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“Il ritorno della sociologia in Italia. Intervista a cura di Roberto Cipriani”, La Critica Sociologica, 194, estate 2015, pp. 67-96.

Roberto Cipriani


Il ritorno della sociologia in Italia[1]



Franco Ferrarotti: Ricordo, riandando a molti anni fa, parlo di prima della fine della guerra, stavo già elaborando la traduzione del Veblen[2] e stavo scrivendo i Fondamenti logici della sociologia di Thorstein Veblen.[3] Perché poi io fossi intestardito con la sociologia, questo non me lo sono mai del tutto spiegato io stesso. Qui c’è un elemento indubbiamente metateorico, cioè, detto in parole comprensibili, volevo qualche cosa di meno astratto della filosofia, che allora era la filosofia panlogistica, idealistica, crociana,[4] eccetera, eccetera, anzi, più che crociana, gentiliana.[5] Qualcosa di meno astratto. D’altra parte, qualcosa di meno arido dell’economia politica, dell’economia, che conoscevo soprattutto attraverso Bordin,[6] professore di economia politica a piazza Arbarello, lì alla Facoltà di Economia e Commercio di Torino, dove adesso c’è Francesco Forte,[7] e altri. Debbo dire che vedevo nella sociologia uno strumento, direi una disciplina mediana fra filosofia ed economia. Molto strano però questo. Poi la ragione, se si vuole immediata e contingente, è che io allora passavo interi inverni a Sanremo perché avevo una debolezza di bronchi, insomma per molte ragioni, avevo dei parenti, stavo lì a Sanremo, ci passavo mesi. Devo dire questo però, che questo avveniva prima ancora, proprio negli anni in cui di regola si fa il ginnasio-liceo, a 14-15 anni. E lì frequentavo una biblioteca, la biblioteca che c’è in Piazza del Municipio, su nella Sanremo, all’inizio di Sanremo vecchia per andare al santuario della Madonna della Costa. E lì trovavo moltissimi, splendidi libri. Ma l’acquisto dei libri era fermo al 1920, quindi trovavo praticamente tutti i grandi testi dell’epoca aurea, della stagione aurea del positivismo italiano, da Niceforo[8] a Enrico Ferri,[9] Sighele,[10] Savorgnan,[11] Benini.[12] E io, direi che senza saperlo, grazie a questo ritardo nella politica degli acquisti nelle biblioteche, riscoprivo per conto mio la sociologia, o meglio quell’atmosfera positivistica in cui la sociologia in Italia era fiorita. Perché poi la cosa più strana, ma noi − io però questo l’ho scritto, quindi mi sento un po’ a posto − non ci si rende conto che intorno al 1880-1890 e il 1900 l’Italia era uno dei quei paesi in cui più forte era lo studio della sociologia. Però stranamente la cultura accademica l’aveva sempre tenuta un po’ ai margini, perché non era mai divenuta, non c’era mai stata una cattedra ordinaria. Anche Alessandro Groppali[13] insegnava nelle Facoltà di Giurisprudenza, oppure a medicina, una sociologia vicina alla criminologia. Non esisteva la sociologia in senso pieno, perché uomini come Enrico Ferri erano soprattutto interessati alla vita politica, erano dei politici in sostanza. Ora, le dicevo di Abbagnano.[14] Abbagnano − è noto come è andata − perché io mi son trovato con lui poi nel Quarantanove, terminata la traduzione di Veblen, che è uscita nel gennaio, i primi giorni del Quarantanove, e puntuale il 15 gennaio è arrivata la stroncatura di Croce[15] nel «Corriere della Sera». Io, fin dall’anno prima, credo, quell’inverno, quella sessione invernale mi ero laureato; ma mi ero laureato grazie ad Abbagnano contro Augusto Guzzo[16] che in realtà era il mio relatore. Io venivo da filosofia teoretica e il mio professore, diciamo così, per quel tanto che l’avessi frequentato, era Guzzo, che insegnava allora, teneva il seminario avanzato a via Po 18, di fronte all’università, dall’altra parte, una specie di convento. Andavamo lì, e lì c’era gente tra l’altro come Cecchini, Venuzzo, c’era poi Giovanni Cairolo che sarebbe diventato assistente di Abbagnano ma è morto molto giovane, prima dei trent’anni, è morto di tisi, molto bravo. E poi c’era Pizzorno,[17] tra gli altri, che ricordo un anno o due avanti, ché Pizzorno ha qualche anno più di me. Ma in sostanza io allora mi trovai molto a mal partito perché il mio relatore, Guzzo, non voleva firmarmi la tesi. Perché io la tesi l’avevo scritta a Londra, nel Quarantasei ero a Parigi, nel Quarantasette ero a Londra − tra il Quarantasette e il Quarantotto a Londra − e giustamente a Londra, lì almeno avevo i libri di Veblen, c’erano, andavo alla London School of Economics e tiravo giù i libri. Avendo straudito questa discussione tra me e Guzzo nella sala dei professori, Abbagnano che stava leggendo il suo giornale vicino alla finestra, lontano, si è avvicinato a piccoli passi: «Che è, che è?», «Ah, buongiorno professore». E allora Guzzo gli dice: «Be’, questo sarà un geniaccio, questo nostro clericus vagans» − mi chiamava sempre così per i miei viaggi, no? − «però io non so niente di queste cose, che è questo Veblen, poi sa, la sociologia…». Guzzo era rimasto molto crociano, eh, molto di stretta osservanza! Abbagnano, che invece veniva da Aliotta,[18] da Rensi,[19] aveva un interesse tutto metodologico alle scienze, mi si avvicina: «La firmo io». E appena fatta la tesi, il giorno dopo cominciavamo i «Quaderni di sociologia» e lui accettava di fare il mio vice direttore, cosa che allora mi sembrò del tutto normale. Però glielo domandai: «Ma come mai accetti di…?» e lui mi disse: «Be’, ti dirò che io ho elaborato questa risposta positiva all’esistenzialismo heideggeriano, però se noi diciamo che l’uomo non è né finito né infinito, non è né disperato, né, diciamo, felice per natura, l’uomo è semplicemente nella situazione e fronteggiato da una possibilità, però una possibilità che corrisponde alla sua capacità di stabilire l’equazione migliore fra ciò che vuole e il suo progetto e le circostanze di fatto, allora, detto questo, è chiaro che il seguito critico non può che essere una ricerca sociologica, perché bisogna accertare la situazione». Questo è interessante, perché me lo disse proprio lui, Abbagnano. E me l’ha ricordato ancora recentemente. Penso che sia ormai a una veneranda età e fa l’assessore della cultura a Milano. Sta di fatto che il mio sodalizio con Abbagnano, che per molti è rimasto molto strano, era però invece legato, primo, a un bisogno comune − lui, è chiaro, era già professore ordinario, intendiamo − e il bisogno forte in me di premessa o comunque di un punto di partenza filosofico, in primo luogo. In secondo luogo, una partenza filosofica, che però non cadesse nel panlogismo astratto, quindi io rifiutavo l’essere indeterminato, hegeliano, come punto di partenza, il punto di partenza era la prassi, era la specificità. Terzo, era lì che c’era la convergenza proprio con Abbagnano il quale, d’altro canto, da La struttura dellesistenza,[20] da quel bel volume, e anche dal suo Le origini irrazionali del pensiero nellantica Grecia, debbo dire − o Le fontiLe fonti irrazionali[21] − debbo dire che Abbagnano era in effetti alla ricerca proprio di un esito positivo, di un approdo positivo, perché altrimenti sarebbe rimasto sulla posizione di Heidegger[22] e non voleva però essere sulla posizione di Gabriel Marcel,[23] cioè dell’esistenzialismo cristiano, o di Louis Lavelle,[24] no?, Le moi et son destin,[25] l’io e il suo destino. Non voleva questo, né si contentava, anzi, era abbastanza orripilato dalla tendenza misticheggiante e un po’ solipsistica di Kierkegaard,[26] Il concetto dellangoscia, che allora era proprio tradotto dalla Sansoni,[27] era uscito in quel momento. Che poi eran tutte cose, bisogna anche capire che tutto l’esistenzialismo era terribilmente in voga. Perché? Perché la crisi era dappertutto, c’erano i bombardamenti, c’era questo senso della solitudine dell’individuo, cioè. E poi avevo un certo non dirò disprezzo, ma prendevo le distanze rispetto a Sartre che reputavo un letterato, insomma. Sa, la cosa molto bella di Abbagnano era che apriva questa categoria della possibilità, della coscienza possibile, quasi, vorrei dire, in termini luckácsiani,[28] no?, un orizzonte di pensiero tutto diverso. E quindi, la sociologia, che io poi sviluppavo, era in fondo… e qui c’è proprio la ragione intrinseca, al di là della simpatia umana, poi non ci si vede più, ma qui c’era qualcosa che è mancato a molti altri sociologi italiani. Non c’era semplicemente l’accettazione del momento sociologico, ormai Croce basta, questo tabù, questo pregiudizio antisociologico, ma c’era invece una vera e propria collaborazione. Cioè la sociologia, senza la guida teorica di un pensiero filosoficamente maturo, per me e per lui scadeva a sociografia. E lui era molto d’accordo con me nel piano di lavoro, quel piano di lavoro che ho scritto io per i «Quaderni di sociologia». La prima collaborazione, abbiamo cominciato nel Cinquantuno, e io dicevo che la sociologia come impresa conoscitiva e ricerca empirica concettualmente orientata non esisteva in Europa e particolarmente in Italia per via della dittatura idealistica che negava addirittura l’esistenza di questa scienza, e neppure negli Stati Uniti. Questo mi è sempre sembrato un po’ forzato, ma neppur negli Stati Uniti, per via del paleo-positivismo che portava al frammentarismo delle ricerche. Poi andai lì, proprio per vedere queste cose, e andando lì mi resi conto che il frammentarismo non era soltanto dovuto a una ragione interna, a una debolezza teoretica, c’era anche questo, ma il frammentarismo era proprio dovuto alla stessa floridezza della ricerca, che era tanto più florida quanto più era subserviente agli interessi, diciamo pratici, vero?, legittimi eh!, interessi legittimi, pratici, per loro natura estremamente diversificati. Per cui si andava − che so io? – dalla città di Chicago, che voleva far fare certe ricerche o comunque si sviluppava, l’azione, eh, lì c’è la Scuola di Chicago, cioè ricerche che stavano fra l’urbanistico, l’economico e l’ecologico, insomma, e poi i vari aspetti della vita metropolitana e le ricerche poi di comunità e soprattutto le ricerche di mercato, le ricerche manageriali di Rensis Lickert,[29] le Yankee City series di Lloyd Warner,[30] e poi più tardi, per esempio, non so, le ricerche sui militari di Stouffer,[31] l’American Soldier,[32] tutte le grandi ricerche americane. Allora di lì veniva anche quello che mi piace chiamare ‘Il sogno di Scipione’, cioè questo unire un pensiero teoretico forte, maturo proprio, diciamo pure di chiara ascendenza sistematica europea, unire questo con le tecniche specifiche di indagine, test di correlazione significante, la significanza, la significatività della correlazione, campioni rappresentativi, questionari, eccetera. Questo era il primo momento, avevo questo entusiasmo, il Cinquantuno quando io sbarcai a New York; poi invece mi resi conto che nelle tecniche era implicito tutto un mondo di valori, no?, non si poteva fare l’unione. Non si poteva perché le tecniche di ricerca, se sono assunte come assoluti, cioè distaccate dal problema, dalla ricerca effettiva, queste tecniche di ricerca hanno in sé una presunta autonomia, un’autosufficienza che le costituisce in opzioni teoriche. Cioè l’item, il frammento, diventa l’inizio e la fine di tutto e le domande globali non vengono più sollevate, perché la domanda globalizzante viene per definizione considerata o come truistica o come misleading, insomma, come fuorviante, o anche come proiezione puramente ideologica. Quarto momento: tanto per farla breve – da notare che nel terzo momento si ha il collegamento fra tecniche di ricerche empiriche e struttura teoretica – le tecniche, cioè, i metodi riduttivamente e specificamente intesi, erano per definizione ancillari rispetto al momento teoretico, sempre. Evidentemente, la chiara visione della degradazione della ricerca, meglio dell’analisi sociologica ad analisi sociografica, proprio per il prevalere della tecnica sull’impostazione teoretica e però anche la realizzazione piena, che io ho sempre avuto, ma l’ho sempre dato un po’, la realizzazione piena che questa degradazione era proprio relativa a un rovesciamento del rapporto, cioè si metteva sopra ciò che andava sotto, si metteva al posto del dominio ciò che invece era ancillare. Ma ciò era dovuto anche al fatto che si era appunto dimenticato ciò che invece stranamente i primi sociologi conoscevano molto bene, si era dimenticata l’importanza – per comprendere i fenomeni sociali – delle testimonianze dei protagonisti, cioè il momento qualitativo. Io l’ho sempre tenuto presente in qualche modo, ma, ecco, in fondo questa era l’eredità negativa del paleo-positivismo: l’avere decapitato, in qualche modo, o meglio, l’aver impoverito la testimonianza umana dei protagonisti dei fenomeni sociali. Cioè i fenomeni sociali alla fin fine erano fenomeni di uomini e donne viventi in società, dentro strutture… Qui recuperavo una certa ispirazione, forse addirittura esistenzialistica, cioè un certo gusto perché nella testimonianza, nelle storie di vita, c’è per esempio la tematica del tempo, l’angoscia del tempo che finisce, l’angoscia della morte. La storia di vita è il corso della vita, no?, il corso della vita, quindi il momento della necessità di periodizzare… dicevano, cioè, c’è tutto, c’è del vissuto. Ora questo vissuto è quando Sartre[33] dice che l’esistenzialismo è un humanisme e anche Heidegger del resto, nella sua lettera sull’umanesimo. In fondo cosa voglio dire: è un vissuto. È un esserci, è un dasein, essere lì, esserci. E c’è qualcosa al di là di noi. Ecco. Questa specie di ontologia ontica, è vero? Ora, questo per me era essenziale. Mi son poi convinto che era essenziale. Quindi, stranamente il ritorno della sociologia in Italia per questa via non recuperava direttamente la sociologia italiana prefascista. Anche se nei vecchi «Quaderni di sociologia» facevo fare i medaglioni, e io stesso ne ho scritto, parlato, eccetera; perché l’iter era diverso, era proprio un iter filosoficamente molto consapevole, molto consapevole. Infatti, debbo dire, era il caso del mio studio preparatorio poi per la mia tesi, che perdetti, un manoscritto che andò smarrito. Venivo in motocicletta da Sanremo, dove stavo e lo perdetti, fu perso; perdetti proprio la valigia, o mi fu rubata, non so come è andata. Perciò io, venendo in moto, l’avevo consegnato a una corriera che faceva servizio. La ditta si chiamava SATTI, società autotrasporti qualcosa,[34] faceva servizio da Sanremo a Torino, tutti i giorni. Io andavo in moto e diedi questa valigia al conducente lì, perché la portasse a Torino, convinto che l’avrei presa la mattina dopo. Ma ci fu un grosso temporale, c’era del cattivo tempo, io dovetti pernottare credo a Novi Ligure, perché la moto non funzionava più e arrivai con un giorno di ritardo e la mia valigia era scomparsa. Lì avevo un manoscritto su Carteggio.[35] Le ricerche di logica cartesiana, non solo il Discorso del metodo[36] ma anche Le meditazioni cartesiane,[37] le ho studiate molto attentamente. Nei testi, andavo a Nizza lì, avevo la biblioteca francese, nei testi originali, avevo duecento pagine lì, purtroppo, allora non c’era fotocopiatrice, era tutto scritto a mano, proprio un manoscritto. È andato perduto e allora ho perso, ebbi un momento molto difficile, proprio di crisi personale. Sa, son quelle perdite quasi irreparabili! E poi mi sono scosso, ho detto: «Mah, succede, facciamo un’altra cosa». Ma sempre, per me, per esempio, per riassumere un po’ la crisi, questa, la critica che voleva Cartesio era proprio la famosa critica che poi ormai è di dominio comune, insomma: cogito ergo sum, e io aggiungevo sum cogitans, eh, cogito ergo sum cogitans. A parte il fatto che cogito, in assoluto, pensavo di pensare qualche cosa, lo riannodavo un pochino. Be’, questa è la storia, di Abbagnano. E l’interesse, come mai in Italia – questo, ecco so che lei è interessato a questa questione – insomma… si sono dette molte sciocchezze. Certamente la fine della guerra, e quella fine, quella fine, no?, quel disastro certamente rendevano, sia la guerra, che la fine della guerra, la catastrofe, rendevano l’ottimismo panlogistico hegeliano,[38] hegeliano e crociano, nella sua forma crociana soprattutto, nella dialettica riformata, rendevano tutto, del tutto incongruo. Vero? Non reggeva proprio più. Quindi io annetto una grande importanza. E poi spirava un vento di rinnovamento, cioè molti andavano verso il marxismo, piuttosto, e i marxisti erano violentemente antisociologici. Era una cosa che mi piaceva. Per esempio il mio libro La protesta operaia[39] uscì nel Cinquantacinque e fu violentemente attaccato da un fondo de«l’Unità», molto duro, firmato da Paolo Spriano,[40] lo storico. E Fabrizio Onofri che, poveretto, è morto, che allora era membro del Comitato centrale, era uno degli adepti di Togliatti. Togliatti amava circondarsi di persone chic, un po’ nobili, aristocratici. Qui proprio qui a Roma, lui viveva a Montesacro, Montesacro, non lontano da qui e insomma, anche nobili, così, aveva questo gusto. E poi c’era Franco Rodano.[41] Fabrizio Onofri ne «Il Contemporaneo», mi aveva scritto un terribile articolo contro. Veramente molto. Era un articolo che in fondo avrebbe dovuto farmi soffrire – ma invece non lo presi sul serio – intitolato Il Maometto di Olivetti, i marxisti, i comunisti italiani solo recentemente, e non ancora del tutto, si sono liberati del pregiudizio antisociologico. Sono stati i crociani più fedeli: è una cosa incredibile. Crociani più fedeli, ancor oggi se lei vede bene, per esempio questo libro, io anzi adesso, forse Pozzi[42] lo recensirà, di Portelli, Alessandro Portelli,[43] Biografia di una città,[44] Terni, eccetera. Sempre, insomma, mai, non si parla mai di sociologia, è sempre piuttosto storia, la storia. Piuttosto che far sociologia come tale loro faranno della storia sociale, in ritardo, vent’anni, trent’anni di ritardo rispetto ai francesi, però faranno questo. C’è un forte pregiudizio antisociologico. Quindi la lotta era molto difficile. La lotta era molto difficile, devo anche dire che oggi la generazione intermedia dei sociologi italiani, i quali hanno molte ragioni, perché insomma non sono più tempi così, questi, e poi hanno studiato anche meglio le cose. Però tendono, a mio giudizio, a sottovalutare la difficoltà di quei momenti; è molto difficile. Infatti io personalmente non avevo nessuna speranza nel mondo accademico, tanto che Abbagnano mi disse: «Perché non fai l’assistente di filosofia?». «Beh, io sono, io sono per la sociologia, e filosofia non se ne parla; ma nient’altro, faccio solo sociologia». Lui mi fa: «Ma no, tu non entrerai mai nell’università». Ho detto: «Beh, poco male». Facevo altre cose; avevo molte frecce al mio arco, quindi non è che mi facesse… anzi, devo dire che il mondo accademico non mi attirava molto. Però nel Cinquantatre quando son tornato, e stranamente, ecco, questa è un po’ l’Italia, l’Italia è una società che ti offre all’improvviso delle smagliature. Bastò che io, tornando, così, lavorando un anno al CEPAS,[45] poi al Magistero, proprio perché il Magistero era una facoltà in crisi, una facoltà di scarso prestigio, quindi non più aperta per questo, no, ma diciamo anche più avventurosa, d’altra parte però una facoltà… ci avevano insegnato Guido De Ruggiero,[46] Luigi Pirandello,[47] Antonio Labriola,[48] cioè, voglio dire, una facoltà interessante. Franco Lombardi[49] si diede da fare, Franco Lombardi che poi è un po’ un ‘impresario culturale’, no?, Una brava persona. Ecco, quando si mossero i milanesi e i torinesi, purtroppo era già tardi perché io avevo già fatto una serie di cose. Anche un uomo come Barbano[50] non ce la fece. D’altra parte, siccome avevo detto questo anni prima, avevo pure rifiutato di fare l’assistente di filosofia con Abbagnano, perché ero solo per la sociologia, quando Abbagnano si trovò in commissione (questo me l’hanno raccontato, non so più chi, me l’ha raccontato Lombardi, credo; la prima commissione del primo concorso di sociologia era costituita da Franco Lombardi, Camillo Pellizzi[51] – che insegnava sociologia ma come ex letteratura, era letteratura inglese ed era riuscito a passare a sociologia con un atto di furbizia, bravissimo, Pellizzi in questo aveva capito, no?, con un unico voto del Consiglio superiore dato da don Sturzo, perché Sturzo l’aveva conosciuto a Londra, quando lui era direttore dell’Istituto di Cultura fascista, a Londra, durante la guerra, prima, anche prima della guerra, quando lui, Sturzo, era esule – dunque c’era: Lombardi, Franco, Pellizzi, Camillo Pellizzi, Francesco Vito,[52] della Cattolica, Renato Treves,[53] di Milano, crociano sempre, ma insomma, e poi finalmente Nicola Abbagnano), ebbene, mi fu raccontato che quando cominciarono a discutere, Abbagnano, come al solito, lui, tranquillo, modesto, è intervenuto dopo che tutti avevano già parlato: «Scusate, ho una cosa da dire: sul primo posto non si discute, questa è la mia posizione, non se ne parla neppure, perché il primo posto in questo concorso è per Ferrarotti; poi adesso apriamo il discorso sul secondo e sul terzo». Perché c’era, per esempio Treves preferiva mettere in terna Angelo Pagani;[54] e poi c’erano dei dubbi – i dubbi si sono poi verificati diciamo fondati, si sono rivelati fondati a proposito del fiorentino, è vero?, Giovanni Sartori, che infatti poi due anni dopo passò a Scienza politica –. Invece lui avrebbe dovuto fare Dottrina dello Stato. Quindi praticamente io mi trovai, ero a Parigi, cioè, cioè non avevo neppure, non ho fatto nessun lobbying, non sono neppure andato a trovarli, questi commissari, ho avuto però, questo lo riconosco, infatti lei giustamente lo rileva, c’è stato tra me ed Abbagnano questo incontro. In fondo, poi bisogna anche pensare cosa vuol dire questa rivista messa in piedi così, in fondo fra noi due. Avevo una rivista, potevo farla o con Einaudi, che allora faceva «Cultura e realtà», la rivista della Ginzburg,[55] di, di Cesare Pavese,[56] eccetera, che poi però finì dopo tre numeri, oppure con l’Olivetti, con le Edizioni di Comunità, che riprendevano allora in grande stile e che già pubblicavano allora «Rivista di filosofia». Invece Abbagnano proprio disse: «No. Facciamola noi, così siamo noi, facciamo noi quello che vogliamo, cioè la facciamo uscire con calma, tanto», ha detto, «fa niente, facciamo una piccola cosa e poi mia moglie», dice, – era la seconda moglie, Marion Taylor – «ha una piccola casa editrice»,[57] eccetera, eccetera. Io allora scrissi, diedi loro, siccome poi partivo per l’America proprio nel Cinquantuno, appena uscito il primo numero (e allora partire per gli Stati Uniti, allora era veramente come emigrare per sempre, perché sì, io partii da Genova su una piccola nave, chiamata l’Atlantic, della Home Lines, che adesso m’han detto che è stata messa in disarmo, od usata come nave da carico. Chissà che fine ha fatto?[58] Cioè non sapevo più se tornavo) lasciai a titolo diciamo di beneficio post mortem una dichiarazione a mani proprio della signora Taylor Abbagnano, in cui riconoscevo, benché io fossi responsabile e proprietario della rivista, riconoscevo che la proprietà andava a loro nel caso che io non fossi tornato… Devo dire forse questo è stato da parte mia, io ritenni che fosse doveroso, forse è stato anche un po’ avventato, ma insomma tanto poi le riviste secondo me se uno le inventa poi le manda per il mondo, non è che le deve tenere al guinzaglio, come fossero dei cani. Sa, se presa una certa direzione a uno poi non gli piace, ne fa un’altra; che precisamente è quello che poi ho fatto nel Sessantatre, nel Sessantaquattro, e poi nel Sessantasette con «La critica sociologica». Ma perché poi, c’era prima di tutto questa guerra, poi il processo di industrializzazione. Quando Abbagnano mi diceva: «Faccia filosofia!», io le debbo dire, Cipriani, guardi, io perché avevo la sponda di Olivetti, che lui non aveva, io, giorno per giorno, accanto, perché io ero proprio addetto alla presidenza, non facevo parte della ditta, ma avevo un ufficio accanto al presidente, nella ditta, al secondo piano, in un grosso palazzo di vetro. E mi rendevo conto, ho detto: «la sociologia deve venire». Ecco, qui la gente dice: «è venuta perché c’erano gli americani che hanno vinto la guerra», perché mi pare che qualcuno ha detto l’infelice frase: «al seguito dei carri armati americani». Sciocchezze! Pare che sia stato Alessandro Cavalli[59] a dire una frase del genere, in Jugoslavia o non so più dove. Spero che non l’abbia detto, questo! Certamente però Gallino[60] dice alcune cose anche incredibili… Un fenomeno culturale non lo puoi spiegare solo in termini, diciamo, metaculturali, in termini subculturali. Il fenomeno culturale, però, era vero, vedevo insomma questa società che cambiava. Noi lì nel Canavese addormentato, sa, il paese di Gozzano, no?, una cosa idillica, campestre, un po’ bucolica, eh! Però invece le cose cambiavano. Questa ditta diventava, io ho vissuto i momenti fondamentali attraverso i quali, proprio no?, la Olivetti da impresa relativamente piccola, protetta anche dal fascismo mediante l’autarchia – questo va detto, eh, guardi che i soldi gli Olivetti li hanno fatti facendo la prima guerra mondiale, poi la concorrenza è stata sgominata dal fascismo – ebbene, debbo dire che ho proprio visto come questa ditta stava diventando un’enorme multinazionale. Questa è proprio una grossa esperienza… Altre ragioni?… Credo che c’era un insieme di ragioni. Non c’era una ragione singola. Sì, uno può ipotizzare naturalmente una priorità, una tavola di priorità dei fattori, della loro incidenza relativa, delle novità, quindi rottura delle vecchie, superamento di certe cose, industrializzazione, bisogno di razionalizzare i cicli produttivi, distributivi, i comportamenti sociali, pensare al bisogno proprio di conoscere. Insomma, la società ha bisogno di conoscere se stessa. E da questo punto di vista certo, tutto il sommovimento creato da Torino, Milano, questo pompaggio dal Sud è importante, anche se poi i sociologi non è che abbiano detto molto, ma insomma…


