tedesco, una piccola roba, e poi Ho visto uccidere un popolo che è quello sul Vietnam. Avrei dovuto far…, perché io, non è che io scrivo volentieri, io scrivo gli articoli che ho scritto, ne ho scritti una valanga in vita mia, sempre quando mi hanno sollecitato, sennò… Allora questo volume sugli editoriali delle notizie da Riesi me lo sollecitano tanto che bisognerà farlo. E poi dopo, nelle Chiese, ho scritto diversi articoli fuori. Ma cercherò di trovare qualche cosa. Ecco, non so.

D. Va bene. Sì, anche se sono in lingua non importa.

R. Sì, ehm.

D. Allora, stavamo facendo un po’ questo discorso dell’atteggiamento e del comportamento degli intellettuali. Dunque si potrebbe dire che da rivoluzionari intorno alla fine degli anni ’60 ora siam passati quasi ad essere dei social-democratici, no?, per così dire?

R. Questo è vero, sì.

D. Ecco, allora, su quali basi lei fonda questo giudizio, cioè quali sono gli elementi che lo portano a dare…

R. [interrompe] Cioè, io direi, per usare un’altra parola, usare piuttosto un linguaggio di… [sospira] di un socialismo dal volto umano, ecco, perché credo che questo sia piuttosto, soltanto un socialismo fino a che punto si spinge, in, in Europa o negli Stati industrializzati. Che possibilità c’abbiamo noi di una sinistra, anche una sinistra spinta, ad andare oltre? A me dispiace quello che è successo al Vietnam, perché io ero sicuro che il Vietnam c’avrebbe dato un modello di socialismo dal volto umano. Ma cosa è avvenuto nella storia? Che lo hanno boicottato tutti quanti e lui è cascato nelle mani della Russia e ha un socialismo russo. E invece sarebbe venuto fuori un socialismo dal volto umano, perché hanno cominciato così. Guardi come si son comportati, senza bagno di sangue, eccetera, eccetera. Ora che abbiano, che ci sia stata la gente che fuggiva, è chiaro questo. In uno Stato dalla miseria più estrema, a dividere fra tutti il poco riso che hanno per darne una ciotola di riso al giorno a ciascuno, c’eran quelli che avevano altri mezzi, abituati diversamente, che sono scappati. Era naturale. E poi evidentemente che delle riduzioni di libertà ce l’hanno, perché sono sotto l’influenza russa adesso. Ma io dico: questo non è colpa loro, è colpa nostra. Quando, ehm, Andrew Young, l’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, diede…

Intervento. [subentra la segretaria] C’è il dottor… Sta salendo.

R. Ah, sì. Lo fai passar di là un momento?

Intervento. [segretaria] Sì.

R. Ehm, ehm, diede quel caloroso benvenuto ai vietnamiti. A me sembrava: qui la cosa va avanti bene. E io scrissi a Andrew Young dicendo: “questa è la battaglia”. E lui mi rispose: “sì, anch’io la penso così, ma io non conto niente”. E difatti ci fu il boicottaggio degli Stati Uniti e di tutti gli Stati. E è finito come è finito. Io ricordo di aver visto una mostra di quadri e di pittori, ehm, vietnamiti, moderni, no?, nella, ad Hanoi. Ed anche l’ambasciatore nostro allora, Fabio… , era un uomo di cultura, diceva: “meraviglioso che non c’è una traccia di violenza e di guerra”. Era tutto un inno alla vita e all’amore. E fra l’altro c’era un quadro in cui era rappresentato il Vietnam con un volo di colombe bianche da tutto il mondo. E ogni colomba aveva la bandierina della sua nazione. Allora il desiderio era la riconciliazione con tutti, pace con tutti, anche con gli Stati Uniti. Invece ci son stati la vendetta. È andata come è andata. Poi bisognerebbe sapere la storia lì, perché sotto c’era anche quella, perché hanno fatto l’unificazione così rapida, che non c’era bisogno di farla così rapida, perché la Cina non voleva mai l’unificazione. L’avran fatta per questo, mah?

D. Lei deve andare per caso?

R. Mi dispiace. Io credevo che ci si, ehm. Sono le sei e un quarto. Ho dato appuntamento.

D. Sì, benissimo. Allora se possiamo fissare un appuntamento per una prossima volta, in modo da completare il discorso?

R. Sì.

D. Frattanto le facciamo vedere la trascrizione di questo di oggi.

R. Sì, sì.

D. Va bene, d’accordo. Grazie allora.

(fine della registrazione)

Vinay ci accompagna fuori dalla stanza, fino all’ascensore. Saluta e chiede scusa di non avere il tempo di offrirci qualcosa al bar. Poi si allontana prima che sia arrivato l’ascensore.