RC: Io vorrei un attimo riferirmi proprio alle origini del discorso. Dunque lei m’ha detto che in sostanza l’incontro con Abbagnano fu casuale, in qualche modo.


FF: Sì, perché io non avevo professori.


RC: Ecco, questo volevo, volevo un attimo accertare.


FF: Ma se avessi avuto professori non avrei potuto fare sociologia, perché la sociologia era la tipica scienza di un cane sciolto. Non si poteva scegliere, perché non c’era proprio. Lo stesso Abbagnano non è che la volesse. Anzi una volta Lombardi mi disse che non Abbagnano aveva fatto un favore a me, ma io a lui, perché lui era arrivato in fondo, alla fine del suo pensiero. Doveva allora cominciare a far ricerche per le quali non era equipaggiato… Però sta di fatto che il suo aiuto, per esempio nel concorso, fu molto importante. Perché poi fu chiesto il concorso. E lì ci sono delle cose di ordine molto pratico. Per esempio Francesco Piccolo[61] che era il preside da sempre, è vero?, di Magistero, quando io diventai professore ordinario al Magistero, entrai come professore di ruolo e poi ordinario, eravamo in sette; si fa presto: non c’era ancora Filiasi Carcano,[62] non c’era Pietro Prini,[63] non Giorgio Petrocchi,[64] non c’era il buon Gaetano, come si chiama, Mariani,[65] che è morto. Niente, c’era: Piccolo, Umberto Bosco,[66] Luigi Volpicelli,[67] Caraci,[68] Marmorale,[69] Franco Lombardi, che stava andando via, e io. Sette. E il criterio di Piccolo fu incredibile. Un bel momento si trovarono, nel Cinquantanove, con una cattedra in più. Avevano già dato le cattedre, e Umberto Bosco, io fui anche favorito dal conservazionismo, non voleva troppe cattedre per non dover chiamar troppa gente. «Che ne facciamo di questa cattedra?», questo è il punto. Allora non si sapeva bene. E niente, Piccolo disse – ricorderò sempre questo criterio, di un pragmatismo sconcertante –, proprio questo filologo romanzo, il quale dice: «Beh, la diamo a quelli che hanno fatto più tesi di laurea». Io all’epoca, devo dire grazie poi al buon Antiochia,[70] meno forse ad Ancona[71] (Ancona brillava per la sua pigrizia), Antiochia in quegli anni, io gli sarò per sempre, poi le cose sono andate come sono andate,[72] io gli sarò sempre molto, molto, molto fedele e grato per quello che lui fece, perché… Intendiamoci, lui lavorava per l’IMI,[73] mezza giornata; ha fatto l’assistente volontario, veniva dal Partito Comunista dopo l’Ungheria del Cinquantasei, veniva dai sindacati, era stato segretario di Di Vittorio,[74] soprattutto di Bitossi, Renato Bitossi[75] che era il negoziatore, anche Di Vittorio sindacalista. Veniva dalla cavalleria di Pinerolo, un uomo con la sua esperienza. Lui mi era molto grato perché l’avevo preso così, senza neppur chiedergli chi era. Un giorno è comparso lì, mi ha detto: «Mah, io ho fatto il sindacalista, da ultimo, ma molte altre cose». Ho detto: «Mi basta questo». Lo presi. Allora si lavorava molto. Io adesso non discuto, non voglio dire, non so, dovremmo ascoltare uno di oggi, della generazione intermedia, tipo non so, uno Statera.[76] Dice: «Là si lavorava male». Sì forse, anche, non è…, però, (si trattava) di un lavoro imponente. Noi facevamo più tesi di tutti gli altri. Allora, cosa, io poi tenevo anche lì sacrificate evidentemente delle ore che avrei potuto usare diversamente; ma tenevo anche Scienze politiche, Lettere, è vero?, poi c’era, dopo poco c’era Trento; ero anche tra i fondatori di Trento, andavo su è giù tutti i lunedì, partivo domenica sera tornavo lunedì sera, col vagone letto. Il buon Piccolo dice: «Vediamo chi ha fatto più tesi». Sociologia risultò una delle materie col maggior numero di tesi. E allora, niente: «Teniamo sociologia». Lì io poi dovevo, lei lo sa, dovetti affrontare una seconda difficoltà. La difficoltà era che il buon Gaetano Floridi, il vicedirettore generale della Pubblica istruzione, uomo stupendo, adesso in pensione, credo, Gaetano Floridi mi dice: «Beh, Sociologia deve andare a Statistica, oppure a Giurisprudenza», cioè il Ministero, non per cattiveria, per carità, ma proprio, il Ministero seguiva la tradizione, seguiva l’immagine tradizionale. Io allora, siccome abitavo a Monteverde vecchio, al Gianicolo, via Innocenzo decimo, allora per me era facile; venivo giù, via Dandolo, mi fermavo lì, e per qualcosa come tre-quattro mesi, due-tre volte a settimana, mi fermavo e salivo al secondo piano o al quarto piano, dov’è l’istruzione superiore. Andavo da Gaità, Gaetano, no?, Gaità, Gaetano Floridi,[77] per spiegargli come e qualmente la sociologia era una materia perfettamente umanistica e per questo andava bene al Magistero. Quindi noi fummo favoriti da questa spregiudicatezza incredibile del filologo romanzo Piccolo, vero?, preside; gli altri, Volpicelli, Bosco, che insomma accettarono. Poi, dalla relativa, diciamo, mancanza di prestigio di quella facoltà, che quindi era più aperta agli sperimentalismi, alle cose nuove – cosa che poi è stata verificata anche dalla presenza di psicologia, per esempio –, e infine da questa sotterranea, piccola cospirazione con Gaetano Floridi, il quale materialmente metteva poi i titoli delle cattedre sul tabellone; che allora lui aveva nella sua stanza, un enorme tabellone con tutte le facoltà e tutte le cattedre disponibili; come erano distribuite?, con colori diversi: gialli, azzurri, rossi, no? Niente! Finalmente, un bel giorno, la sera, arrivai lì e mi disse: «Franco, allora, beh, t’abbiamo accontentato. Abbiamo messo sociologia». Ora lui non si rendeva forse conto, neppur io francamente, però era una cosa abbastanza storica; era la prima volta. Quasi subito dopo, celebrato il concorso, io ebbi una riunione di cui ho vivo il ricordo, con Sergio Cotta,[78] da poco venuto qui a Giurisprudenza a Roma, come filosofo del diritto, e Norberto Bobbio.[79] Devo confessare una mia debolezza, vero?, andavo, andavo di fretta e quella mattina arrivai anche un po’ in ritardo. Loro erano già riuniti alla Facoltà di Giurisprudenza nell’ufficio di Cotta, loro due. Io non capii bene, non percepii, cioè capii che era una cosa importante perché uomini come Cotta, ma soprattutto come Bobbio, già allora, non è che provocano una riunione così per battere l’aria; è gente che… Ma in sostanza non riuscii, cioè avevo, mah, avevo una certa prevenzione contro di loro. Non contro di loro come persone, ma contro il formalismo. Perché oggi si può dire tutto quello che si vuole, ma la sociologia è tornata in Italia contro il veto, crociano d’accordo, il veto marxistico d’accordo, ma anche contro il veto formalistico giuridico, che fu totale. E infatti loro poi deviarono cercando di, misero in piedi Scienza politica. Perché Scienza politica, la politologia, è tutta concepita in funzione antisociologica. Questo lo debbo dire. E la sociologia è considerata slabbrata, episodica, non seria, eccetera, eccetera. In fondo, un po’ contestataria. Beh. Quella riunione fu molto importante, retrospettivamente considerata, perché, con l’appoggio di Sergio Cotta, Bobbio mi disse con molta chiarezza, mi disse: «Caro Ferrarotti, tu hai in mano la sociologia, no? Così come noi, come io tempo fa avevo in mano la filosofia del diritto. Allora hai due strade davanti. Intanto, premessa: bisogna fare quello che Cesare Musatti[80] e Gemelli, Agostino Gemelli[81] hanno fatto a Milano, cioè bisogna costituzionalizzare la situazione: uno a te e uno a me. Quanti? Pochi! Perché le vie son due: la via di un controllo serio – il discorso era sempre fatto in nome della serietà scientifica –, controllo molto serio, la via impone un numero esiguo. Quindi, pochi concorsi, poche cattedre, cinque al massimo nei prossimi quindici anni, come filosofia del diritto, e secondo un criterio metà-e-metà: laici e cattolici, cattolici e laici, come Gemelli e Musatti avevano fatto per Milano». Beh, io gli dissi di no; in faccia. Non lo so. Insomma parlarono… cioè io dissi di no, probabilmente proprio perché ero contro persino l’idea di pensare in termini costituzionali questa faccenda. Loro avevano ragione, forse, a considerare oggi il fatto che la disciplina ha imbarcato degli avventurieri, delle persone, in fondo, diciamo la verità, con cui uno non si sta bene insieme perché non sono studiosi. Sono degli avventurieri. Io stesso poi, piantando lì, ho chiamato persone che si son poi rivelate, magari sull’onda emotiva, ideologica, sembrava, poi in realtà si sono rivelati poveretti. Niente. Ma io, però, rifiutai l’approccio malthusiano. Nettamente!


RC: Questo avviene…


FF: Quando io avevo…, nel Sessantadue…


RC: …abbastanza dopo.


FF: …eh, beh, però, nel Sessantadue feci la mia prolusione di ordinariato. Scattati i tre anni solari, è vero?, io ero ordinario. Anzi, la mia prolusione di ordinariato fu poi pubblicata. Era Macchina e uomo nella società industriale, quello della ERI.[82] Fu pubblicato. Tenni, tenni proprio la prolusione nel Magistero, lì al piano di sopra. C’erano ancora però gli statistici, ancora lì, ma insomma, noi avevamo già una stanza, una, o in biblioteca forse. Vennero, vennero tutti. Fu una bella cerimonia. E io dissi di no. Questo avvenne proprio non appena fui ordinario. E cioè dissi di no perché ritenevo che la sociologia non dovesse essere una disciplina diciamo minoritaria, piccoli numeri. Vedevo nella sociologia proprio una vera vocazione sociale. Una vocazione sociale a diventare, anche ai vari livelli, anche operativa, vero? Quindi ci volevano dei numeri, ci volevano grossi numeri. Tra l’altro non avevo tutti i torti, perché negli anni in cui ero incaricato vedevo queste migliaia di persone che venivano a far… vabbe’, ci sarà stato un venti, un trenta per cento di profittatori, restava però un sessanta, settanta, l’ottanta per cento di gente che aveva interesse. E c’era nell’aria. Poi a questo bisogna aggiungere una certa mia attività televisiva, all’epoca, no?, facevo Vivere insieme. Bisogna aggiungere il Convegno dei cinque,[83] che presiedevo molto spesso. Bisogna, non lo so, bisogna aggiungere anche il fatto olivettiano, l’industria. Il Sud si muoveva, l’immigrazione, insomma c’era il boom, il boom era dal Cinquantacinque al Sessantasette,  alla contestazione. Il primo raffreddamento del boom era capitato proprio nel Sessantadue, con la nazionalizzazione della Edison, la prima grande nazionalizzazione, l’unica grande nazionalizzazione: l’industria elettrica. Quello fu un colpo forte, infatti, mah, insomma. Io avevo finito nel Sessantuno-Sessantadue di costruire questa casa ed è da allora che abitiamo qui.[84] In sostanza era il boom, era ancora il boom. Non so, l’uscita dell’Italia dal mondo rurale, proprio, importante. E poi io non avevo mai fatto vita accademica, quindi non capivo questa logica; non ero mai stato discepolo di nessuno nell’università. L’incontro con Abbagnano era stato appunto una coincidenza; voglio dire un convergere casuale di persone che si trovano simpatiche e pensano abbastanza allo stesso modo. Non a caso venivo, da autodidatta, da letture tardo Ottocento, primo Novecento; lui era l’allievo, l’ex allievo di Aliotta a Napoli, lettore di Rensi, studioso di metodologia, di storia della scienza; oh Dio, lui aveva anche, per bisogno di guadagnare, forse, credo, aveva anche lasciato un po’ i suoi studi originali, aveva fatto queste grandi opere manualistiche, è vero?, Storia della filosofia,[85] il Dizionario,[86] proprio, così mi pare d’aver capito.


RC: in quelle riunioni erano presenti Cotta…


FF: Cotta e Bobbio.


RC: Cotta e Bobbio.


FF: Noi tre. E devo dire, adesso schematizzo un po’ perché fu una riunione, io almeno la percepii in questo modo: loro erano due professori di filosofia del diritto; vedevano e chiedevano a me di vedere – e mi davano cioè un consiglio fraterno, per il quale io avrei dovuto essere grato –, vedevano la sociologia al loro livello. Cioè la sociologia, loro adesso son sette o otto mi sembra e ecco, non di più, una, e io… non capivo questo, non potevo capirlo perché ero contro il formalismo giuridico, avevo delle obiezioni contro lo stesso Bobbio, contro Cotta, eccetera. E loro in realtà, retrospettivamente parlando, forse non avevano tutti i torti, perché facevano, ragionavano da accademici; ragionavano da universitari. Io invece ragionavo da inventore, ecco… Il contrasto era anche col lato più umano. Il contrasto era tra amministratori di discipline accademiche: oculati, attenti, studiosi seri; e, diciamo, inventore di, quindi portato all’espansione, è vero? Questo è un po’…


RC: Ma perché proprio loro? Perché proprio questi due filosofi del diritto e non altri?


FF: Mah, fu una circostanza. Io sono anche tuttora abbastanza amico, eccetera, vicino, e voglio dire, a una persona come Bobbio. Perché allora, no?, (la cattedra) fece molta impressione (…) Allora la prima cattedra di sociologia, nel mondo accademico di allora, fece una enorme impressione. E allora credo che ci fu una certa preoccupazione: forse questi sociologi diventano troppo importanti. Troppo numerosi, troppo… (…); dall’altro punto di vista, magari sa, vedevano che io avevo molte esperienza ma non conoscevo niente del mondo accademico, non ero mai stato, per esempio, assistente. (…) Non avevo fatto la carriera accademica, venivo dall’esterno, ero un outsider. Tra l’altro, forse loro questo non lo sapevano: proprio perché outsider avevo potuto aver l’idea di sociologia, cioè di una materia che non c’era. L’outsider non vuole ripetere, vuole una cosa che non c’era. Allora credo, ebbero la preoccupazione, per un verso se si vuole fare una, diciamo così, dare una interpretazione poco generosa, di non essere, diciamo, noyants[87] per un verso; ma io credo che per un altro verso, magari, (si trattasse) appunto di stabilire dei rapporti di collaborazione. Non dimentichiamo che Bobbio era molto legato poi a Renato Treves e viceversa. Treves d’altra parte ha sempre avuto la funzione fondamentale nella cosa sociologica di interessarsi della sociologia al fine di controllarne un po’ l’ambito, attraverso il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale[88], attraverso la prima AISS.[89] Basti dire che quando io fui eletto presidente dell’AISS, perché ormai ero ordinario, quindi dovevo essere io, non solo si dovette votare per una giornata intera – lui non voleva dimettersi – non solo, ma l’AISS cessò dal funzionare, perché io avevo Angelo Pagani nella mia cosa, avevo, no?, e questi qui semplicemente avevano De Rita. Cioè il peso, il peso del gruppo milanese era tremendo. E io credo che dietro questo invito di Cotta – Cotta fungeva da ospite, ci ospitava –, e Bobbio, c’era una preoccupazione milanese. Ma questa è un’interpretazione. Un’altra interpretazione che io ne do, che è un’interpretazione proprio di massima buonafede, era un consiglio fraterno. Era anche una concezione diversa della vita accademica. Io avevo già una concezione post-contestazione, una concezione democratica aperta, un po’ slabbrata, disordinata, un po’ caotica, ma insomma molto presa dall’uomo, dal diverso, (…) Bobbio ancor oggi è la quintessenza del, basta vedere come per esempio, quando presenta le cose, quando parla, è efficacissimo, efficace proprio perché il pubblico italiano da un professore s’attende, s’attende il pastore che parla, s’attende il verbo, il verbo, no?, il verbo. C’è un, diciamo così: c’è un’unzione particolare. Naturalmente poi, diciamo pure la verità, tutta la verità, vero?, sulle labbra, sulla bocca di un uomo di grande valore, con dei meriti notevoli. Nessuno ha dimenticato la sua polemica con Togliatti[90] a proposito delle regole della democrazia, eccetera, no, come Roderigo di Castiglia,[91] famoso, Politica e cultura,[92] vabbe’; un uomo che ha dei grandi meriti. Però, anche molto ligio alla figura, al ruolo dell’accademico tradizionale. Molto bravo.


RC: Ecco questo su un versante. Su un altro versante c’è l’esperienza della Facoltà di Lettere e filosofia qui a Roma,


FF: Sì.


RC: che ha accolto la sociologia e che però poi, in qualche maniera, non ha più voluto.


FF: Sì. Ora, devo dire come cominciai. Cominciai col Magistero. Cominciai immediatamente ad avere, diciamo, offerte di andare altrove perché il Magistero, come ho detto poc’anzi, era facoltà di scarso prestigio, ed era per lo più considerato un trampolino di lancio. Si veniva al Magistero per venire a Roma. Una volta a Roma, si andava… Allora le facoltà erano due: c’era Scienze politiche da una parte, con il vecchio preside Raffaele D’Addario,[93] che mi voleva molto bene. Ma era un fatto proprio, non lo so, di simpatia umana, non so. Non aveva figli, (…) lui per me stravedeva, questo D’Addario, e mi diede subito degli assistenti. Li portò via a Salvatore Valitutti,[94] mi diede Carlo Mongardini,[95] eccetera. Dall’altra parte c’era Lombardi: Lettere. E tutti mi dicevano: «Vieni a Lettere, dove c’è filosofia; tu sei anche filosofo», eccetera, eccetera. Dall’altra parte invece: «Vieni a Scienze politiche. Cosa stai a fare con queste ragazzine, no?, del Magistero, queste maestrine? Tu vieni qui, è una cosa seria». Io debbo dire che un’offerta cancellava l’altra. Dirò con molta chiarezza. Primo: Scienze politiche era una facoltà dove avevo molto rispetto, ma piena di ‘elefanti’. Dal senatore Medici[96] all’onorevole Moro,[97] più tardi, però. Io anche votai per Moro, insomma; Fanfani, no, Fanfani era Economia e commercio. Chi altri c’era? Era pieno di politici. Brave persone. Mi trovavo molto bene con loro. C’era Marzano,[98] vecchio ragioniere generale dello Stato; c’era Mario Toscano,[99] storico dei trattati, Ministero degli esteri. No, mi sono trovato sempre molto bene. Però c’era quest’aria di cimitero di elefanti, non so come dire, di grosso parcheggio per uomini che hanno fatto il loro cursus honorum e che si preparano a una morte gloriosa, tranquilla ma degna, no?, tutti così, tutti: ex ministri, ex primi ministri. C’era poi Franco Valsecchi[100] di storia moderna, nemico giurato della sociologia: «Scienze storico, storico-sociali. Cosa vuol dire? O sono scienze sociali, che non esistono, oppure son scienze storiche, la storia». Questo era tipico, insomma. Più complesso il discorso di Lettere. Io a Lettere ho avuto grandi soddisfazioni, prova ne sia che gran parte del mio aiuto, personale d’aiuto al Magistero, veniva da Lettere. A Lettere mi trovavo molto bene, umanamente, eccetera. Andavo bene con Vittorio Somenzi,[101] andavo bene con Gaetano Calabrò,[102] benissimo Franco Lombardi, naturalmente e persino Ugo Spirito[103] e all’inizio persino Carlo Antoni,[104] negli ultimi anni Carlo Antoni disse in pubblico: «Ferrarotti mi ha convinto», in una specie di convegno che si tenne in quegli anni, ma molto prima questo, eh, prima, io ero solo incaricato, al teatrino della Vittoria, a via Vittoria, vicino a piazza di Spagna. E lui disse – in un convegno, non so, sulla libertà, qualcosa del genere, dopo che aveva parlato Riccardo Lombardi,[105] io avevo fatto una relazione che fu poi pubblicata come Sociologia e realtà sociale,[106] – e debbo dargli atto, un ricordo veramente straordinario, questo, Carlo Antoni ha preso la parola, direi proprio il discepolo più fervente di Croce, è vero?, disse: «Oggi Ferrarotti mi ha convinto della opportunità e della utilità della sociologia». Proprio! La gente non credeva alle proprie orecchie. Sa, queste cose si son dimenticate. Questa cosa fu pubblicata poi da Carlo Ludovico Ragghianti[107] nella sua rivista, rivista gialla che faceva a Firenze, chiamata «Criterio»;[108] di cui uscì qualche numero, poi scomparve.


RC: Questo, in che anno, più o meno?


FF: Era il 1956. Quindi siamo, io ero incaricato, ma insomma prima del concorso, Cinquantotto-Cinquantanove, poi è stato espletato nel Cinquantanove-Sessanta, nel Sessantadue ero ordinario. Ora, perché è più complessa la cosa di Lettere? Dunque, Spirito andava bene anche lui, anche se era contro la sociologia; ma la vera opposizione alla sociologia lì a Lettere, stranamente, è venuta dal gruppo Calogero.[109] Ed è venuta soprattutto non tanto quando c’era lui, che andava molto bene, perché, insomma, io attraverso il CEPAS che era stato fondato allora, andava molto bene. Ma soprattutto quando venne colui che aveva sposato la figlia di Calogero, Gennaro Sasso.[110] Lì cominciò in effetti nella discussione delle tesi, in cui mi trovavo benissimo con Morghen,[111] mi trovavo benissimo, (…) mi trovavo splendidamente bene con Gabrieli, Francesco Gabrieli,[112] mi trovavo bene con Santo Mazzarino,[113] lo storico; bene con tutti. Meno bene coi giovani leoni della filosofia tipo, tipo Lucio Colletti,[114] no?, allora lui, che ha una mentalità da poliziotto, cioè lo dico con amicizia, cioè lui o fa la sentinella dello stalinismo, o fa la sentinella è vero?, della libertà, del liberalismo. Ma son persone, sono teste assolutizzanti che non possono… e allora lì era tutto proprio per la linea, no?, dura, no?, eccetera. Vabbe’. Quindi c’era questa situazione. Situazione difficile che faceva, che produceva un certo disagio, al punto che il nostro successo, che era indubbio, grande successo, però era visto, era un successo che dava sospetto, non solo per invidia, se volete. Beh, ci fu un fatto drammatico una volta, drammatico per modo di dire. Che senza dire nulla, mentre facevamo gli esami, Guido Calogero entra e si siede lì, accanto a noi. Non fa domande, niente, ma prende nota: il tempo di esame, le domande fatte agli esami, eccetera. Io naturalmente appena ho visto questo ho accelerato ancora di più gli esami. E questi dopo un po’ andò via. Non solo. Gli feci sapere che avrebbe dovuto venire. Se voleva venire doveva però, come era tenuto a fare, fare parte della commissione formalmente, doveva venire sempre, a tutti gli esami. Se non veniva sempre non sarebbe stato… Questo fu molto duro per lui e… Poi ci fu, ci fu, niente, su una rivista, non so più quale, forse la «Rassegna di Sociologia»[115]… Anzi, no; comunque nel Sessantasette ci fu una sparata – insufflata però – di Spirito contro le tesi di laurea in sociologia, e una mia risposta in cui dicevo semplicemente che mi stupivo di queste istanze critiche di Ugo Spirito a proposito delle tesi di laurea in sociologia, che non era strumentalmente in grado di leggere. Quindi, lui era stato un po’ pesante, ma la mia risposta non era leggera, insomma. Infatti lui se la legò al dito. Poveretto, poi doveva morire di lì a poco. Quindi, io poi francamente… Terzo punto. Dunque: no a Scienze politiche, no anche a Lettere, ma perché, non solo per questi motivi negativi, ma perché io, in modo se si vuole abbastanza irrazionale, sono rimasto molto legato e riconoscente alla Facoltà di Magistero. Capisco, non è una facoltà che mi interessi più tanto, questo lo ammetto. Tanto che (…) ero molto favorevole al dipartimento, in funzione antifacoltà. Non avrei mai potuto immaginare che sarebbe rimasta la facoltà insieme col dipartimento, ma insomma! Ma perché…, insomma, il Magistero, cambiato com’è, per me resta quel punto di inserzione nella struttura accademica italiana dentro la quale senza questa, questa smagliatura non sarei mai entrato. Ora non sto a dire se è stato un bene o un male, non lo so; questo nessuno può dirlo della propria vita. Però sta di fatto che mi piaceva trattare libri, mi piaceva scrivere o parlare di queste cose e lì son capitato e lì l’ho potuto fare. M’hanno chiamato. Quando il buon Marcello Boldrini[116] stava diventando presidente dell’ENI[117] mi chiese di andare, portare la cattedra a Trento, io mi opposi ad Alberoni,[118] (…) «Beh, allora perché non vieni tu?». «Beh, io sto a Roma, sto al Magistero, mi ha chiesto la prima cattedra, come posso lasciare?». E lui mi ha detto: «Sai, Alberoni anche a me non piace tanto, però ci porta la cattedra. E poi viene dalla Cattolica. Lì c’è sempre, uno può essere peccatore finché si vuole, però viene dalla Cattolica e quindi è un ‘nostro’, insomma. No? Perché questo c’è, eh, fra i cattolici. Lei lo sa meglio di me che c’è questa mentalità». Io dissi a Marcello Boldrini, ricordo sempre una telefonataccia: «Caro Marcello, segnati le mie parole, ti pentirai amaramente. E io da domani sono dimissionario». Mandai la lettera. E chi andò però a fare, insieme con l’Andreatta,[119] a fare la ciliegia sul Saint Honoré? Vedi caso: Bobbio. Costantemente, capito? Proprio direi come se in qualche modo io fossi un pesce pilota. No? Appena lasciato, il momento, il laico, il laico diciamo, il cosmetico, la cipria laica, subito, eh, per avere un minimo di controllo, nel Comitato Tecnico, fu lui. Ora tutto questo ha avuto una sua storia, poi io direi che in fondo (…) se io avessi voluto andare a Lettere ci andavo e andando a Lettere, impostando bene un lavoro a Lettere, eccetera, si potevano fare grandi cose. Certamente più che al Magistero.


RC: Però voglio dire…


FF: Però allora questo, scusi, per finire la sua domanda, la sua domanda è importante, a un certo punto, questo umore, è successa una cosa interessante, allora. Allora lei deve sapere che Calogero – queste son cose riservate, va da sé – ma Calogero pubblicava una rivista chiamata «La Cultura»[120]. E Franco Lombardi mi disse che questa rivista era pagata dai massoni, un gruppo di massoni. No?, la cosa è molto interessante a Lettere, perché lì, insomma, lì, c’era, fra gli altri, un giovane studente che veniva da me, che prendeva appunti che poi io ho ritrovato ne La conoscenza sociologica,[121] vero?, che era Statera. Statera che all’epoca era veramente brillante e che…, ambiziosissimo, aiutava Antiochia a mia insaputa. Io spesso – avevo una pessima abitudine, mie cattive abitudini di cui, per carità, (…) accetto tutta la mia responsabilità, l’accetto anche perché non posso farne a meno –, ma, la mia responsabilità consiste in questo: per esempio io avevo Trento, Scienze politiche, Magistero, poi avevo la diplomazia, deputato, eccetera, allora, dicevo per esempio ad Antiochia: «Scusi, non ho tempo di andare lì a far quella lezione, vada lei». Mi è poi risultato, dopo, mi fu riferito dalla Piccone Stella[122] dopo, mi fu riferito da, De Domenico,[123] e altri – De Domenico veniva da Scienze politiche, come Pozzi del resto – allora, niente, io mandavo Antiochia, Antiochia s’appoggiava a parecchia gente tra cui Statera. Uno era Pacitti…[124] E Statera era bravissimo nell’infilarsi, nel brillare per diligenza, ma vera diligenza, eh, lui proprio, con me, del resto io gli telefonavo a mezzanotte: «Domani alle sette mi porti, sette di mattina, mi porti la graduatoria con…, secondo questi criteri: uno, due, tre, eccetera». Lui pronto, battuto a macchina, batteva tutta la notte, bravissimo. Ma in qualche modo, secondo il famoso, il famoso teorema hegeliano del servo-padrone, (…) faceva le cose e guadagnava. Ora Statera era l’uomo di Calogero e in parte di Lombardi, attraverso il padre,[125] vecchio giornalista parlamentare, eccetera, tant’è che la sua tesi di laurea era su Neurath, Neurath e il positivismo logico. Quando si trattò, lui fece…, venne subito a trovarmi. Fui io che telefonai ad Abbagnano: «La pubblichiamo». Resta il miglior libro forse di Statera.[126] (…) Io gli dissi: «Be’ perché non sta lì? S’è laureato con Guido Calogero, mah, stia lì». Fece una festa poi alla vigna, alla sua vigna, a cui io non andai, polemicamente. E invece lui fu consigliato e fu usato per inserirsi nella sociologia. E fu una specie proprio, guardi (…) non ci abbandonò più, attraverso queste debolezze di Antiochia lui si inserì (…) con grande abilità. Devo anche dire, per esempio, però, in questo voglio essere molto equo: un posto di assistente che ci avevano portato via, lui ce lo fece ridare, naturalmente per sempre. Fu lo stesso posto in cui fu riconosciuta idonea la Piccone Stella, che poi andò a Messina, poi da Messina da assistente diventò associata. E anche qualcun altro, e anche lo stesso De Domenico. No, De Domenico partecipò ma fu fatto fuori, anzi era molto offeso con me, perché…, e… ci furono due o tre cose buone, ma con questo fine. Sempre. E da lì si può dire che era una tipica…, era una persona che s’era inserita, non che io l’avessi chiamato. Semmai io l’ho tollerato, un po’ così, per distrazione. Ma era il loro uomo, si potrebbe dire era proprio l’agente di questo gruppo. Tant’è che quando lui lasciò Lettere la cosa cadde. E cadde perché lui la volle far cadere, d’accordo, ma cadde anche perché, perché veniva meno… Per conto mio non potevano farmi nulla, no?, perché ero così, ma un successore: o era Statera o non era nessuno. E infatti fu chiuso, ci fu Losito per un certo tempo credo, no?, ma poi…


RC: Sta di fatto che a tutt’oggi la Facoltà di Lettere e filosofia non ha nessun insegnamento di sociologia.


FF: E non credo che sia.


RC: Allora, voglio dire, qual è l’atteggiamento dei filosofi della scuola romana nei riguardi della sociologia? Favorevoli in parte?


FF: È un atteggiamento, purtroppo, di chiusura, mentre noi abbiamo continuato e io credo che abbiamo fatto bene. Si veda per esempio Bianco, Franco Bianco[127] da noi, eccetera. Io ho sempre detto, al di là delle simpatie e antipatie, ci sono questi personaggi che non sono per niente simpatici, però ho sempre insistito perché dovevamo avere la sponda filosofica. (…) Mentre io mi muovo sulla base di un discorso teorico, d’una esigenza multidisciplinare, eccetera, che quindi faccio valere anche per Lanternari,[128] anche per Tentori,[129] e anche per Lütte,[130] indipendente dalla simpatia-antipatia, cioè alla fine vado al di là di questo; non mi interessa. La gente passa. Debbo dire che il gruppo di Lettere, il gruppo dell’Istituto di Filosofia, Lettere, ha sempre fatto, diciamo, una politica familistica, dinastica, di gruppo ristretto. O si entrava nel gruppo o no. E in qualche modo questa è considerata anche una posizione di élite; la presenza di alcune persone, per esempio c’è poi Romeo,[131] vero?, se pure, evidentemente ha di molto aggravato, accentuato, ecco, diciamo aggravato, da un giudizio negativo, ha accentuato questa tendenza.


RC: Quindi non è un discrimine ideologico, è un discrimine proprio di tipo dinastico-familiare nel senso più brutale?


FF: Non c’è dubbio. Su questo io non avrei molti dubbi. Non avrei dubbi su questo.


RC: Perché sennò non si spiega che alcuni sono favorevoli.


FF: E poi c’è, secondo me, delle persone che decidono lì, c’è ancora un pregiudizio antisociologico di tipo diciamo scientifico. Tanto che poi l’ultimo, il più tardo, diciamo, Spirito espresse questa cosa dicendo: «Due false scienze: la sociologia e la psicanalisi». Naturalmente facendo ridere. Almeno per quanto mi riguarda, io risposi con tre righe dicendo: un po’ patetico il fatto che uno pensi di potere a tavolino freddamente decidere quali scienze esistono e quali no! esiste una scienza quando ci sono gruppi di studiosi che bene o male, identificandosi in una certa cosa, conducono ricerche. (…) È molto strano, cioè il vecchio, il tardo Spirito tornava alle sue vecchie, alle sue primitive posizioni comtiane. E lui è sempre stato, sempre stato un fascista corporativista gentiliano e nello stesso tempo positivista comtiano, perché tutti e due i disegni sono disegni globali di organizzazione della società, in maniera teocratica, insomma, no?, monocentrica. Questo è quello che io chiamo, ho sempre chiamato il sociocentrismo, vero?, di Comte. Era in fondo rovesciato, non era diciamo lontano rispetto alla globalità dell’autoctisi, l’autofondazione di Gentile, l’atto puro, no?, lo spirito come atto puro. Sono concezioni diciamo monistiche sistematiche senza residui; non ci sono mai, non c’è la contingenza, non c’è margine, non c’è il momento dell’indeterminazione. E poi, sa, quando c’è un uomo come Sasso…


RC: E uno come Gregory?[132]


FF: Gregory. Ecco io sono amico, sono stato personalmente un amico di Gregory, eccetera. Gregory è appunto un duro organizzatore. Merker[133] andrebbe già molto meglio per me. Però loro non c’erano, è molto recente.


RC: Sì però ricordo che Gregory…


FF: Gregory.


RC: aveva una certa politica nei riguardi…


FF: Gregory, Gregory è sempre stato per una emarginazione della sociologia, cioè la sociologia è accettabile in piccolissime dosi, condotta da una persona d’alto livello; non si può chiamare, così, un incarico. Andata via questa persona, che ero io nel caso (specifico), e venuto meno per incompatibilità l’uomo di fiducia, l’uomo che appartiene alla famiglia, io non appartenevo alla famiglia, però ero al di sopra, allora la cosa tace. O la si controlla, oppure meglio il silenzio. Devo dire che è piuttosto scandaloso, io son d’accordo, è naturale. Però c’è, voglio dire, c’è una quasi inevitabile diciamo evoluzione, nelle cose, perché alla fin fine chi è impoverito non è tanto la sociologia son quelli che la escludono. Questo…


RC: Fra l’altro han dato spazio ad altre discipline delle scienze sociali che però interferiscono meno, tipo antropologia culturale, tradizioni popolari, etnomusicologia.


FF: Tutto ciò che si riferisce… Il problema è questo, così come lo posso dire, tutto ciò che si riferisce alla descrittiva sistematica di usi e costumi, tutto ciò che ha a che vedere con una, diciamo così, una esplorazione a livello morfologico elementare del sociale, va molto bene. Laddove si voglia avallare o far funzionare una concezione della sociologia come scienza teoreticamente forte e autonoma, con i suoi contenuti teorici, le sue premesse filosofiche, ma per carità, questo non si può, (…) E infatti fu su questo su cui sostanzialmente le cose… Infatti anche pedagogia, c’è quest’uomo che poi tra l’altro contribuii a far venire a Roma, lui era d’Aosta, no?, Visalberghi,[134] fu allora, diedi voto favorevole, fui consultato. Certo. Perché? Perché io ricordavo il traduttore di Dewey, The Logic of InquiryLa logica della ricerca,[135] ricordavo appunto questa pedagogia che era in realtà strettamente legata alla sociologia e alla ricerca sociale, la comunità e i suoi problemi, il pubblico e i suoi problemi, insomma. È arrivato lì, è diventato un esperto di docimologia, il grande progetto IARD,[136] no?, scoperta dei talenti. Facemmo una sola ricerca insieme, lo ricordo, gli demmo una mano, questa ricerca, le due cattedre. Ma debbo dire che a un certo punto le riunioni comuni con lui mi riuscivano così fastidiose, così noiose che, insomma, sarà che io sono un po’ allergico… No, no, voglio dire tutto quel che va detto (…) Ecco, ho una scarsissima capacità di sopportazione, mai avuta la capacità di sopportazione della noia. Minute, pedanti riunioni sul nulla, poi, va beh, lunghissime, poi tutte profumate – per modo di dire – da queste pipe, queste pipate interminabili. No, questo quindi lì fu un po’, devo dire, un’occasione mancata. È stata anche un po’ la cattiva azione di Statera. (…) Venendo via lui sapeva, d’altra parte lui si trovò, la legge gli imponeva di scegliere di qua o di là. Qua c’era la cattedra. Là no. Cattedra che poi naturalmente, nella famosa riunione a Padova con Acquaviva[137] e gli altri, nessuno aveva fatto il suo nome. Io dissi: «Beh, Izzo[138] da una parte, diciamo teorico storico, dall’altra però ci vorrebbe un metodologo per Roma anche, chi lo fa? Ecco Statera». Tutti sanno che lui è andato in cattedra per il mio intervento. Sennò lui era già fuori, non lo consideravano per niente. Lui era per niente considerato. Anzi mi dicevano che a Roma dopotutto uno era già sufficiente. No? Io per averne due, non avevo altri sottomano. Debbo dire, se guardo indietro − lei mi costringe a guardare indietro, giustamente, bisogna farlo −, bisogna dire che la sola scusa che potrei trovare per tanti esiti più o meno felici sarebbe questa: ognuno se vuol costruire deve costruire con i mattoni che ha, o con i mattoni che ci sono, no?, e i mattoni erano spesso quelli. Vabbe’, io ho commesso errori, tipo quando Franco Crespi[139] voleva venire – è stato mio assistente – voleva venire a Roma, forse avrei potuto chiamare lui invece che chiamare altri, insomma. Avevo anche questa specie di tendenza − glielo posso dire, in vena di confidenza −, questa specie di convinzione, cioè una tendenza pratica che corrispondeva a una convinzione teorica: che il rinnovamento dell’università dovesse passare anche attraverso il rinnovamento delle persone dal punto di vista esistenziale, cioè bisognava chiamare persone appartenenti a famiglie che non avessero avuto né universitari, né contatti forti. Per esempio Marcello Santoloni.[140] Ecco, poi naturalmente adesso, se mi consente una confidenza, visto che siamo su questo piano, a volte mi prende il rimorso che forse gli ho dato una cosa per lui avvelenata, cioè l’ho costretto a uno stress costante. Perché? Perché la cattedra universitaria gli andava un po’ larga, ecco. Credo, credo. Perché questa è una grossa responsabilità, uno può rovinare una persona dando una possibilità a questa persona, un posto eccessivo. Eccessivo, così come anche per Antiochia, appena sono riuscito a farlo diventare aggregato, professore ordinario, in fondo, come Santoloni, beh, nel momento in cui questo succede, l’ultima cosa che Santoloni… era la prefazione di questo libro su Acciarito,[141] no?, tutti e due si danno al bere. Sa, la cosa che mi fa pensare spesso, molto, soprattutto nel caso di Santoloni, così, voleva venirmi a trovare, non avevo mai tempo. Non avevo mai tempo anche perché capivo che, sa, l’uomo era già partito alle dieci di mattina, spesso. Cos’è questo se non l’angoscia di non potercela fare, di non (riuscire), il peso di una posizione di eccessiva responsabilità? Anche il fatto che coloro che hanno un passato accademico già in famiglia, oppure in strutture di studi, eccetera, sono poi proprio coloro che possono vivere quella vita. La vita intellettuale, proprio questo è un errore che ho fatto, in alcuni casi. Un altro tipo, come Viola.[142] Sì, è un bel gesto perché rinnova il mondo accademico portando dentro i sottoproletari, d’accordo, si può fare; però, però il prezzo poi da pagare – per loro, parlo di loro – è fortissimo, perché delle due l’una: o si danno alla bottiglia o si danno alla rivoluzione. Eh, insomma, sì. Fu al di fuori delle coordinate del discorso scientifico, cioè della communis opinio scientifica, vero?, … Non perché si debba stare dentro, si può stare al di fuori ma non ignoranti, cioè conoscenti, cioè si può stare al di fuori essendo invitati a entrare dentro, questo è. Lì invece no. Questo è stato. Ma la scelta strategica era quella dell’approccio malthusiano, restrittivo, oppure approccio aperto. Io ho seguito per istinto, perché non credo nella restrizione del commercio, non credo nell’oligopolio e tanto meno nel monopolio, ho seguito la seconda. Devo anche dire che c’è un’altra ragione. La ragione è che ero talmente sicuro della mia influenza, del mio potere, del mio primato, da pensare di non aver bisogno di avere un mio piccolo gruppo. Sarebbe bastata sempre solo la mia presenza. E questo naturalmente è sbagliato. È un errore… Se vuole un’analogia un po’ grossolana, in Francia lei consideri i due, diciamo, schemi di comportamento di Bourdieu[143] da una parte e Touraine[144] dall’altra. Touraine, grande parlatore, d’accordo, più anziano, eccetera, niente, finisce col nulla: ha parlato, parlato a studenti, poi ha smesso, niente. E Bourdieu, invece, piccolo gruppo, molto coeso, chiesuola quasi, no?, una setta, molto (coesa)…, eccetera, però Collège de France, grosso riconoscimento. Un altro è anche Crozier[145] che ha il suo piccolo gruppo, eccetera, su un altro piano. Touraine mica stupido, Touraine. Ma Touraine ha pensato in fondo come ho pensato io, seppure in condizioni diverse, … − loro avevano già Durkheim alle spalle −, ha pensato che in fondo sarebbe bastato il suo nome. Non basta. Se vuoi costruire, e infatti poi l’ho imparata questa lezione e bene o male adesso abbiamo, attraverso «La Critica»,[146] abbiamo questo gruppetto di collaboratori abbastanza abituali e anzi adesso vorrei fare una riunione di redazione un po’, diciamo de «La Critica», e lo dico già da parecchio, bisogna che la facciamo. E debbo dire, ecco, se non altro, intorno a un tema, per esempio il qualitativo, si va coagulando un’interessante cosa. Il qualitativo che non esclude il quantitativo ma lo mette al suo posto, eh, questo va sempre detto. E chi lo sa che fra alcuni anni si possa anche arrivare ad avere… Certo che è andata molto male se io penso a tipi come Viola, fatti venir lì, per avere Viola ho dovuto lottare contro tutta la Facoltà. Intendiamoci, con quali risultati? Tipi come Marcello Santoloni, tipi come Antiochia, son perdite gravi, perché è tutta gente che poteva ancora essere lì oggi. Eh, niente. Sono perdite insostituibili, eccetera. Per esempio Statera, invece, lui segue lo schema leninista, proprio, nell’organizzazione. Lui fa un’organizzazione piramidale…, è vero? La cosa che naturalmente lo limita è che non ha, è un uomo, un uomo d’organizzazione, un capitano, non ha il gusto della vita intellettuale. Non ha un problema, cioè ha il problema di guadagnare, ce l’abbiamo tutti evidentemente, ma insomma lui lo mette al di sopra.


RC: Senta, a proposito di, in tutto questo quadro, sta un po’ in ombra quello che potrebbe essere stato l’apporto di matrice cattolica, per esempio. Allora, Sturzo ritorna da Londra, Sturzo primi anni Quaranta, anni Cinquanta.


FF: Mah, no, io…


RC: Penso anche al rapporto…


FF: Devo dire, devo dire, dato che non ragiono mai in termini di steccato ideologico, mi riesce persino difficile, però mi è capitato, per esempio, di avere i rapporti con lo stesso Ardigò,[147] abbastanza buoni, al tempo di Cerveteri. I cattolici in quel momento (…) erano molto minoritari, molto minoritari.


RC: Perché diceva Cerveteri? Al tempo della ricerca?


FF: Sì della ricerca Tra vecchio e nuovo.[148] E così. Tipi che però hanno chiesto il mio aiuto, io glielo ho dato, Gianfranco Morra, Morra.[149]


RC: Che è un filosofo in sostanza.


FF: Sì, però…


RC: Ha una sola…


FF: …quando parla di cose così. E per esempio un’altra persona, così, all’epoca ancora legata era qui alla Pro Deo, era proprio Crespi, Crespi, ecco. Poi sto pensando, Padre Rosa[150] per esempio, per Trento. No, io non ho mai (…) poi tutto il gruppo di San Fedele,[151] perché io nel Cinquantaquattro andai lì per Olivetti[152] contro Angelo Costa,[153] che era presidente della Confindustria all’epoca, a fare una terribile polemica, perché Olivetti aveva accusato gli industriali italiani di essersi mangiati i fondi ERP,[154] che erano i fondi per la ricostruzione, il Piano Marshall. Questo, figurati!, andò su tutte le furie, no?, perché la cosa era uscita sui giornali americani e Olivetti mandò me a difendere… E diventai molto amico dei gesuiti, così come qui a Villa Malta[155] avevo degli ottimi amici, padre Caldiroli[156] e altri. Poi anche Messineo[157] avevo incontrato all’epoca, per sindacati e questioni sociali. Messineo con Caldiroli faceva… Io avevo pubblicato Il dilemma dei sindacati americani.[158] Però debbo dire che in linea di massima io non ho mai, beh, politicamente io ho avuto una stagione molto vicina, non solo a Cesare Pavese che era l’ala laica della Einaudi, ma Felice Balbo[159] del mondo cattolico. Ma i miei contatti coi cattolici sono sempre stati contatti con individui cattolici, per la verità. Con grande interesse, avendone sempre dei grandi stimoli. Anzi, devo dire, nel caso di Felice Balbo, noi eravamo così diversi eppure ci trovavamo in una consonanza meravigliosa, e debbo dire che anche il recupero del vissuto come espressione della persona è in fondo, può essere concepito come un riflesso di posizione cattolica. Perché io parlo proprio della persona, e questo è indubbiamente, non solo, ma è proprio il senso della morte. Il pensiero laico (…) è aperto, cioè non ha il senso proprio preciso della finitudine. Non l’accetta. Entrerebbe in crisi se l’accettasse, no? Quindi ecco, io, per esempio, ero riuscito, riuscivo ad avere simultaneamente un colloquio aperto con Felice Balbo e sull’altra sponda un colloquio, anzi un colloquio aperto con Nicola Abbagnano. Nicola Abbagnano, diciamo il greco, no?, l’epicureo nel senso classico, il sereno, diciamo, μηδὲν ἄγαν,[160] ne quid nimis, sempre. Eh? E Balbo, invece, così, alla ricerca. C’era sempre ciò con cui non potevo legare: era il giurista formalista. Il giurista formalista, direi che se c’è un’antifigura, no?, è proprio quella. Perché per me il giurista formalista è la negazione della sociologia. Perché è la vittoria della istituzione formale codificata, rispetto alla fluidità del sociale, rispetto alla società civile, rispetto…


RC: Ecco vorrei per un attimo ritornare a Sturzo. Cioè, in sostanza il suo peso è stato trascurabile.


FF: No, no, io a Sturzo ho dedicato, nel manuale della ERI[161] che la ERI adesso ha sepolto, una larga sezione. (…) Sturzo per me era importante nel senso che (…) riscopriva sempre la società civile, cioè homo quam res publica senior: la persona viene prima dello Stato. E questo secondo me è, se si vuole, l’anarchismo intrinseco, rispetto allo Stato, del pensiero cattolico; e da questo punto di vista anche il tardo Sturzo con quelle sue terribili polemiche contro gli enti di Stato. Sturzo mica è stato capito in pieno.


RC: Sturzo non ha esercitato…


FF: Sturzo, secondo me, vabbe’, però quel libro La società. Sua natura e leggi,[162] è vero?, è un bel libro, nel metro sociologico è un buon libro. Io ho letto attentamente Sturzo. Credo di avergli dedicato qualche pagina in una nelle ultime edizioni del manuale della ERI: Sociologia. Storia – Concetti – Metodi. No, il fatto è che non solo a Sturzo, che poi aveva avuto una giovinezza, vero?, di militante di primordine, era un grosso organizzatore politico, perché aveva un’esperienza di gruppi sociali nel loro farsi; era a Caltagirone, molto, al livello comunale; a livello comunale era temibile; era un vero grosso politico, uno dei grossi politici.


RC: Cioè, in sostanza, perché non fa presa soprattutto per quanto concerne la sociologia, c’è anche nell’area cattolica un’avversione ideologica.


FF: Oggi come oggi non voglio dare giudizi. Ne ho già dati anche troppi in questa conversazione, soprattutto appunto parlando di Lettere. Questi qui, i crociani, post-crociani, eccetera, i calogeriani. Ma nessun dubbio che i cattolici di oggi, secondo me, soffrono di strani complessi di inferiorità, non hanno piena fiducia in se stessi, nelle loro radici, nelle loro… Per esempio, io sono, lei l’ha visto, nella Teologia per atei[163] ci sono interi capitoli, per Maritain stesso, insomma, ci sono interi capitoli che sono, che, che sono assenti nei sociologi. Ma perché? Perché secondo me essendo arrivati un po’ tardi, non hanno digerito quel momento egemonico americano o sistematico anche luhmanniano per esempio, che in fondo, sì, può dire delle cose interessanti ma non più di tanto. Perché io sono sempre stupito del (fatto che), per esempio viene a parlare Niklas Luhmann,[164] Niklas Luhmann è diventato una sorta di, cioè si passa prima da Harvard, poi Habermas, poi Luhmann, poi tutto, Parsons come scusa. Se tu leggi, se uno legge attentamente quel libro di Sturzo: La società. Sua natura e leggi, non voglio dire che ci sia il sistema sociale di Parsons ma c’è un senso storico e sistematico nello stesso tempo, direi quasi il sistema come contrazione, proprio, sintesi, vero?, del momento storico che sarebbe straordinariamente utile esplicitarlo, ma, strano, (…) non viene fatto, non viene. E non solo, ma anche l’esigenza, per esempio, del decentramento, l’esigenza della democrazia di base, l’esigenza dei gruppi sociali contro le istituzioni formali, in Sturzo è fortissima. Le sue prime pubblicazioni credo sono in difesa della libertà comunale. Le posso dire una cosa? C’è molta ignoranza. Purtroppo, forse siamo tutti troppo occupati; troppe riunioni, troppe lezioni e troppe ricerche, troppe faccende, sa. Io poi per esempio, lei prenda un uomo come Ardigò, che è un uomo certamente intelligente: eh, la cotta che sembra essersi presa per Niklas Luhmann, per me, non è concepibile, non è concepibile! Ma non è solo, lei pensi a Messedaglia,[165] pensi a tutti quei sociologi – non mi viene il nome, ma sono parecchi – che durante il fascismo, cioè la corrente, non è solo Toniolo,[166] ma la corrente, chiamiamola sociologica-cattolica, forse proprio in virtù del suo essere cattolica riuscì a sopravvivere, anche durante il fascismo; e non è stata una delle ultime cause di quella perenne fronda antifascista che animava l’Azione Cattolica. È sempre stata la riserva notevole, anzi, a volte notevole. Non lo so. Le debbo confessare che sono, è una domanda questa, per quanto mi riguarda, io credo, siccome non ho diciamo tabù, veti ideologici, per me il pensiero sociologico elaborato da cattolici ha eguale dignità, anzi spesso è più utile, prova ne siano i nomi, vero?, prova ne siano i nomi che ho citato. Ma quello che mi stupisce molto nei sociologi diciamo cattolici, di area cattolica italiani, è questo incredibile sbavare verso gli ultimi esiti, più recenti poi, esiti, vero?, della sociologia o americana o tedesca o francese; basta vedere anche un po’ «Studi di sociologia».[167] Ho una sola spiegazione, che non è di tipo scientifico, ma psicologico: che ci sia quasi il bisogno, attraverso questa sorta di avanguardismo, diciamo di ostensione di informazione, di far capire che si tratta sì di cattolici, ma non per questo di cattolici in sacrestia. Insomma, di cattolici aggiornati. E il fatto di essere cattolico non vuol dire in fondo, appunto, di essere fermi a Toniolo. Ma in questo modo però intanto si trascurano in fondo le proprie radici. Per esempio, che spiegazione dare del fatto che a un certo punto Ardigò, per esempio, esce anche lì nel discorso (…) sulla legge finanziaria e societaria, eccetera? Insomma, c’è questa, questa teoria dei sistemi,[168] eccetera, tra l’altro non sempre intesa correttamente. Io non posso dar la certezza, cioè, far vedere che: «Noi siamo cattolici, ma badate non siamo in sacrestia, siamo più in là» (…) Non, non può. Cioè una sorta di pudore per cui non si fa riferimento alla tradizione del pensiero sociologico cattolico, perché essendo cattolici bisogna dimostrare di conoscere anche il pensiero degli altri, essere cattolici più, un po’ come i cattolici marxisti, perché sono marxisti, eh, più hanno anche il Vangelo. Poi così: «Ci abbiamo una cosa in più». Cioè sono i marxisti col più. E loro sono cattolici, sono sociologi col più. Sono cattolici col più! Ma questa, può darsi che questa sia una spiegazione. Certo lei mi pone una domanda imbarazzante.


RC: No, perché vedo una strana coincidenza, cioè uno iato dopo gli anni ’10: trionfa il positivismo, però c’è il sopravanzare dell’idealismo romantico, interruzione dell’interesse sociologico come fatto diffuso.


FF: Certo.


RC: Lei parla di una continuità della sociologia soprattutto di stampo cattolico anche durante il fascismo, una…


FF: C’è, c’è. Anzi è la sola corrente che si salva. Perché il positivismo diventa mentalità media comune. No? Croce sbaraglia completamente le cose. E Gentile come ministro della Pubblica Istruzione. Non c’è più una catechesi. Oggi si dice essere di moda. C’è uno a Pisa, mi ricordo, Pogliano,[169] credo si chiami, un professore: «Ah, quelli che dicono che la sociologia è stata venduta agli idealisti, non è vero, perché in fondo il positivismo…». Sì, il positivismo è vero che è diventato, diciamo, mentalità comune, la gente è più fattuale, (…) è diventato costume. Oh, però, una cultura è fatta anche degli strumenti di questa cultura. Vai a vedere le cattedre: tutte soppresse, cacciate via, mancate, impedite. A un certo punto Croce e Gentile han dominato veramente la scena per quarant’anni, aiutati indirettamente dal fascismo, uno perché era fascista e l’altro perché antifascista. Però siccome non c’era altro, «La Critica»[170] diventava la grande rivista dove tu potevi prendere una boccata d’ossigeno. Tutto lì. Intere correnti di pensiero. Ora in tutto questo, questo panorama, i cattolici, il pensiero sociologico cattolico, secondo me, che aveva, aveva una sua, una sua extraterritorialità. Perché? Perché in fondo era un pensiero con radici storiche saldissime. Che però non è stato, a mio giudizio, non è stato sfruttato, non è … Bene o male i conti con chi son stati fatti? Io credo di averli fatti. Per questo la cattedra poi è stata data ed è stata data a me, perché c’è stata una battaglia culturale. Io a Croce, quando lui stroncò, il 15 gennaio 1949 nel «Corriere della sera», La teoria della classe agiata e accusò Veblen della più completa ottusità nel cogliere il carattere storico dei fatti, io risposi duramente nella «Rivista di filosofia» con due articoli e addirittura scrissi a «Critica economica»[171] diretta da Antonio Pesenti[172] – che è morto – scrissi una lettera, no?, con cui dicevo … Il direttore e poi un certo Vittorio Angiolini, che era il capo redattore, fecero una risposta a me, alla mia lettera che pur pubblicarono, dicendo: «Mah, ci dicono che costui sia il traduttore dell’opera. Ma come si permette questo» – non diceva proprio così, ma il, diciamo, senso era questo – «presuntuoso saputello?» Vero? Così, eh! Questi erano marxisti, erano d’accordo con Croce, contro (di me). Io, per carità, avevo vent’anni, quindi probabilmente non misuravo le parole, avevo mandato una lettera certamente dal tono arrogante, però la battaglia, cioè i conti son stati fatti, io ho cercato di farli, nel mio piccolo; e continuo a farli.[173] Adesso i conti bisogna farli con i quantitativisti, però dopo aver vinto quella battaglia, insomma. Ecco, io ho l’impressione che i sociologi cattolici, in Italia, non facciano il loro dovere, se si può parlare di un dovere in questi casi. Cioè non fanno né i conti critici con la loro tradizione, né l’accettano in blocco questa tradizione. Cosa fanno? La ignorano.


RC: Ardigò per esempio non cita mai Sturzo, nemmeno in chiave critica, come se non esistesse. Ecco perché dicevo c’è questo iato da prima degli anni Dieci e poi in sostanza dopo gli anni Cinquanta. Cioè, una presenza cattolica nel campo della sociologia comincia ad affacciarsi molto tardi, alla fine degli anni Sessanta, gli inizi degli anni Settanta. In precedenza, voglio dire, è come se non fosse esistito nulla,


FF: Non c’è dubbio.


RC: Nonostante la Cattolica di Milano, che pure aveva dei riferimenti di sociologia.


FF: Sono perfettamente d’accordo. Sono perfettamente d’accordo. È difficile dire.


RC: Cioè, mi domando: può essere stata una sorta di ipoteca filosofica rispetto allo sviluppo della sociologia a impedire che ci fosse un ruolo di peso, dei cattolici all’interno di,


FF: Certo.


RC: delle discipline di scienze sociali?


FF: Certo che nella prima commissione, nella commissione giudicatrice del primo concorso, del mio concorso, è vero?, lì di cattolici in senso pieno c’era Francesco Vito, il Rettore della Cattolica e presidente, per età, della commissione.


RC: Quale fu il suo atteggiamento?


FF: Vito, che io conoscevo, a parte l’economia, faceva un certo tipo di politica economica, economia politica, e per quanto concerneva proprio il pensiero sociologico non arrivava mai al piano critico della discussione. Era un bravo economista, informato, Francesco Vito, degno, vero?, ma più che mai un amministratore. E poi, no?, se uno pensa che c’è una rivista, ce ne sono altre due, con quella dello Sturzo,[174] eccetera… Devo anche dire che (…) io vedrei con grande favore una ripresa critica del pensiero di Sturzo, perché secondo me ci sono delle cose da imparare. Importanti. Ma non mi pare che andiamo in quella direzione. Cioè, poi, chi sono i sociologi diciamo cattolici oggi in Italia? Sono maggioranza; una volta erano minoranza, ma quando erano minoranza, stranamente, erano più visibili. Adesso così, per esempio Ardigò, gli altri sono passati, il gruppo di Bologna, [dicono cose da ridere]. Qui adesso c’è la LUISS,[175] non hanno più tanto. Tuttavia in sostanza i gruppi non contano per i numeri, vero?, per la quantità delle persone, eccetera, contano per le idee. Non vedo le idee. Non le vedo proprio. Per esempio consideri anche tutta questa crisi dello stato del benessere. Sa, in fondo Ardigò è molto preso dalla questione sanitaria, è chiaro, ma è una questione già applicativa, non lo so. (…) Per esempio, il modo con cui s’è buttato su questi ‘mondi vitali’,[176] secondo me, teoricamente non, insomma, io torno sempre alla mia idea: laici e cattolici, i sociologi in generale in questo paese studiano troppo poco, hanno prospettive limitate, scarsa originalità, ripetono. Molta di questa sociologia è derivativa. Derivativa. Sa, sempre in attesa di un profeta: o Parsons[177] o Lazarsfeld[178] o Habermas[179] o Luhmann.


RC: I francesi ci rimproverano di tradurre troppo.


FF: Sì, infatti, io sono…


RC: Loro esagerano per un altro verso però.


FF: No, no. Io credo, per esempio, che tra le due situazioni meglio forse la nostra. Però il fatto che si traduca, si butta sul mercato. È venuto a trovarmi un rappresentante de il Mulino l’altro giorno. Appunto, a getto continuo, questi testi, anche dei manuali, ma senza una riga di introduzione, di acclimatazione al nostro, ai nostri problemi. A me sembra incredibile. Ma come è possibile? Ma è una cosa incredibile! Persino quella di Berger,[180] di lui e della moglie,[181] così[182]. Ma come è possibile? Cioè, oltretutto vuol dire avere un certo disprezzo (…) Mi dispiace che questa chiacchierata è stata un po’ disordinata, però la pregherei di prendere quella recensione, quelle due prefazioni, più anche quella di, quella io gliela voglio dare, più anche quelle due che ci sono, tre del Max Weber e il destino della ragione,[183] quelle nuove edizioni. Quelli sono elementi molto personali. Io mi sfogo sempre nelle prefazioni, è una vecchia abitudine.


RC: No, comunque, eh, sicuramente questa chiacchierata servirà per questo saggio che devo preparare per i rapporti tra filosofia e sociologia[184] in Italia, però, però penso di utilizzarla poi anche in vista di questo volume.


FF: Certo. Certo. Ma in generale, no? E poi, sì, proprio, quando poi si tratta dei rapporti in senso stretto tra sociologia e filosofia ci son molte cose da dire e bisogna interrogarsi su quale filosofia dava un minimo di apertura alla sociologia. La caduta, a Lettere, di sociologia è tutto sommato – forse appare scandaloso (…) ma è anche molto coerente. Con un tipo di filosofia neo-crociana, o impostazione, oppure puramente storico-evolutiva come (quella di) Gregory, non c’è dubbio che la sociologia è un bruscolo nell’occhio, non è tollerabile.


RC: Però voglio dire, un uomo come Calogero, sostenitore della filosofia del dialogo, voglio dire che il suo atteggiamento antisociologico era una negazione del suo stesso pensiero, tutto sommato.


FF: In un certo senso sì, però, però è anche una concorrenza del suo pensiero.


RC: Sì, il dialogo. Poi allora dice: «Il dialogo lo dico io come va fatto».


FF: Questo è molto, e poi devo anche dire, ci sono appunto, anche lì, io sono colpito degli stereotipi che continuano a vagare, no?, come rari nantes in gurgite vasto che (non) sono legati a nulla delle immagini della sociologia. Quando un uomo come il buon Spirito diceva, buonanima, «La sociologia non può esistere». Vabbe’, che cosa aveva in mente? Questo è un po’… E così, anche, se mi è permesso, Calogero, anche Gregory e così anche gli altri. Cioè, io, per carità, non voglio mica dire che la gente sia costretta a leggere sociologia − che oltretutto i sociologi scrivono male −, però, quel tanto di umiltà per informarsi sulle cose che si criticano, no?, anzi sulle cose di cui si nega l’esistenza mi sembra…


RC: Però c’è anche questo, in sostanza c’è stato un decennio, forse due, durante i quali la sociologia è stata in buona misura gestita da filosofi. Per esempio, uno come Felice Battaglia,[185] chi era?


FF: Ah no, ma Battaglia per la verità io lo ricordo molto bene. All’epoca però non è che avesse avuto mai una forte influenza. La sola persona che ha avuto influenza forte, perché è stato un preside di tipo organizzativo oltretutto, è stato Treves, che però fungeva da vice di Bobbio. Questa è stata, è una cosa cui ancora sto pensando. Cioè, è stata una manovra elegante di cooptazione. Il pensiero crociano più avanzato, riconosciuta la legittimità di queste scienze di osservazione, si è preoccupato affinché l’osservazione avvenisse secondo determinate regole, che dettero certi altri (risultati). Questo è.


RC: Però, voglio dire, Battaglia è uno che ha gestito l’Istituto Sturzo per molti anni, per esempio.


RC: No, no. Battaglia era, secondo me, io ricordo, con molto, molto interesse questa sua filosofia del lavoro, le sue cose, anche questo volume…[186] Però Battaglia, Bologna, Rettore, eccetera, sì, ma poi il momento più alto fu quando rischiò di essere ministro della Pubblica Istruzione. Lo mandarono a cercare. Lui partì da Bologna convinto di essere ministro e arrivò a Roma e non lo era più. Capito lo scherzo un po’ da prete che gli han fatto? Comunque poi subito dopo morì. Battaglia, però, così come lo posso io ricordare, non, non aveva, non ha mai avuto una, un vero impact filosofico-concettuale. Era, questo volume, di cui io ricordo molto bene per aver letto attentamente, era però un catalogo ragionato delle varie concezioni del lavoro. Questo era, non c’è un pensiero filosofico. Il pensiero robusto non c’era. Io devo dire una cosa: non capisco bene l’Istituto Sturzo. Invece di fare tutte queste cose benemerite che fa, oltretutto molto importanti, ma non si dà da, un po’ da fare per conoscere di più Sturzo.


RC: Ma lo ha fatto sul versante storico.


FF: Beh, no. Ma Sturzo, Sturzo è un sociologo. Per esempio, un convegno, beh sì, ma l’attualità della sociologia di Sturzo. Si vadano a prendere i libri e si legga e lì c’è cosa leggere e si vede cosa è applicabile oggi. Voglio vedere. Io parlo di società policentrica. Parlo contro l’equazione tra pubblico e statale, lì c’è tutto. E non è un caso che uno che nasce alla politica sul piano locale è un prete, nasce sul piano locale. Un grosso personaggio. Sa, c’è Franco Rizzo[187] da noi, che è matto, però, abbiamo, però m’ha detto delle cose. Abbiamo discusso anni e anni fa, mi riferisco a molti anni fa, quando io ero deputato e lui era al seguito di Fiorentino Sullo[188] e lui aveva, si era un po’ interessato, in maniera un po’ autodidattica. No, insomma, chi sono i grandi sociologi – laici più o meno lo sappiamo – i grandi sociologi della tradizione cattolica in Italia chi sono? In Italia? Lasciamo stare, non so, i belgi, (…) i francesi, potremmo citare Leclercq,[189] altri, che so? Ma i sociologi cattolici, proprio, in Italia: uno, c’è monsignor Olgiati,[190] vabbe’, è più un educatore, poi non è più filosofo; c’è, certo Toniolo; poi bisognerebbe scavare in tutti questi, Messedaglia, mi sembra, (…) Igino Petrone,[191] un altro importante, Petrone. Ma non si capisce mai bene: spesso sono medici, altre volte sono biologi, no?, così. Sturzo secondo me resta l’unico nome. Tra l’altro poi, questi, questi rinnegamenti della propria tradizione secondo me sono proprio, si mutano in veleno, sa (…) indeboliscono moltissimo. Infatti, secondo me, una volta era minoranza sparuta, la pattuglia dei cattolici. Adesso invece è molto cresciuta di numero, ma non di peso. Numero, sì, possono avere delle cattedre. Comunque, questa, questa è una questione aperta per tutti i sociologi, non solo per i cattolici. È la perdita della propria coscienza storica. Questo è, io lo vedo, lo vedo per i cattolici e lo vedo anche però per, lo vedo molto duramente, con preoccupazione crescente anche per i cosiddetti laici; lo vedo per i sociologi in generale. Cioè, il fatto cattolico, seconde me, non è che una fattispecie confermante, è vero? (…) E questo perché non si ritiene più o non si ritiene affatto che i concetti di cui si serve la sociologia siano concetti storici, cioè storicamente maturati. C’è ormai, (…) indubbiamente, c’è una grossa crisi dello storicismo, anzi lo storicismo è finito, siamo entrati nell’età sincronica. La sistematica, l’impostazione sistemica aiuta a capire le interdipendenze funzionali fra le diverse variabili. È tutto sullo stesso piano, quindi un enorme presente, non c’è più passato. Va bene. Questo può essere comodo, ma non è vero, perché noi, anche per capire questa interdipendenza funzionale, abbiamo bisogno di… E poi c’è un problema d’identità perché, o si cancella tutto, (…) ma gli stessi problemi poi emergono solo storicamente, sono significativi in base al retroterra storico… Da che cosa è derivato questo? Secondo me è derivato da un fatto solo: che, se tu fai valere la tua coscienza storica, sei costretto a fare certe ricerche ma a rifiutarne altre. Se tu vuoi fare tutte le ricerche che ti dà il mercato, allora tu riconosci nel mercato il solo fondamento storico e giustificativo di quello che fai. Allora tu fai, c’è la crisi della sanità, la riforma della sanità, e fai la sociologia sanitaria; c’è la crisi delle banche, fai la sociologia bancaria; c’è la crisi della pubblica amministrazione, fai la…; c’è la crisi dei partiti e fai la sociologia dei partiti. Cioè, non è più un disegno. Io rimprovero oggi ai cattolici, ma anche ai laici, ai sociologi in generale, rimprovero la mancanza di un disegno. Ma il disegno, tuo, autonomo, può venirti solo da una considerazione critica delle tue radici, delle tue basi di partenza. Hanno venduto questo loro diritto fondamentale per un piatto di lenticchie. Magari invece che un piatto di lenticchie ci sarà anche, che so io, l’antipasto, il secondo piatto, non lo so, non mi interessa la quantità. Il fatto è che questo è. Io dal tempo de La sociologia alternativa[192] – chiaramente era un libro polemico, per certi aspetti anche sbagliato – debbo però dire che ancor oggi in America, qui, ovunque, siccome la nostra disciplina è una scienza d’osservazione che ha una valenza teorica, ma anche una valenza pratica organizzativa che costa, quindi è una scienza per svilupparsi e per svilupparsi ha bisogno di soldi, eccetera. A un certo punto il finanziamento diventa la struttura teoretica portante! E beh, accidenti, allora! Purtroppo, lei lo sa, lì c’è l’università che dovrebbe garantire, che dovrebbe garantire un finanziamento libero, in modo da non essere condizionati.



[1]Intervista di Roberto Cipriani a Franco Ferrarotti su filosofia e sociologia (Roma, 13 febbraio 1986). Trascrizione di Stefano Delli Poggi.


[2] Thorstein Veblen (1857-1929), economista e sociologo statunitense.


[3] Introduzione, prefazione e cura di Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata, Torino, UTET, 1949 (ed. or., The Theory of Leisure Class, London, Allen & Unwin, 1924).


[4] Benedetto Croce (1866-1952), filosofo e storico.


[5] Giovanni Gentile (1875-1944), filosofo.


[6] Arrigo Bordin (1898-1963), economista.


[7] Francesco Forte (1929-), economista e politico.


[8] Alfredo Niceforo (1876-1960), statistico e criminologo.


[9] Enrico Ferri (1856-1929), criminologo e politico.


[10] Scipio Sighele (1868-1913), criminologo e psicologo.


[11] Franco Rodolfo Savorgnan (1879-1963), statistico e demografo.


[12] Rodolfo Benini (1862-1956), statistico ed economista.


[13] Alessandro Groppali (1874-1959), filosofo e sociologo, autore di Alessandro Groppali, Elementi di sociologia, Genova, Libreria Moderna, 1905.


[14] Nicola Abbagnano (1901-1990), filosofo.


[15] Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, storico e politico.


[16] Augusto Guzzo (1894-1986), filosofo.


[17] Alessandro Pizzorno (1924-), sociologo.


[18] Antonio Aliotta (1881-1964), filosofo.


[19] Giuseppe Rensi (1871-1941), filosofo.


[20] Torino, Paravia, 1939.


[21] Nicola Abbagnano, Le sorgenti irrazionali del pensiero, Genova-Napoli-Firenze-Città di Castello, Società Anonima Editrice Francesco Perrella, 1923.


[22] Martin Heidegger (1889-1976), filosofo tedesco.


[23] Gabriel-Honoré Marcel (1889-1973), filosofo francese.


[24] Louis Lavelle (1883-1951), filosofo francese.


[25] Paris, Aubier, 1936.


[26] Soren Kierkegaard (1813-1855), filosofo danese.


[27] Soren Kierkegaard, Il concetto dellangoscia, Milano, Bocca, 1941; Milano, Sansoni, 1966 (ed. or., 1844).


[28] György Lukács (1885-1971), filosofo ungherese.


[29] Rensis Lickert (1903-1981), psicologo statunitense.


[30] William Lloyd Warner (1898-1970), sociologo e antropologo statunitense.


[31] Samuel A. Stouffer (1900-1960), sociologo statunitense.


[32] Samuel A. Stouffer, Edward A. Suchman, Leland C. DeVinney, Shirley A. Star, Robin M. Williams, Jr., Studies in Social Psychology in World War II, vol. I, The American Soldier: Adjustment during Army Life, Princeton, Princeton University Press, 1949. Samuel A. Stouffer, Arthur A. Lumsdaine, Marion Harper Lumsdaine, Robin M. Williams, Jr., M. Brewster Smith, Irving L. Janis, Shirley A. Star, Leonard S. Cottrell, Jr., Studies in Social Psychology in World War II, vol. II, The American Soldier: Combat and Its Aftermath, Princeton, Princeton University Press, 1949.


[33] Jean-Paul Sartre (1905-1980), filosofo francese.


[34] Società Autonoma Torinese Tranvie Intercomunali.


[35] René Descartes (1596-1650), filosofo e matematico francese.


[36] René Descartes, Discorso sul metodo, Napoli, Loffredo, 1937 (ed. or., 1637).


[37] Edmund Husserl (1859-1938, filosofo tedesco); cfr. Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, Roma, Armando, 1999 (ed. or., 1931).


[38] Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), filosofo tedesco.


[39] Franco Ferrarotti, La protesta operaia, Milano, Comunità, 1955.


[40] Paolo Spriano (1925-1988), storico.


[41] Franco Rodano (1920-1983), filosofo e politico.


[42] Enrico Pozzi (1946-), sociologo e psicoanalista.


[43] Alessandro Portelli (1942-), storico ed anglista.


[44] Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni, 1830-1985, Torino, Einaudi, 1985.


[45] Centro per l’Educazione degli Assistenti Sociali, fondato nel 1946 e trasformato nel 1966 in Scuola Speciale di Assistenza Sociale e Ricerca per le Scienze Morali e Sociali e poi nel 1971 in Scuola diretta a fini speciali nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.


[46] Guido de Ruggiero (1888-1948), filosofo.


[47] Luigi Pirandello (1867-1936), scrittore e drammaturgo, premio Nobel per la letteratura nel 1934.


[48] Antonio Labriola (1843-1904), filosofo.


[49] Franco Lombardi (1906-1989), filosofo.


[50] Filippo Barbano (1922-2011), sociologo.


[51] Camillo Pellizzi (1896-1979), saggista e sociologo.


[52] Francesco Vito (1902-1968), economista.


[53] Renato Treves (1907-1992), filosofo e sociologo.


[54] Angelo Pagani (1918-1972), sociologo.


[55] Natalia Ginzburg (1916-1991), scrittrice.


[56] Cesare Pavese (1908-1950), scrittore.


[57] Torino, Taylor.


[58] Nel 1978 dopo un incendio in Grecia in effetti è stata messa in disarmo. Dal 1927 al 1937 era stata usata dalle Matson Lines con il nome di Malolo, cambiato poi in Matsonia nel 1937. Acquistata dalle Home Lines nel 1948 era stata ridenominata Atlantic. Nel 1954 era passata alla National Hellenic American Line (collegata alle Home Lines) ed intitolata Queen Federica. Era stata acquistata dalle Chandris Lines greche nel 1965. Ormeggiata nel fiume Dart all’inizio degli anni Settanta, era stata noleggiata nel 1973 dalle Sun Cruises.


[59] Alessandro Cavalli (1939-), sociologo.


[60] Luciano Gallino (1927-), sociologo.


[61] Francesco Piccolo (1892-1970), filologo romanzo.


[62] Paolo Filiasi Carcano (1911-1977), filosofo.


[63] Pietro Prini (1915-2008), filosofo.


[64] Giorgio Petrocchi (1921-1989), critico, filologo e storico della letteratura italiana.


[65] Gaetano Mariani (1923-1983), critico e storico della letteratura italiana.


[66] Umberto Bosco (1900-1987), critico, filologo e storico della letteratura italiana.


[67] Luigi Volpicelli (1900-1983), pedagogista.


[68] Giuseppe Caraci (1893-1971), geografo.


[69] Enzo Vincenzo Marmorale (1907-2000), latinista.


[70] Corrado Antiochia (1914-1999), sociologo.


[71] Martino Ancona (1923-1992), sociologo.


[72] Si allude qui al fatto che Antiochia non divenne ordinario.


[73] Istituto Mobiliare Italiano, ente di diritto pubblico per il credito industriale.


[74] Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), sindacalista della Confederazione Generale Italiana del Lavoro.


[75] Renato Bitossi (1899-1969), sindacalista della Confederazione Generale Italiana del Lavoro.


[76] Gianni Statera (1943-1999), sociologo.


[77] Gaetano Floridi, originario di Guarcino (Frosinone), direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione.


[78] Sergio Cotta (1920-2007), filosofo.


[79] Norberto Bobbio (1909-2004), filosofo.


[80] Cesare Musatti (1897-1989), psicologo e psicoanalista.


[81] Agostino Gemelli (1878-1959), religioso francescano, medico e psicologo.


[82] Franco Ferrarotti, Macchina e uomo nella societàindustriale, Torino, ERI, 1963.


[83] Trasmissione radiofonica settimanale iniziata il 25 aprile 1946 e proseguita fino al 31 ottobre 1990.


[84] Via Appennini 42, a Roma.


[85] Nicola Abbagnano, Storia della filosofica, Torino, UTET, 1946; 1948; 1950; 1963.


[86] Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1961.


[87] Affoganti, cioè affossatori.


[88] Fondato a Milano nel 1948 da Adolfo Beria di Argentine (1920-2000), giurista, magistrato e giornalista.


[89] Associazione Italiana di Scienze Sociali, fondata a Bologna nel 1957 ed attraversata da alterne vicende fino a quando nel 1971 un tentativo di ricostituzione fallì per una contestazione da parte dei sociologi più giovani. Il 5 aprile 1982 nacque l’Associazione Italiana di Sociologia.


[90] Palmiro Togliatti (1893-1964), politico.


[91] Rodrigo di Castiglia, conte di Castiglia (pseudonimo usato da Palmiro Togliatti sulla rivista «Rinascita»).


[92] Norberto Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955.


[93] Raffaele D’Addario (1899-1974), statistico.


[94] Salvatore Valitutti (1907-1992), politico e docente di Dottrina dello Stato.


[95] Carlo Mongardini (1938-), sociologo.


[96] Giuseppe Medici (1907-2000), economista e politico.


[97] Aldo Moro (1916-1978), politico e docente di Diritto e procedura penale.


[98] Carlo Marzano, ragioniere generale dello Stato dal 1956 al 1967.


[99] Mario Toscano (1908-1968), storico e diplomatico.


[100] Franco Valsecchi (1903-1991), storico.


[101] Vittorio Somenzi (1918-2003), filosofo.


[102] Gaetano Calabrò (1926-), filosofo.


[103] Ugo Spirito (1996-1979), filosofo.


[104] Carlo Antoni (1896-1959), filosofo e storico.


[105] Riccardo Lombardi (1901-1984), politico.


[106] Franco Ferrarotti, Sociologia e realtàsociale, Roma, Opere nuove, 1958.


[107] Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), critico e storico dell’arte.


[108] Mensile di cultura, società e politica, pubblicato dal gennaio 1957 al maggio-giugno 1958, per un totale di 15 numeri.


[109] Guido Calogero (1904-1986), filosofo.


[110] Gennaro Sasso (1928-), filosofo.


[111] Raffaello Morghen (1896-1983), storico.


[112] Francesco Gabrieli (1904-1996), arabista.


[113] Santo Mazzarino (1916-1987), storico.


[114] Lucio Colletti (1924-2001), filosofo.


[115] «Rassegna Italiana di Sociologia», fondata da Camillo Pellizzi nel 1960.


[116] Marcello Boldrini (1890-1966), statistico.


[117] Ente Nazionale Idrocarburi, nato nel 1953 e presieduto da Enrico Mattei (1906-1962), imprenditore.


[118] Francesco Alberoni (1929-), sociologo.


[119] Beniamino Andreatta (1928-2007), economista e politico.


[120] Fondata nel 1881 da Ruggero Bonghi, soppressa nel 1936, ripresa da Guido Calogero nel 1963 e diretta da Gennaro Sasso dal 1987.


[121] Gianni Statera, La conoscenza sociologica. Aspetti e problemi, Napoli, Liguori, 1970; edizione ampliata, La conoscenza sociologica. Problemi e metodo, Napoli, Liguori, 1974.


[122] Simonetta Piccone Stella (1935-), sociologa.


[123] Francesco De Domenico (1943-), sociologo e dirigente RAI.


[124] Achille Pacitti (1940-), sociologo.


[125] Vittorio Statera (1909-1987), giornalista e collaboratore del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.


[126] Gianni Statera, Logica, linguaggio e sociologia. Studio su Otto Neurath e il neopositivismo, Torino, Taylor, 1967.


[127] Franco Bianco (1932-2006), filosofo.


[128] Vittorio Lanternari (1918-2010), etnologo.


[129] Tullio Tentori (1920-2003), antropologo culturale.


[130] Gérard Lütte (1929-), psicologo.


[131] Rosario Romeo (1924-1987), storico.


[132] Tullio Gregory (1929-), filosofo.


[133] Nicolao Merker (1931-), filosofo.


[134] Aldo Visalberghi (1919-2007), pedagogista.


[135] John Dewey (1859-1952); cfr. John Dewey, Logic: the Theory of Inquiry, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1938; trad. it., Logica, teoria dellindagine, Torino, Einaudi, 1949.


[136] Individuazione e Assistenza Ragazzi Dotati, associazione nata a Milano nel 1961.


[137] Sabino Samele Acquaviva (1927-), sociologo.


[138] Alberto Izzo (1933-2014), sociologo.


[139] Franco Crespi (1930-), sociologo.


[140] Marcello Santoloni (1934-1985), sociologo.


[141] Pietro Acciarito (1871-1943), anarchico che tentò di pugnalare Umberto I il 22 aprile 1897 a Napoli e fu condannato all’ergastolo.


[142] Filippo Viola (1933-), sociologo.


[143] Pierre Bourdieu (1930-2002), sociologo.


[144] Alain Touraine (1925-), sociologo.


[145] Michel Crozier (1922-2013), sociologo.


[146] «La critica sociologica», fondata da Franco Ferrarotti nel 1967.


[147] Achille Ardigò (1921-2008), sociologo.


[148] Achille Ardigò, Cerveteri tra vecchio e nuovo: note sui cambiamenti di struttura sociale in un comune rurale arretrato nei primi anni della riforma fondiaria, Bologna, Centro Studi Sociali e Amministrativi, 1958.


[149] Gianfranco Morra (1930-), sociologo.


[150] Padre Luigi Rosa (1920-1980), gesuita e fautore della fondazione della Libera Università di Trento.


[151] Centro Studi Sociali di Milano, noto come ‘Centro Culturale San Fedele’ e ‘Fondazione Culturale San Fedele’ della Comunità Gesuiti, che pubblica la rivista «Aggiornamenti Sociali», nata nel 1950.


[152] Adriano Olivetti (1901-1960), imprenditore.


[153] Angelo Costa (1901-1976), imprenditore.


[154] European Ricovery Program, che prevedeva un finanziamento di oltre 17 miliardi di dollari statunitensi in 4 anni.


[155] A Roma, in via di Porta Pinciana 1, sede della rivista dei gesuiti «La Civiltà Cattolica», fondata a Napoli nel 1850.


[156] Padre Luciano Caldiroli (1916-), gesuita.


[157] Padre Antonio Messineo (1897-1978), gesuita.


[158] Franco Ferrarotti, Il dilemma dei sindacati americani, Milano, Comunità, 1954; edizione ampliata, Sindacati e potere negli Stati Uniti dAmerica, Milano, Comunità, 1961.


[159] Felice Balbo (1914-1964), filosofo e scrittore.


[160] Medèágan: niente di troppo.


[161] Franco Ferrarotti, La sociologia. Storia – Concetti – Metodi, Torino, ERI, 1961.


[162] Luigi Sturzo, La società. Sua natura e leggi. Sociologia storicista, originale in lingua francese, 1935; prima serie, vol. I, in Opera Omnia, Milano-Bergamo, Atlas, 1949; prima serie, opere, vol. 3, in Opera omnia di Luigi Sturzo,Bologna, Zanichelli, 1960.


[163] Franco Ferrarotti, Una teologia per atei. La religione perenne, Roma-Bari, Laterza, 1983.


[164] Niklas Luhmann (1927-1998), sociologo tedesco.


[165] Angelo Messedaglia (1876-1960), statistico e sociologo.


[166] Giuseppe Toniolo (1845-1918), economista e sociologo.


[167] Rivista fondata nel 1962 e pubblicata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.


[168] Il riferimento è alla teoria luhmanniana.


[169] Claudio Pogliano (1953-), storico. Il riferimento è al suo capitolo, il 23, Claudio Pogliano, Nuovi temi e interpretazioni del positivismo, in Il positivismo nella cultura italiana tra Otto e Novecento, a cura di Emilio R. Papa, Milano, Franco Angeli, 1985, prefazione di Norberto Bobbio e saggi, tra gli altri, di Filippo Barbano, Luciano Gallino, Giorgio Sola, Renato Treves.


[170] Rivista di letteratura, storia e filosofia, fondata nel 1903 e diretta da Benedetto Croce fino al 1944 (Giovanni Gentile ne fu condirettore fino al 1923).


[171] Fondata da Antonio Pesenti nel 1945.


[172] Antonio Pesenti (1910-1973), economista e politico.


[173] Per una rivisitazione più recente della questione si rinvia a Tiziana Foresti, Ancora sulla Teoria della classe agiata di Thorstein B. Veblen: intervista a Franco Ferrarotti sul dibattito italiano del 1949, «Studi e Note di Economia», XVI, 2, 2011, pp. 273-281.


[174] Fondato a Roma nel 1951.


[175] Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, già nota come ‘Pro Deo’ (fondata da Padre Andrew Félix Morlion, domenicano belga, 1904-1987), a Roma.


[176] Achille Ardigò, Crisi di governabilitàe mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980.


[177] Talcott Parsons (1902-1979), sociologo statunitense.


[178] Paul Felix Lazarsfeld (1901-1976), sociologo statunitense.


[179] Jürgen Habermas (1929-), filosofo e sociologo tedesco.


[180] Peter L. Berger (1929-), sociologo statunitense.


[181] Brigitte Berger.


[182] Peter L. Berger, Brigitte Berger, Sociology. A Biographical Approach, New York, Basic Books, 1972; trad. it., Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, Bologna, il Mulino, 1977.


[183] Franco Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, Roma-Bari, Laterza, 1965; 1968; 1985.


[184] Roberto Cipriani, Dalla filosofia alla sociologia, in Dova va la sociologia oggi? Studi in onore di Gianfranco Morra, a cura di Leonardo Allodi, Siena, Cantagalli, 2010, pp. 135-145.


[185] Felice Battaglia (1902-1977), filosofo.


[186] Felice Battaglia, Filosofia del lavoro, Bologna, Zuffi, 1951.


[187] Francesco Saverio Rizzo (1927-2011), sociologo.


[188] Fiorentino Sullo (1921-2000), politico.


[189] Jacques Leclercq (1891-1971), filosofo e sociologo belga.


[190] Francesco Olgiati (1902-1964), filosofo.


[191] Igino Petrone (1870-1943), filosofo e giurista.


[192] Franco Ferrarotti, Una sociologia alternativa: dalla sociologia come tecnica del conformismo alla sociologia critica, Bari, De Donato, 1972.

“Un pellegrinaggio al maschile: il caso polacco di Piekary”, in Prüfer, Slowiński (redakcja naukowa), Włoskie i Polskie Osobliwości. Relacja, Komplementarność, Integracja. Peculiarità italiane e polacche. Relazione, Complementarietà, Integrazione, Państwowa Wyższa Szkoła Zawodowa im. Jakuba z Paradyża, Gorzów Wielkopolski, 2014, pp. 165-97.

Roberto Cipriani


Un pellegrinaggio al maschile: il caso polacco di Piekary


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Abstract


2000 caratteri






Premessa


Per quale motivo in Polonia varie decine di migliaia di persone e soprattutto uomini partecipano ogni anno al pellegrinaggio (Cipriani 2012) che nell’ultima domenica di maggio ha come meta il santuario della Madonna di Piekary, patrona della diocesi di Katowice, la cui festa liturgica si celebra il 12 settembre?


Sono due le risposte immediatamente possibili: almeno in questa occasione pubblica i soggetti maschi vincono ogni rispetto umano, come si suole dire, e forti del gran numero di presenti si sentono ampiamente sostenuti – l’un l’altro – nell’esprimere la loro fede. In secondo luogo va sottolineato che l’Alta Slesia è fortemente connotata dall’industria estrattiva mineraria carbonifera e da quella siderurgico-metallurgica, che vedono all’opera principalmente il genere maschile. Orbene la vita di miniera non è tra le più facili e non è priva di rischi. Di conseguenza il ricorso ad un supporto soprannaturale diventa quasi una necessità per affrontare disagi estremi e pericoli continui, specialmente quando il lavoro non è debitamente protetto.     


Vi è però una ragione remota che rende speciale la chiesa di Santa Maria e di San Bartolomeo a Piekary, che dista da Katowice circa 20 chilometri, nell’Alta Slesia (Górni Śląsk). La sua prima costruzione risale al 1303 ed era in legno. La consacrazione avvenne nel 1318 e riguardò anche un quadro di Maria Vergine. Questa Madonna (o probabilmente un’immagine successiva risalente agli inizi del XVI secolo e messa in auge da un colto sacerdote, Jakub Roczkowski, che il 27 agosto 1659 la fece collocare sull’altare maggiore, anche a seguito di un certo odore di rose che – come si narra – sembrava promanare dall’icona posta su un altare laterale) è stata ritenuta miracolosa: infatti, invocata e portata in processione, liberò la regione da una pestilenza nel XVII secolo ed in particolare nell’anno 1676. Nel 1679 la parrocchia di Piekary venne affidata ai Gesuiti di Tarnowskie Góry (dove la peste si era particolarmente diffusa). Ed appena un anno dopo, sempre per debellare la peste, il quadro della Madre Maria di Piekary fu portato a Praga in processione, in tre quartieri, il 15 marzo 1680, su richiesta di Leopoldo I d’Absburgo, re di Ungheria e Boemia, Imperatore dal Sacro Romano Impero. La peste cessò. La Madonna venne chiamata Guaritrice e rientrò a Piekary accompagnata da ricchi donativi del sovrano. Lungo il percorso di rientro il quadro si fermò anche a Hradec Králové (ora nella Repubblica Ceca) dove la peste fu sconfitta ancora una volta (ma adesso la regione appartiene al cosiddetto triangolo nero con le tre frontiere di Polonia, Germania e Repubblica Ceca dove più alta è la polluzione per un ambiente fortemente deteriorato). Ancor oggi sia a Praga che a Hradec Králové si conservano copie della Madonna di Piekary. Ed è stato l’arcivescovo di Praga Jan Fryderyk Wallstein a definire miracoloso il quadro, già nel 1680. 


Si narra che anche il re-eroe polacco Giovanni III Sobieski abbia reso omaggio con moglie, figli e soldati ad una copia dell’icona il 20 agosto 1683, quasi alla vigilia della celebre battaglia di Vienna (12 settembre 1683) che fermò l’islam alle porte dell’Europa. Infatti il quadro originale della Vergine però era già stato trasferito ad Opole una prima volta, per timore dei Turchi ma poi rientrò a piekary. Quattro anni dopo fu la volta del re di Polonia Augusto II detto il Forte che, giunto il 13 luglio 1697, nel medesimo luogo sacro ormai divenuto un simbolo, alla presenza del vescovo Jerzy Kryspin confermò il 27 luglio la sua conversione al cattolicesimo. Anche il figlio Augusto III, suo successore come re di Polonia, ebbe a fermarsi a Piekary nel 1734 (e nel 1737?), lungo un suo viaggio a Cracovia.


L’immagine della Vergine Maria, che già nel XIV secolo si venerava nel territorio di Piekary, venne sostituita con un’altra icona il 31 luglio del 1702, allorquando il quadro originario venne trasferito ad Opole per ragioni di sicurezza (questa volta il timore era dovuto all’esercito protestante dei karoliner del re di Svezia, Carlo XII) e vi è poi rimasto. Per tale ragione si sviluppò dunque il culto verso il secondo quadro della Madonna di Piekary, tuttora punto di riferimento per il pellegrinaggio mariano maschile di fine maggio. La differenza tra le due raffigurazioni è data dal fatto che in quella di Opole mancano le due corone benedette da Pio XI, apposte (con mezz’ora di suono di tutte le campane della Slesia) il 15 agosto del 1925 (e rubate nel 1940 e nel 1984), rispettivamente sul capo della Vergine e su quello del Bambino, che peraltro guarda direttamente verso la Madre, mentre il divin fanciullo di Piekary ha uno sguardo più assorto, quasi assente, mentre regge un libro (Vangelo?) con la mano sinistra e rivolge la sua mano destra verso la Madonna, che presenta una mela, simbolo evidente del peccato originale (quest’ultimo dettaglio si ritrova anche nel quadro di Opole). A Piekary, inoltre, qualcuno intravede nel collo della veste di Maria, nella fibbia che regge il suo manto e nel divaricarsi dei lembi del mantello verso il basso un profilarsi di un calice, che il Bambino Gesù toccherebbe con la mano destra.


In seguito è stato Jan Nepomucen Aloysy Fiecek, vissuto dal 1790 al 1862, a promuovere al massimo livello possibile il culto di Piekary, insieme con alcune battaglie come quella contro l’alcolismo ed a difesa della dottrina cattolica (grazie pure all’uso diffuso dei mezzi di comunicazione a stampa). Fece chiudere 291 distillerie. Organizzò un movimento a livello parrocchiale di ben cinquecentomila persone. Non si è lontani dalla realtà se si sostiene che gran parte della tradizione e della ritualità coagulatesi attorno al santuario di Piekary abbia in lui il promotore per eccellenza ed un saggio organizzatore. Aveva sognato la realizzazione di una grande basilica: come modello pensava a quella della cattedrale rinascimentale di Tarnów, risalente al XIV secolo. Tra il 1841 ed il 1849 era riuscito a raccogliere 75000 talleri. Nell’agosto del 1849 la nuova chiesa venne consacrata.


Nel giugno del 1922 Piekary ed una parte dell’Alta Slesia sono tornate polacche. Ed il generale Stanisław Szeptycki con il suo esercito rese omaggio alla Vergine di Piekary il 22 giugno 1922 riprendendo una vecchia tradizione plurisecolare. Appena poco più di due mesi dopo, il 26 agosto dello stesso anno, fu la volta dello stesso maresciallo Jóseph Piłsudski, capo dello stato e comandante in capo. 


Una nuova incoronazione della Madonna, dopo quella del 1925 ad opera del nunzio apostolico arcivescovo Lorenzo Lauri (successore di Achille Ratti – ovvero del futuro Pio XI che ben conosceva Piekary – e creato cardinale nel 1926), è avvenuta nel 1966 ad opera del cardinale Stefan Wyszynski e poi del vescovo Herbert Bednorz.


Nel manifesto ufficiale del pellegrinaggio svoltosi nel 1985 venne presentata la Madonna di Piekary con all’intorno una scritta che la definiva “Madre di giustizia e amore sociale”, mentre in basso seguiva l’indicazione di “Pellegrinaggio maschile, Piekary + 26 V 1985”. Si può però immaginare che mentre il pellegrinaggio è di fatto diretto a Piekary in realtà l’intenzione è rivolta a ciò che ha rappresentato nel passato l’opera artistico-religiosa ora conservata ad Opole. In effetti quest’ultima era stata caratterizzata, a lungo, cioè almeno per qualche secolo, da una sorta di processo identitario collettivo per la difesa della lingua e della cultura polacca, a rischio di estinzione o comunque di emarginazione sia a motivo della Riforma protestante di matrice germanica sia a seguito della sottomissione politica dell’Alta Slesia alla Prussia di Otto Bismarck, senza contare peraltro che la regione è rimasta più volte spartita fra diverse potenze, segnatamente fra Boemia e Prussia ovvero fra cechi e tedeschi. In particolare dopo la fine della prima guerra mondiale e dunque dal 1919 la provincia rimase sotto la Prussia e fu suddivisa in due parti facenti capo a Opole (ovvero Oppeln in tedesco) e Katowice (Kattowitz in tedesco). La repressione tedesca (a partire dalla fine del 1939) nei confronti dei polacchi fu molto dura. Poi tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera del 1945 l’Armata Rossa sovietica fece il suo ingresso nell’Alta Slesia. Finita la guerra gli Accordi di Potsdam (2 agosto 1945) assegnarono la zona alla Polonia, cioè alla Repubblica Popolare Polacca. Venne creato il voivodato di Katowice poi trasformato nel 1999 in voivodato della Slesia.  


Si può ipotizzare che un così forte tentativo di recupero delle radici polacche costituisse una chiara espressione di rifiuto dello status quo sia sotto l’influenza sovietica, in anni più recenti, sia sotto la pregressa dominazione prussiana prima e tedesca poi ma anche boema, in anni più o meno lontani.


Emblematico in proposito è il contenuto del testo redatto da August Hlond (vissuto dal 1881 al 1948) – nominato nel 1922 dal papa Pio XI amministratore apostolico dell’Alta Slesia polacca, consacrato primo vescovo della diocesi di Katowice nel 1926 e divenuto poi primate di Polonia dal 1926 al 1948, fiero avversario sia del nazismo (per cui la Gestapo lo arrestò nel 1944) che del comunismo – in occasione dell’incoronazione della Vergine di Piekary, il 15 agosto 1925: “Popolo della Slesia, chiunque abbia la tua profonda fede deve andare a Piekary. Senza questo non si potrà mai capire l’anima né la vita religiosa. Potrà capire questo solo chi davanti all’altare miracoloso ha visto l’unione fra il quadro e se stesso. Perché Piekary è un pilastro sul quale la Provvidenza ha sostenuto la tua fede. Piekary è la fonte viva dalla quale la volontà della Madonna della Slesia sparge infinite grazie. Piekary è la tua gloria e il tuo tesoro, la tua tradizione e la tua santa necessità. Il quadro di Piekary guarda non solo dall’altare di marmo sul popolo della Slesia. Ha adornato ogni cosa della Slesia nelle cappelle lungo la strada, in ogni posto parla della fede e della vita di fede. In special modo illuminava le anime, svegliando i grandi pensieri santi. Così s’inginocchiavano davanti a questo altare generazioni, una dopo l’altra, e la Slesia di oggi s’inginocchia davanti a questo quadro pregando per la grazia sulla strada del suo cammino. A Roma il Papa l’ha consacrato con la sua mano e con il suo cuore e consegnato nelle mani del popolo della Slesia, al fine di credere nella sua amata patrona. Nel nome del Papa, nel suo nome, nel nome della storia e nel nome delle future generazioni. Nel santo tremore e con giuramenti sulle labbra incorona il popolo di Slesia la sua Madonna, perché la sua immagine tra i fumi delle fabbriche, le contrarietà della vita, illumina con la luce divina la via del Signore e ti indica la direzione”. 


Risulta evidente in questo breve testo un forte afflato religioso, di tipo tradizionale, fondato sull’idea che Piekary rappresenti un luogo unico, insostituibile della fede di quanti sono cittadini della Slesia. Quasi si potrebbe parlare di uno stretto connubio tra la fede di ciascuno ed il culto dovuto all’altare del santuario di Piekary, che è la tradizione per eccellenza, senza mezzi termini. E la continuità intergenerazionale è ribadita irrefutabilmente. Il Papa stesso è chiamato in causa per suggellare autorevolmente il sacro vincolo fra popolo della Slesia ed icona della Madonna. Ma alla fine non può non giungere il riferimento, il richiamo si direbbe, alle drammatiche condizioni ambientali, in cui domina il fumo delle fabbriche: un chiaro richiamo di natura ecologica ante litteram.


Sin dai tempi del Plebiscito dell’Alta Slesia svoltosi nel marzo del 1921 per stabilire i confini fra la Repubblica di Weimar e la Polonia era iniziato un intenso pellegrinaggio verso Piekary, con provenienze varie, certamente dalla Slesia e dalla Polonia in senso lato ma anche da Opole ed altri territori. Solo l’occupazione tedesca rallentò il flusso negli anni della seconda guerra mondiale, che registrarono anche il primo furto delle corone della Madonna e del Bambino di Piekary nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1940. Ma finita la guerra, in particolare dal maggio 1947 in poi, tutto riprese come prima e più di prima. I polacchi tornarono in massa a venerare la Madonna di Piekary.


A dire il vero, proprio così come l’antinazismo e l’anticomunismo hanno attraversato intere epoche storiche lo stesso si può dire dell’atteggiamento a favore della natura, della sua conservazione, del suo rispetto, della sua promozione. Se le omelie dei vescovi a Piekary già negli anni Ottanta insistevano sui disastri ambientali procurati dalla presenza di enormi cumuli di detriti, lasciati all’aperto dopo le lavorazioni post-estrazione dalle miniere, anche in tempi più vicini a noi, a ridosso dell’anno 2000, si sono ascoltate le medesime lamentele, nel corso delle omelie da parte dei celebranti il rito del pellegrinaggio maschile al santuario mariano di Piekary. Uno studio di E. Szymik (2004, 2002; Szymik, Norska-Borówka 2001) ha provato, in uno studio condotto fra aprile e maggio del 1995 ma pubblicato nel 2004, che il 19,8% di un campione di bambini di Piekary presenta un’elevata concentrazione di piombo nel sangue, accompagnata anche da gravi difficoltà di natura socio-economica, occupazionale e familiare 


In un discorso radiofonico del 31 maggio 1981 Giovanni Paolo II, buon conoscitore della realtà operaia della Slesia, si era rivolto ai pellegrini di Piekary: “Cari fratelli minatori riuniti come ogni anno nel pellegrinaggio alla vostra Madre a Piekary Slaskie. Ringrazio Dio che posso oggi rivolgervi questa breve parola, parola d’amore e di benedizione. Particolarmente adesso – che sono malato e grazie a Dio progressivamente sto ritornando alla salute e alle forze – è per me una vera consolazione di poter rivolgermi a voi, uniti nel pellegrinaggio a Piekary, a miei connazionali, a uomini del lavoro. Vi siete riuniti insieme con il vostro Vescovo, con il Cardinale, con i vostri Pastori. Vi siete riuniti in questa comunità che conosco così bene per mia esperienza e che porto profondamente nel mio cuore. Insieme con voi mi rendo conto come è eccezionale ed importante, proprio quest’anno, la vostra visita alla Signora di Piekary. Infatti questo è un anno in cui come ben sapete gli sguardi di tutto il mondo si sono rivolti sulla Polonia, per la ragione del programma di rinnovamento nato nelle difficili esperienze del lavoro umano. Del lavoro nell’industria, nelle miniere, nell’agricoltura e nelle altre professioni. Desidero insieme con voi, per così dire, riconfermare davanti alla Signora di Piekary proprio questo programma di rinnovamento e desidero insieme con voi affidarle questo programma: di tutto cuore, alla maniera filiale, polacca, come si fa in Slesia. Faccio questo nell’anno in cui la Chiesa Universale ricorda il 90° dell’enciclica Rerum Novarum del grande Papa delle questioni sociali, Leone XIII, dell’enciclica dedicata alla questione operaia, che mi permette di incontrare quest’anno i rappresentanti del mondo del lavoro delle diverse nazioni e continenti. Dio vi renda merito: a voi tutti miei connazionali per la memoria, per le preghiere, per l’amore, di cui ricevo tante testimonianze e che di tutto cuore contraccambio”. Si tratta di un intervento per nulla di prammatica. Pur nella brevità, il Papa polacco sa parlare ai cuori e va diritto ai problemi del lavoro minerario, industriale, agricolo. E ne ricorda la dimensione sociale, sulla scorta della ricorrenza legata alla celebre enciclica di Leone XIII sulla questione sociale. Sono poche parole ma che, nel contesto di Piekary ed in un momento in cui il movimento di Solidarność, appena nato a Danzica, nel 1980, è subito costretto alla clandestinità, danno forza ed incitamento ai pellegrini-operai ai piedi della Signora di Piekary. Anche Benedetto XVI nell’ambito di un suo discorso del 30 maggio 2005 ha voluto “abbracciare” i lavoratori pellegrini a Piekary.


Ma certamente l’intervento più significativo in assoluto è quello dello stesso Wojtyła, pellegrino a sua volta. Il testo meriterebbe di essere trascritto integralmente perché rappresenta una pietra miliare per capire il significato profondo che la Madonna di Piekary riveste per l’Alta Slesia e la Polonia tutta. Conviene però riportarne i passi più significativi, ai fini della nostra indagine retrospettiva sulla prima metà degli anni Ottanta, davvero decisivi per la Polonia, prima del 1989, termine spartiacque nella storia dell’Europa, per la caduta del muro di Berlino.


Ecco dunque alcuni passaggi-chiave: “Di tutto cuore vi ringrazio dell’invito a Piekary. Il mio pellegrinaggio a Piekary Slaskie, al Santuario della Madre di Dio nella diocesi di Katowice, ha una sua storia di molti anni. Come Metropolita di Cracovia venivo invitato a predicare la Parola di Dio nell’ultima domenica di maggio, quando si svolge l’annuale pellegrinaggio degli uomini e della gioventù maschile. Questo è un avvenimento speciale nella vita della Chiesa, non solo in Slesia, ma in tutta la Polonia. Giungono allora a Piekary uomini e giovani dalla vasta regione industriale, che oltrepassa i confini della Slesia di Katowice sia all’occidente, verso Opole, sia all’oriente, verso Cracovia. Oggi avviene lo stesso, solo che la cornice del pellegrinaggio si è ampliata. Non è più solo un incontro con gli uomini, ma è un incontro generale; do il benvenuto dunque e saluto di gran cuore tutti voi qui presenti, cari fratelli e sorelle: uomini e donne, gioventù maschile e femminile, tutte le famiglie. Attendevo questo incontro a Piekary sin dal 1978. L’attendevo con perseveranza e fiducia. E anche voi l’avete atteso con perseveranza e fiducia. E quando è divenuto possibile, si è visto che sul colle di Piekary non saremmo potuti starci tutti. E perciò si è dovuto trasferire Piekary a quest’aeroporto nei pressi di Katowice, ove ci troviamo. Per poter attuare l’odierno pellegrinaggio del Papa a Piekary è stato necessario che questa volta Piekary stessa partisse in pellegrinaggio! E così infatti è successo. Nell’ambito del Giubileo del sesto centenario di Jasna Gora, giungo oggi al santuario di Piekary, e la Madre di Dio mi viene benignamente incontro dal suo santuario. Quest’incontro ha preso la forma di una grande preghiera della Chiesa di Katowice. La preghiera continua sin dall’ultima domenica di maggio, da quando l’effigie della Signora di Piekary si è mossa per l’incontro odierno, visitando per strada le singole parrocchie. E oggi qui – in quest’aeroporto – sin dalla mattina continua la preghiera, che accompagna l’arrivo dell’effigie di Piekary Slaskie. Prima di tutto c’è la preghiera del Rosario, e insieme ad essa ci sono il canto, le letture e le meditazioni, secondo il programma previsto, stabilito e attuato con precisione tutta slesiana. Mi chiedo: dopo tante ore di preparazione in preghiera avete ancora abbastanza forza per ascoltare il Papa? Non siete troppo affaticati e stanchi? Tuttavia, il ricordo degli incontri antecedenti a Piekary mi dice che la gente della Slesia e, in genere, tutti gli uomini del duro lavoro di questa regione industriale non si stancano facilmente di pregare. Inoltre, sanno pregare in modo così “attraente” nella loro grande comunità, che la preghiera non li stanca. Può darsi che si allontanino dal loro santuario stanchi, ma non sfiniti, perché portano con sé le fresche risorse dello spirito nel duro lavoro quotidiano… Entro qui nella grande preghiera, che continua non solo fin dall’ultima domenica di maggio, non solo oggi sin dalla mattina, ma dura da generazioni, riempie ogni anno, ogni settimana e ogni giorno. Una volta – quando ancora non vi era la Slesia di oggi, ma già c’era l’effigie della Madre di Dio a Piekary – in questa preghiera si inserì il re polacco Giovanni III Sobieski, recandosi in soccorso di Vienna. Oggi io, Vescovo di Roma e al tempo stesso figlio della Nazione polacca, desidero inserirmi nella preghiera della Slesia odierna, che nell’effigie della Signora di Piekary fissa lo sguardo come nell’immagine della Madre della giustizia e dell’amore sociale. E perciò desidero anche prendere lo spunto per questa preghiera dal multiforme lavoro, che voi esercitate ogni giorno, quando – proprio in mezzo al lavoro – vi scambiate questo saluto: ‘Szczesc Boze!’ (Dio vi aiuti), ‘Szczesc Boze!’ (Dio vi aiuti). È così. Per arrivare fino alla radice stessa del lavoro umano – sia questo il lavoro nell’industria o quello della terra, la fatica del minatore, del metallurgico oppure di un impiegato, o l’affaccendarsi di una madre nella casa, o la fatica del servizio sanitario accanto ai malati – per giungere alla radice stessa di qualunque lavoro umano, bisogna rapportarsi a Dio: ‘Szczesc Boze!’ (Dio vi aiuti)… [Il Papa accenna anche alla sua enciclica Laborem exercens, pubblicata due anni prima] Quando al lavoro ci salutiamo vicendevolmente con la frase ‘Szczesc Boze’ (Dio vi aiuti), esprimiamo in questo modo la nostra benevolenza verso il prossimo che lavora, e al tempo stesso rapportiamo il suo lavoro a Dio Creatore, a Dio Redentore… Tutto questo contenuto così ricco viene racchiuso in queste due parole: ‘Szczesc Boze’ (Dio vi aiuti), che così frequentemente si odono in Polonia, e specialmente in Slesia. A Cristo, al Vangelo del lavoro, al mistero della Redenzione, ci accostiamo per Maria: proprio mediante Colei che, nel suo Santuario a Piekary, è unita ad intere generazioni di uomini del lavoro nella Slesia; proprio mediante Maria, che qui in Slesia invocate come Madre della giustizia e dell’amore sociale… Invocando Maria come Madre della giustizia e dell’amore sociale, voi, cari fratelli e sorelle, come lavoratori della Slesia e di tutta la Polonia, desiderate esprimere quanto vi stia a cuore proprio quell’ordine morale, che dovrebbe governare il settore del lavoro. Il mondo intero ha seguito, e continua a seguire con emozione, gli avvenimenti che ebbero luogo in Polonia dall’agosto 1980. La cosa che in modo particolare fece riflettere la vasta opinione pubblica fu il fatto che in questi avvenimenti si trattava prima di tutto dell’ordine morale stesso riguardante il lavoro umano, e non solo dell’aumento del salario. Colpì anche la circostanza che questi avvenimenti erano liberi dalla violenza, che nessuno subì la morte o ferite per essi. Infine anche il fatto che gli eventi del mondo polacco del lavoro degli anni Ottanta portavano in loro il segno nettamente religioso. Nessuno può dunque meravigliarsi che qui in Slesia – in questo grande ‘bacino di lavoro’ – si veneri la Madre di Cristo come Madre della giustizia e dell’amore sociale… Su questo sfondo acquistano una giusta eloquenza quei diritti, che riguardano direttamente il lavoro compiuto dall’uomo. Non entro nei dettagli, nomino solo i più importanti. Prima di tutto, il diritto del giusto salario, giusto, cioè tale che basti anche per il mantenimento della famiglia. Poi, il diritto all’assicurazione in caso di incidenti sul lavoro. E ancora il diritto al riposo (ricordo quante volte abbiamo toccato a Piekary la questione della domenica libera dal lavoro). Alla sfera dei diritti dei lavoratori si unisce anche il problema dei sindacati… In questo spirito mi sono pronunciato nel mese di gennaio del 1981 durante l’udienza concessa in Vaticano alla Delegazione di Solidarność accompagnata dal Delegato del Governo polacco per i contatti permanenti di lavoro con la Santa Sede. E qui, in Polonia, il Cardinale Stefan Wyszynski disse: ‘Si tratta del diritto ad associarsi degli uomini; non è questo un diritto concesso da qualcuno, poiché è un proprio diritto innato. Perciò questo diritto non ci è dato dallo Stato, il quale ha soltanto il dovere di proteggerlo e sorvegliare che esso non venga violato. Questo diritto è dato dal Creatore, che ha fatto l’uomo come un essere sociale. Dal Creatore proviene il carattere sociale delle aspirazioni umane, il bisogno di associarsi e di unirsi gli uni con gli altri’ (Stefan Wyszynski, Discorso, 6 febbraio 1981). Così, dunque, carissimi, la questione che è in atto in Polonia nell’arco degli ultimi anni possiede un profondo senso morale. Essa non può essere risolta diversamente, che sulla via di un vero dialogo dell’autorità con la società. A tale dialogo l’Episcopato polacco ha chiamato molte volte. Perché i lavoratori in Polonia – e, del resto, dappertutto nel mondo – hanno diritto ad un tale dialogo? Perché l’uomo che lavora non è soltanto uno strumento di produzione, ma anche un soggetto, che in tutto il processo della produzione ha la precedenza davanti al capitale. L’uomo, mediante il suo lavoro, diventa il vero gestore del banco di lavoro, del processo del lavoro, dei prodotti del lavoro e della loro distribuzione. È disposto anche alle rinunce quando si sente un vero cogestore e può influire sulla giusta distribuzione di ciò che si è riuscito a produrre insieme…Perciò rivolgiamo la nostra ardua preghiera alla Madre della giustizia sociale, affinché ridia il senso al lavoro, lavoro di tutti gli uomini in Polonia. Al tempo stesso invochiamo Maria come Madre dell’amore sociale…  L’amore è più grande della giustizia. E l’amore sociale è più grande della giustizia sociale. Se è vero che la giustizia deve preparare il terreno all’amore, allora la verità ancora più grande è che solo l’amore può assicurare la pienezza della giustizia. Bisogna dunque che l’uomo sia veramente amato, se devono essere pienamente assicurati i diritti dell’uomo. Questa è la prima e la fondamentale dimensione dell’amore sociale.


La seconda dimensione è la famiglia. La famiglia è anche la prima ed essenziale scuola dell’amore sociale. Bisogna far di tutto, affinché questa scuola possa rimanere se stessa. Al tempo stesso, la famiglia deve essere talmente forte di Dio – cioè dell’amor reciproco di tutti coloro che la formano – da saper rimanere un baluardo per l’uomo in mezzo a tutte le correnti distruttive e le prove dolorose. Un’ulteriore dimensione dell’amore sociale è la Patria: i figli e le figlie della stessa Nazione permangono nell’amore del bene comune, che attingono dalla cultura e dalla storia, trovando in esse il sostegno per la loro identità sociale, e insieme fornendo questo sostegno al prossimo, ai connazionali. Questa cerchia dell’amore sociale ha un particolare significato nella nostra esperienza storica polacca, e nella nostra contemporaneità. L’amore sociale è aperto verso tutti gli uomini e verso tutti i popoli. Se esso si forma profondamente e solidamente nei suoi anelli fondamentali (l’uomo, la famiglia, la patria), allora supera anche l’esame in un ambito più vasto. Così, dunque, cari partecipanti all’odierno incontro nella Slesia, accettate ancora una volta dal vostro connazionale e successore di Pietro in questa nostra grande comunità il Vangelo del lavoro, e accettate il Vangelo della giustizia e dell’amore sociale. Che esso ci unisca profondamente intorno alla Madre di Cristo nel suo santuario a Piekary, così come ha unito qui intere generazioni. Che esso si irradi ampiamente sulla vita degli uomini del duro lavoro in Slesia e in tutta la Polonia. Ricordiamo ancora tutti i lavoratori defunti, coloro ai quali sono occorsi incidenti mortali nelle miniere o negli altri luoghi, coloro che recentemente hanno perso la vita nei tragici avvenimenti. Tutti. Ci attende, per noi che viviamo, un grande sforzo morale legato al Vangelo del lavoro: lo sforzo che mira a introdurre nella vita polacca la giustizia e l’amore sociale. Sotto il segno di Maria – con il suo aiuto! Per questo sforzo e per questa fatica: ‘Szczesc Boze’ (Dio vi aiuti)!”


Commentare un intervento così lucido, preciso, chiaro, senza concessioni e senza compromessi, risulterebbe persino superfluo. Ma almeno alcuni punti-chiave vano segnalati: Piekary per la questione del lavoro è un centro essenziale di riferimento e di promozione sociale e religiosa insieme; la Madonna dell’omonimo santuario ha radici ben ramificate in tutta la cultura della Slesia e dell’intera nazione polacca; lo snodo famiglia-lavoro-religione è il fulcro di gran parte della religiosità rilevabile in Polonia, anche ora dopo la fiammata del novennale legato all’esperienza di Solidarność dal 1981 al 1989; di recente qualche calo si è registrato nella pratica religiosa ma gli eventi principali dell’anno liturgico e della tradizione storica hanno tuttavia una notevole influenza; la cosiddetta Chiesa ufficiale (dal Papa, ai vescovi, ai sacerdoti) è ben consapevole di molte problematiche che inficiano la società e lo stato, ma anche le istituzioni e la comunità ecclesiale stessa: dalla pericolosità di taluni lavori alla mancata osservanza di alcune precauzioni per la gestione dell’ambiente, da certe forme accentuate di capitalismo (magari mascherato da forme statali) alla scarsità di risorse fondamentali per l’accesso ai beni comuni, ed altro ancora. Il richiamo, più volte citato da Giovanni Paolo II, è quello di una formula di saluto, espressione quotidiana, ripetuta, dunque quasi inconsapevolmente innervata nelle persone e nei loro atteggiamenti e comportamenti: ‘Szczesc Boze’ (Dio vi aiuti)! Questo ritornello-mantra svolge un ruolo di rinforzo che rinnovato all’ennesima potenza diventa parte dei soggetti che lo pronunciano e che testimoniano così la loro credenza e la loro appartenenza. Ovviamente anche durante il pellegrinaggio a Piekary tale refrain torna più volte sulle bocche dei pellegrini e risuona ancor più nei loro cuori ovvero nella loro memoria storica.


La Polonia invero pullula di santuari: tutt’intorno a Piekary vi sono quelli di Turza (tempio dedicato alla Madonna di Fatima), Panewniki (basilica e monastero francescano), Skoczów (cappella della fine del XVI secolo dedicata al Ritrovamento della Santa Croce e grande croce su una collina, visitate da Giovanni Paolo II nel 1995), Kończyce Małe (santuario di Nostra Signora di Kończyce, la quale presenta un fiore di tarassaco), Pszów (basilica della Natività della Beata Vergine Maria ovvero santuario di Nostra Signora Sorridente), Bogucice (quadro della Madonna delle Grazie, Signora di Katowice, incoronata nel 2000, nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano martire), nel villaggio di Lubecko (chiesa dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, santuario mariano con l’immagine della Madonna di Częstochowa) vicino Lubliniec (di cui è patrona Santa Edith Stein, ovvero la suora carmelitana Teresa Benedetta della Croce, cui sono dedicati una chiesa ed un museo; c’è anche una chiesa dell’Esaltazione della Santa Croce). 


Rappresentazioni pittoriche della Madonna con mantelli di tipo maforion (indossato sopra la tunica, copre anche il capo), simili a quello di Piekary (con orlatura dorata e colore smeraldo scuro), sono conservate a Rudy (dove il mercoledì giungono i pellegrinaggi a piedi diretti al santuario dell’immagine miracolosa di Nostra Signora Umile, basilica minore dal 2009 e abbazia gotica cistercense dal 1259) e Doudleby nad Orlicí (chiesa dedicata alla Vergine Maria, nel confinante territorio della Repubblica Ceca). 


Il 21 giugno 1896 fu inaugurato il Calvario, ovvero la Via Crucis, consacrante il cardinale Georg von Kopp. La sua costruzione fu un’idea del reverendo Jan Fiecek, pellegrino in Terrasanta da dove trasse ispirazione, senza però riuscire a vedere completata la sua opera, che venne iniziata da padre Bernard Purkop e proseguita da Władisław Schneider. Neanche un altro curatore dell’iniziativa, padre Leopold Nerlich – morto nel 1894 -, ne vide la conclusione. L’insieme comprende 20 stazioni della via dolorosa e 15 cappelle del rosario.          


Bibliografia


Berzano, L., Teagno, D. (2002) Pratiche giubilari tra fede e cultura. In: C. Cipolla, R. Cipriani, a cura di Pellegrini del Giubileo. Milano: FrancoAngeli, p. 42-61.


Cipolla, C., Cipriani, R. (a cura di) (2002) Pellegrini del giubileo. Milano: FrancoAngeli.


Cipriani, R. (2012) Sociologia del pellegrinaggio. Milano: FrancoAngeli.


Remy, J. (1989) Editorial: Pilgrimage and Modernity. Pèlerinage et modernité. Social Compass. 36 (2), p. 139-143.


Sigal, P. A. (1987) Roman Catholic Pilgrimage in Europe. In: The Encyclopedia of Religion. New York: Macmillan, vol. 11, p. 330-332.


Szymik, E. (2004) Social conditions of the exposure to environmental lead observed in children from Piekary Slaskie. Przegląd lekarski, 61, suppl. 3, p.45-50; (2002) The fate of children from Piekary Slaskie with elevated lead concentration in blood. Wladomości lekarskie, 55(1-2), p. 72-80.


Szymik, E., Norska-Borówka, I. (2001) The results of ten years activity of the Environmental Health Outpatient Department in Piekary Slaskie in the prophylaxis of lead intoxication in children. Przegląd lekarski, 58, suppl. 7, p. 35-38.

“New Movements and Trends in the Sociology of Religion. An Overview”, in Kovács and Cox (edited by), New Trends and Recurring Issues in the Study of Religion, L’Harmattan, Budapest, 2014, pp. 15-32.

Roberto Cipriani


1. A description of what the keynote is about


This keynote provides an overall view of sociology of religion, theories, empirical approaches and state of art, to conclude with some reflections on future developments.


2. Old and new theoretical approaches


There has been much discussion of possible definitions of religion. Generally a distinction is made between a substantive and a functional approach. The substantive approach may be exemplified by Durkheim (1995) when he speaks of “beliefs and practices” as the ground of the “moral community” called a “church”. Luckmann (1967) is said to demonstrate the functional approach when he refers to “symbolic universes” as “socially objectified systems of meaning” by way of “social processes” considered as “fundamentally religious”, “which lead to the formation of the Ego” and the “transcendence of biological nature”.


However, when we make a thorough exploration of Durkheim’s and Luckmann’s writings, we observe that Durkheim is also alive to function (religion helps solidarity), and that Luckmann is not only concerned with function (religion is a conception of the world made up of specific contents). Thus in reality those quoted as exemplary champions of one ore other perspective emerge as more possibilistic and open to less rigid, more polyvalent formulations. In short, contents and functions are inseparable, and should rather be considered as a unique whole which permits realizing much more complex and interconnected analytical and interpretative procedures.


For example, we might start from the idea that the meta-empirical referent in attributing meaning to human existence is a particular characteristic of religion. At the same time, however, it is sensible to leave an opening also for responses which do not envisage an explicit referral to the dimension of the empirical non verifiability and the inaccessibility of direct experience. Thus, a meta-empirical referent would possess a merely indicative character, or, in Blumer’s (1954) term, that of “sensitizing”. “In this way there is no conflict between the transcendent level and that of the real. It is rather as though we were to look at the same object from two different viewpoints; the canalizing of a non-human presence within reality. One vision does not exclude the other. They are not in opposition and indeed at times they may converge on the same conclusion – the understanding-explanation of life in a religious key” (Cipriani 1997: 15).


Thomas Luckmann’s theorization regarding the “invisible religion” (Luckmann 1967) has attracted much attention on the part of sociologists, even though it has not always brought scientific consensus. The idea of a functional substitution of church religion by a series of topics such as “individual autonomy, auto-expression, auto-fulfilment, mobility ethos, sex and familism” has developed parallel to the theory of secularization.


The debate was very lively at that period, as has been well demonstrated first by Karel Dobbelaere (1981) and, lastly, Olivier Tschannen (1992), and involved such authors as Sabino Samele Acquaviva (1961; 1979), Charles Y. Glock and Rodney Stark (1965), Hermann Lübbe (1965), Bryan R. Wilson (1966), Peter L. Berger (1967; 1969), Thomas O’Dea (1966), Richard K. Fenn (1969; 1970 and 1978), David Martin (1969, 1978).


Luckmann further believes that the modern sacred cosmos has a relative instability depending on the various social strata in which it is active, as proof of its internal incoherence and disarticulation. In fact, Luckmann reminds us, traditional, customary religious themes are re-ordered in the orbit of the secular and the private, especially by the young and urban dwellers. Thus Durkheim’s prediction of a wholly individual religion would seem to come true.


Robert N. Bellah and collaborators (1985; 1996) define the intensification of individualism by the term “Sheilaism”, as a wholly personal religious form which can thus take the name of the person who embodies it (Sheila Larson). “I believe in God. I’m not a religious fanatic. I can’t remember the last time I went to church. My faith has carried me a long way. It’s Sheilaism. Just my own little voice” (Bellah 1985: 221). On the other hand, as Bellah makes clear, religious individualism may be present in “church religion” itself, but historic roots go back in time, in the exemplary case of Anne Hutchinson, to the eighteenth century. She “began to draw her own theological conclusions from her religious experiences and teach them to others, conclusions that differed from those of the established ministry” (Bellah 1985: 233). Still more typical is the religious individualism shown by Tim Eichelberger: “I feel religious in a way. I have no denomination or anything like this” (Bellah 1985: 233). For these subjects, as in invisible religion as hypothesized by Luckmann, one of the main objectives is “self–realization” (Bellah 1985, 233), and perhaps in Freud’s terms the Ich-Leistung, the autonomy of the individual.


Bellah’s “civil religion” (Bellah 1967) has not really been taken into consideration because of the ethnocentric perspective of the sociological reading of the “religious dimension” which is specifically applicable to United States society. It is a well-known fact that Bellah attaches major importance to a series of beliefs, symbols and rituals which have not removed the religious factor from politics. The contents of this kind of “civil religion” are furnished by the perception of a universal reality bearing religious characteristics which is reflected in a people’s initiatives, especially those referring to biblical concepts: exodus, chosen people, new Jerusalem, sacrifice, etc… The religious element often acts as a unifying factor among individuals or groups otherwise in contrast. Religious identity can thus partly make up for the lack of a national identity. Seen from this dimension, “civil religion” was held to be the unifying element which made possible the birth and development of the United States of America.


The Berger and Luckmann (1966) lesson remains authoritative: the social construction of reality is the basis from which the value system branches out, a circuitry which directs social action and rests on an objectified and historicized world-view which is thus endowed with a religious character it is hard to lose. The ultimate meaning of life itself is clearly written therein and orientates attitudes and behaviours.


In Roberston’s (1970) approach religion is a part of the process of globalization, based on relationship between individuals, mankind, national societies, and the systems of various societies. But it should be borne in mind that some religious organizations foster a nationalistic fundamentalism to protect their roots and to reshape the world order. Besides, Robertson rejects at the same time both the hypothesis of secularization and of desecularization. Therefore religion will play a central role in the construction and reconstruction of societal identities, because it is capable of enhancing closeness among different cultures, creating in such a way the basis for the globalization.


For Luhmann (1977) religion is a social system which regulates the relationships of people with the world in a comprehensive and ultimate meaning. But the “environment” is more complex than the system. And society is a social (external) system that aims to regulate the environment (internal). The system (and religion itself as system) is able to reduce the complexity of environment, that is external with respect to the system, which elaborates the answers to the complexity of system. This systemic differentiation presupposes that religion fulfils the function of transforming the indeterminate world, to reduce its complexity. At the end religion does not disappear but it isn’t so central because it is just interpretative of reality, instead of being integrative in durkheimian terms.


However, it may now be more convenient to aim at disarticulating religious phenomenology from within, following a reading with more stratified dynamics and multiple faceting. In practice it is not clear there are only church religion and invisible religion à la Luckmann (1967). Rather, we may propose another hypothetical solution which envisages intermediate categories more or less close to the two extremes defined in terms of visibility and invisibility.


An initial post-Luckmann interpretation was articulated in 1983 and applied to the Italian situation (but not only) during the International Conference of Sociology of Religion (held at Bedford College, London): “beside the interests and pressures coming from ecclesiastical sources, are there any other premises or factors which can explain religious bearing on Italian politics? In particular, it is important to verify first of all how the institution fares under the pressure of an extended “religious field” containing varied and attractive options, including anti-institutional purposes. Secondly, we must ask ourselves whether in practice religious influence in political choices concerns only Catholicism (or Christianity) or any religious expression in general. Thirdly, we must see whether the country’s history or its national culture mark the existence of fixed elements, bearing common values leading (directly or indirectly, in specific or vague ways) to a widespread model of religious socialization (based prevalently on patterns of Catholic reference)” (Cipriani 1984: 32).


Stark and Bainbridge (1980) have elaborated on “exchange theory” and on the idea of “compensation” as a promise for a future reward that could be accepted as a compensatory form to be exchanged for the established objective. Actually the persons accept religious compensators for rewards that do no exist in their life. This theory is not exactly what James S. Coleman (1990) defines as “rational choice”. Stark, in particular, has a peculiar idea of religious market and therefore he carries out research on religious conflict, on the stability and dynamics of religious economies, and on the development of Christianity. The market pluralism does not lead to the end of religious confessions, because religions become stronger and competitive, especially if they give a convincing answer to individual expectations.


Some sociologists think that Warner’s (1993) seminal article on new sociological paradigm for the study of religion is in line with rational choice theory. Warner doesn’t agree. His main idea is that religion is an autonomous reality, and no more a dependent variable. According to this new paradigm of religion as independent variable, Stephen Warner prefers to study communities, subcultures, new religious institutions, and modern religious identities, instead of secularization process (and theories, to say the “old paradigm”).


Another theorist against secularization myth is Casanova (1994), because religions still have a relevant public role in many countries: in Poland and in Spain, in Iran and in Latin America, in the United States. A lot of conflicts around the world are strictly connected with religious factors. And in any case a religious revival is evident in Western cultures, even though the level of secularization is getting higher than before. Therefore secularization and sacralization proceed together. But the first doesn’t depend on modernization. And Casanova too doesn’t accept suggestions coming from rational choice theory. Besides, he says that “religious institutions and organizations refuse to restrict themselves to the pastoral care of individual souls and continue to raise questions about the interconnections of private and public morality and to challenge the claims of subsystems, particularly states and markets, to be exempt from extraneous normative considerations. One of the results of this ongoing contestation is a dual, interrelated process of repoliticization of the private religious and moral spheres and renormativization of the public economic and political spheres” (Casanova 1994: 5-6). This is a sort of “deprivatization” of religion.


A third scholar who strongly disagrees with theorists of rational choice is Steve Bruce (1999). In particular he maintains that new religious movements aren’t able to replace traditional religions, and that secularization paradigm is useful to understand the fact that today religion is like a wheel which turns more and more slowly (Bruce 2002: 176): religious socialization is in difficulties and liturgical practice is in a deep-seated crisis.    


In Hervieu-Léger (2000) perspective the emotion has a key role. The new Christianity consists of “emotional communities”, deriving from a strongly personalized choice that creates a direct bond between the community and each of its members. There is a quest for self-realization through a compromise between Christianity and modernity. Religion is a kind of “authorized collective memory” which plays a critical role vis-à-vis the institutions. 


“Believing without belonging” is another successful theoretical expression that accompanies Grace Davie’s (1990) suggestion: in a situation of religious individualism the religious experience tends to be separated from institution and religious practice. But in Nordic countries of Europe it seems that formula can be reversed: “belonging without believing”. Another proposal comes from Davie (2006): a “vicarious religion” which means “the notion of religion performed by an active minority but on behalf of a much larger number, who implicitly at least not only understand, but quite clearly approve of what the minority is doing” (Davie 2007: 127). It is a key point to understand the situation of religious Europe: few Europeans attend weekly rites but many appreciate the presence of religious buildings in their countries. Davie (2007: 143) is convinced “that vicariousness still resonates in Europe in the early years of the twenty-first century and will do for the foreseeable future”. 


3. Empirical evidence accumulated


The “invisible religion” perceived by Thomas Luckmann, which is based on the assumption of a crisis of the institutional apparatus, seems to be applicable only in relation to certain aspects of modern societies, and does not completely destroy so‑called church religion.


Today we must ask if we are faced with an absolute novelty or whether, rather, the Luckmann’s “modern religious themes” are nothing more than the sedimentation of pre-existing, more or less subterranean channels, long incorporated in traditional religious modes, and surfacing now not for simply contingent reasons. The lack of research in this regard and the great weight of social control found in some particular historical and geographical contexts may be among these reasons.


An example is provided by the sociological trajectory of the Polish Solidarność movement. Its link to the Polish Catholic church was useful for a while. Then, once liberation from the communist system was attained, its influence began to wane, to the point of reducing to a glimmer. Meanwhile, other individualistic and familistic demands had been able to prevail, damaging the previous solidarity between the politico-trade union movement and religious membership. Today, religious practice, though still high in comparison with other European nations, is marking time, indeed retreating, in the face of the new modern demands of the rising generations unaware of the previous experience and, in addition, not averse to welcoming the westernising (and secularizing) breezes of consumerism and the use of free time. But this occurred not only because of the passage from one age cohort to the next but also because of prior sources already functioning within the formal, compact facade of solidarity of the past. Thus even in a Poland sacralized to the utmost there were the forerunners of a future secularization in nuce. In fact, “opinion surveys showed a lessening of confidence in the church from 82% in 1990 to 57% in 1992, and a falling acceptance of its involvement in Polish political life” (Jasinska-Kania 1995: 451). To complete the argument one must, however, point out that this has not involved the total supersession of Catholic religious experience, but has rather favoured the regeneration of previously existing impulsions not wholly evident and visible (Erenc, Wszeborowski 1993; Gorlach, Sarega 1993). In short, in the practicing, believing Pole too there was concealed the individualist, familistic subject, wholly inclined towards self-realization and -expression.


Again, we see the ambiguous, ambivalent character of secularization. It seems to erode the religious institution, but really only assists the principal factors of a very complex acceptance, made up of consensus on values and dissent in fact, of facile decision and conflicting choices. The new mode of belief supplants the church-religion model but re-adapts it to new behavioural spheres which proclaim individual autonomy and independence. This seems not so much different from the Oevermann’s (1995) “structural model of religiosity”.


After the wave of secularization and the more recent development defined as “religious revival”, social scientists studying the religious phenomenon are becoming far more cautious about the use of certain data, which even today give importance to either the secularization or the revival hypothesis. It has already become apparent that in both cases this process is probably due to a tendency towards the “sociological construction of inconsistency” by means of purely theoretical reasoning, or of a marked use of figures and results which are put together in scientifically feeble ways.


If we then examine other hypotheses which on the international level, in the field of sociology of religion, are frequently under discussion, we can see that they are not totally applicable in many cases. In fact, any effort to verify these hypotheses has generally failed.


Inglehart (1997) attempts to test modernization theory through the World Value Survey have been criticized, mostly for methodological reasons. However it remains a unique comparative study based on panel methodology and concerning not only European countries. Thanks to comparative research, more recently Norris and Inglehart (2004) have verified that advanced industrial societies are more secularized than before, but other countries are growing with people linked to traditional religious world views. Modernization increases with security, but diversity of nations is at the origin of different behaviours linked to value systems of Christians, Muslims, Confucians. The economic trend remains the same in various regions of the world but cultural heritage influences the output.   


Now new religious communities and religious organisations are settling in different parts of continents, sometimes very far from their original habitats. Christianity (Catholicism, Orthodoxy, and Protestantism) is the most widespread religion together with Islam. Religions are well diffused around the world, but there are substantial differences in belief, behaviour and practice, and there are various branches of each religion, with some specificity in religious movements. In general religions are supported by national culture, and are peculiar of a region, but many influences can be found all over the countries. In any case the impact of the religious presence is evident everywhere.


4. Assessment of state of the art


250 years have passed since David Hume published in 1757 Four Dissertations: The natural history of Religion, of the Passion, of Tragedy, of the Standard of the Taste followed by Dialogues Concerning Natural Religion, in 1779: thanks to the English empiricist – whose books were enlisted by the Catholic Church in the Index Librorum Prohibitorum – the first systematic attempt of a religious study starting from human experience instead of a metaphysical perspective.


Sociology started with Auguste Comte, approximately one Century later. However, the studies of Hume were to anticipate the principles of a scientific approach to religious phenomenon. This approach was continued by Durkheim and Weber, further developed by Le Bras and Bellah, up to now when sociology of religion is experiencing a particularly good period, even if great theories and masters are lacking (such as Parsons and Luhmann), and others (like Berger and Luckmann) are less present.


Certainly, the number of good quality researchers has increased, notwithstanding the absence of absolute excellence normally recognised by the majority of the scientific community. In the meantime, there are a good number of field researches, illustrating interests ranging from the more traditional sector of Christian religious experience to that of new religions, with a particular increase in Islamic studies (Ghazal Read 2007) and in the generally neglected Asiatic realities.


A backward situation is noted, however, on the state of the studies concerning religious diversity in Africa. We should always be grateful to Bennetta Jules Rosette (1979).


A new and significant contribution now comes from central and south America, where new initiatives combining events between various sociologists of religion, such as conferences and journals are held: following the footsteps of the Brazilian Reginaldo Prandi (2005), the Argentinean Alejandro Frigerio (1994) is now playing a major role, along with Ari Pedro Oro (1999), who is also from Brazil.


In the last few years, however, some significant scholars have passed away, such as Niklas Luhmann (1977) in Germany, Silvano Burgalassi (1970) in Italy, Bryan Wilson (1961) in Great Britain, Srđan Vrcan (2001) in Croazia, Yves Lambert (2007), and Jean Séguy (1977) in France.


New fellows, however, are emerging and seem to be of good quality, especially in the field of Orthodox churches, thanks to Victor Roudometof and Alexander Agadjanian, together with Jerry Pankhurst (Roudometof, Agadjanian, Pankhurst 2005), with contributions by – among others – Gavril Flora, Vasilios N. Makrides and Kathy Rousselet.


Another good job is being carried out by Fenggang Yang (Yang, Tamney 2005), who is not only fostering research on Chinese religiosity (Yang, Tamney 2006), but is also promoting initiatives in order to create links among Chinese sociologist of religions. In fact, the first International Symposium of Chinese Sociology of Religion was held in Beijing on July, 10-12 in 2004 (historically relevant date to remember). The ideological influence is still strong; however, scientific quality is of a good level and is bound to get better.


Another important development in sociology of religion is that of post-communist countries. The most dedicated researchers are: the Croatian Siniša Zrinščak (2006), the Polish sociologist Irena Borowik (2001), the German Detlef Pollack (2003, 2007), the Byelorussian Larissa Titarenko (2004), the Bulgarian Nonka Bogomilova (2005), just to quote some names.


Within European boundaries, the work of Grace Davie (2000, 2002) is highly considered. Grace Davie (2007) also summarizes the state of the art of the discipline. Jean-Paul Willaime (2004) studies the subject of religion in Europe.


The “laïcité” discourse is developed within the European context by Jean Baubérot (2004). Instead, in central and south America it is developed by Roberto Blancarte (2000).


Among the new subjects in the socio-religious area, we have to highlight the pioneering work of Paul Heelas and Linda Woodhead (2005), as well as Giuseppe Giordan (2007) who is working on vocation, and on conversion.


James Beckford (2003) has written about socio-religious institutional issues, and is currently carrying out a number of researches on religious presence within prisons (Beckford 1998).


Among new talents, the Swiss Jörg Stoltz (2007, 2008) from University of Lausanne is particularly versed in theoretical issues, while the French Erwan Dianteill (2006) is the author of outstanding field research.


A new perspective is outlined by the quantitative inquiry by Milena Vilaça (2006) in Portugal.


Attention should be given to the book which collect the most important essays by Robert N. Bellah (2002) on religion and the one by Inger Furseth and Pål Repstad (2006).


A special mention should be made of the young Finnish sociologist Tuomas Martikainen (2004), who is specialized on religious diasporas and inter-religious relationships.


In conclusion, websites and centres of sociology of religion are becoming more and more frequent. The following is just a brief list: Center for Middle Eastern Studies (Harvard University, Cambridge, Massachusetts): http://cmes.hmdc.harvard.edu; Center for the Study of Religion (directed by Robert Wuthnow, Princeton University): http://www.princeton.edu/~csreligCenter for the Study of Religion (University of California at Los Angeles, Humanities Division): http://www.humnet.ucla.edu/humnet/religion/main.html; Center for the Study of Religion and Society (University of Notre Dame, USA): http://csrs.nd.edu/religionlinks.shtml; Centre interdisciplinaire d’étude des religions et de la laïcité (CIERL) (Université Libre de Bruxelles): http://www.ulb.ac.be/philo/cierl; Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR) (directed by Massimo Introvigne, in Turin): http://www.cesnur.orgFaculty of Religious Studies (University of Leiden, The Netherlands): http://www.religion.leiden.edu; Groupe Sociétés, Religions, Laïcités (CNRS, Paris): http://www.gsrl.cnrs.fr/head.htm; Hartford Institute for Religion Research (Hartford, USA): http://www.hartfordinstitute.orgHarvard Divinity SchoolCenter for the Study of World Religions (Cambridge, Massachusetts): http://www.hds.harvard.edu/cswr/grants/index.html;  Institut d’Études de l’Islam et des Sociétés du Monde Musulman (directed by Jean-Philippe Bras, École de Hautes Études en Sciences Sociales, Paris): http://www.ehess.fr/centres/institut; Institut de Recherches et d’Études sur le Monde Arabe et Musulman (IREMAM) (University of Aix-en-Provence): http://www.mmsh.univ-aix.fr/iremam/HTML/FRAMSET/HP/HPH.html; Institut européen en sciences des religions (IESR) (directed by Jean-Paul Willaime, in Paris): http://www.iesr.ephe.sorbonne.fr; Nanzan Institute for Religion & Culture (Nanzan University, Japan): http.//www.ic.nanzan-u.ac.jp/SHUBUNKEN/welcome_main_frame.htm; Politique, Religion, Institutions et Sociétés: Mutations Européennes (PRISME) (University of Strasbourg, France): http://prisme.u-strasb.fr/site10.


Furthermore, the number of registrations and the percentage of attending interested scholars at the conferences organized by the International Society for Sociology of Religion (http://soc.kuleuven.be/ceso/sisr) and by the Association of Sociology of Religion (http://www.sociologyofreligion.com), and Research Committee for Sociology of Religion (International Sociological Association) (http://www.isa-sociology.org/rc22.htm), show a notable increment. 


5. Future direction theorizing and research should/might take


Sociology of religion seems to be in good standing at the beginning of new millennium. But a comparative approach is necessary more and more, namely regarding European and American context, just to begin. Generally speaking, at the moment, for instance, European and North American publications of sociology of religion seem to ignore the scientific production in other continents. And Asian, African, and Australian contribution is not known as it would deserve. Linguistic barrier is still an obstacle. But now new solutions can be found. And Internet can help very much. In particular in Central and South America as well as in Africa, in Asia, and in Oceania new trends are in progress. A stronger effort must be done for a better reciprocal knowledge at international level in order to diffuse theories and empirical results that remain unknown just because of lack of translation, and of communication.


From a theoretical point of view, sociologists of religion are not ready to afford new situations created by migration processes. And methodological and technical tools of analysis still lack of an accurate profile, reliable in new and different situations.


More than in the past, sociological approach to religion needs qualitative empirical studies. The nature of religion and religiosity escape from traditional questionnaires. Sociologists of religion should concentrate on detailed interviews of individuals coming from different backgrounds, on the supposition that freedom of expression, without any kind of restriction and with no pre-coded responses, can give way to a higher level of spontaneity in the answers and as consequence a deeper knowledge of crucial religious issues. This solution will favour a more complex interpretation of data.    


6. Annotated references and suggested reading


a) Classical works


COMTE, A., Catéchisme positiviste ou sommaire exposition de la religion universelle, en onze entretiens systématiques entre une Femme et un Prêtre de l’Humanité, chez l’Auteur et chez Carilian-Goeury et V. Dalmont, Paris, 1852. Comte introduces to the contents of the “universal religion”.


DURKHEIM, E., Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Paris, Alcan, 1912; Elementary Forms of the Religious Life, Free Press, New York, 1955. According to Durkheim the solidarity is the basis of religious life in Arunta tribes. The purpose of the book is to study primitive religion, because it is the simplest religion known.


ELIADE, M., Le mythe de l’éternel retour, Gallimard, Paris, 1949; Myth of the Eternal Retour: Or Cosmos and History, Princeton University Press, Princeton, 1991. Eliade’s intention is of accurately analyzing collective rituals performed at irregular intervals that entailed the construction of a cult house and the solemn recitation of original myths concerning the cosmogonic structure.


EVANS-PRITCHARD, E. E., Nuer Religion, Oxford University Press, New York and Oxford, 1956. Evans-Pritchard attempts to assimilate the religion of the Nuer (a Nilotic population) to Judaism, because of its monotheistic character.


EVANS-PRITCHARD, E. E., Theories of Primitive Religion, Oxford University Press, London, 1965. The author proposes a “relational” theory by which religion must be studied and understood through its effects, in relation with other aspects of life and culture.  


HERBERG, W., Protestant-Catholic-Jew: An Essay in American Religious Sociology, Doubleday, Garden City, N. Y., 1955. Herberg is a kind of one-book author. He is well known for this publication which presents main characteristics of US people and their way of life.


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LE BRAS, G., Études de sociologie religieuse, P.U.F., Paris, 1955-6, 2 vols. Le Bras is attached to a positivistic approach to religion in order to offer empirical behavioural evidence to ecclesiastical pastoral practice. But he also establishes precise norms and methodological instructions aiming at a neutral research.  


LÉVY-BRUHL, L., Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive, Alcan, Paris, 1931. The author emphasizes the mistic, prelogical, and intuitive character of primitive thought.  


MALINOWSKI, B., Magic, Science and Religion and Other Essays, Free Press, Glencoe, 1948. This posthumous anthology is a comprehensive insight into socioreligious matters, and it includes studies on the spirit of the dead in the Trobriand Islands and on myth.


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MAUSS, M., Essai sur le don, «L’Année Sociologique», 1925; The Gift: The Form and Reason for Exchange in Archaic Societies,Norton, New York, 1990. This essay presents data on Melanesian, Polynesian, and North American cultures. The gift symbolizes the establishment of a relationship and represents a social value beyond its exchange value.


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WEBER, M., Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Mohr, Tübingen, 1920-1, 3 vols.; 1922-3; The Sociology of Religion, Beacon, Boston, 1963. Many issues are present in this publication: theodicy, salvation, asceticism, mysticism, prophetism.


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8. Key words


belief, church, magic, myth, practice, profane, religious movements, rite, sacred, sect, secularization, symbols


French abstract


Cet exposé présente les principales approches théoriques au phénomène religieux: le fonctionnalisme, le constructivisme, la religion civile, la religion invisible, la religion diffusée, l’économie religieuse, la religion vicaire, etc. On constate que les résultats empiriques sont très difficiles à cumuler et considérer fiables. La situation de la sociologie de la religion en général est plutôt prometteuse à cause de la présence de nouvelles générations de sociologues très motivés. Pour le futur on signale la nécessité de développer l’analyse qualitative pour mieux connaître les dynamiques religieuses.

“The Public Role of Religion”, in Davies, Powell (eds.), Sacred Selves, Sacred Settings. Reflecting Hans Mol, Ashgate, Farnham, Surrey, Burlington, VT, 2015, pp. 87-100.

Roberto Cipriani


Public Role of Religion


by Roberto Cipriani (Roma Tre University, Rome)


Introduction


For some decades now specialists of religious phenomena have been heatedly discussing secularisation, the death of God, the end of religion, or – to the contrary – a religious reawakening, a return to God, an expansion of the influence of religion. In a number of cases there have been reconsiderations, a softening of tone, 180-degree shifts in direction. By way of example, it would be sufficient to refer to Sabino Samele Acquaviva (1971), previously known for his theory of the eclipse of the sacred, and to Harvey Cox (1968), prophet of the secular city. The one was later to specify that he simply meant the end of the magical use of religion (Acquaviva, Stella 1989: 11) while the other, more simply, admitted having been mistaken about the future of religion. Because of these changes of position, the staunchest theorists of a significant return of religious practice too have had to rethink their positions.


Whatever the case, what is lacking is a serious examination of the empirical reality, accompanied by results based on scientifically serious and rigorous investigation, not on preconception. In some instances where reference has been made to it, the approach has been applied only in part, without contextualisation and has been too easily overgeneralised compared to the variegation and changeability of the scenarios addressed. Above all, insufficient attention has been paid to the significance of historical roots, traditional culture, the socialising function of diffused religion, the weight and influence of confessional organisations, often extremely capillary and efficient in their action (even if immediate appearances might lead one to postulate the opposite).


From Habermas to Böckenförde


The German philosopher-sociologist Jürgen Habermas, by many considered the heir to the so-called Frankfurt School, expresses a certain concern regarding social solidarity. This may be deduced from his greatest work the theme of which is communicative action [Habermas 1986b, II: 603-18] the ‘normative background’ of which is closely interlocked with the authority of the sacred, which Habermas recognises as being the source of ethics. Moral obligation derives, he maintains, from the sacred by means of symbolic mediation, which leads to language (and to the ethics of discourse, that is, to non-instrumental, non-coercive, communicative action). In actual fact, Habermas holds that only a universal type of morality is capable of holding secularised society, which depends on consensus,  together [Habermas 1986b, II: 669].


Without necessarily accepting and adhering to all the implications contained in Habermasian thinking on communicative action, it is important, nevertheless, to recall that his ‘systematics of forms of comprehension’ regards four areas:


(1) ambits of cultural practice, (2) spheres of action where systems of religious interpretation retain powers to guidance such as impact immediately on daily behaviour, and, as a result, on (3) environments of secular, non-religious action, where the store of cultural knowledge is availed of for communication and (4) used to inform focused activities, without the structures of the world view involved being overtly declared as being among the aims of the activities themselves.


This means that the first two ambits are associated directly with the sacred. With regards to the first he states: ‘ritual (and sacrificial action) performed by the members of a group correspond to the myth, sacramental practice (and prayer) correspond to the community’s religious-metaphysical image of the world, finally, contemplative [emphasis by Habermas] actualisation of auratic works of art corresponds to the cultured religion of the early modern age’ [Habermas 1986b, II: 801]. In more explicitly social terms Habermas maintains that the sacred is grounded in cultural practice (with rites institutionalising social solidarity; sacraments/prayer institutionalising the pathways of salvation and knowledge; the contemplative representation of auratic art institutionalising the fruition of art); the second ambit is concerned with the world views that guide practice (myths; religious and metaphysical images of the world; the religious ethic of conviction; natural rational law; religious citizenship) [Habermas 1986b, II: 802]. Rite and myth belong to archaic society, sacraments/prayers as well as religious and metaphysical images of the world belong to the great ancient civilisations, contemplative representations of auratic art and religious ethical conviction as well as natural rational law and religious citizenship belong to the early modern age.


 Even today, religion represents a kind of cognitive challenge in that it bestows content and strength on social norms and, therefore, on solidarity among citizens. Rather than fade [Habermas, Sölle, Luhmann 1977], religion occupies a place within the public sphere [Habermas 2006a], where it acts as a mediator between two opposites, between fundamentalisms and secularisms. This is how Habermas responds to a provocation by Böckenförde [2007], who denies the secularised state the possibility of guaranteeing its own normative premises (possessed, instead, by the Christian religion) and invokes its reconstruction as a post-secularised state capable of addressing the present-day marked increase in religiosity and in fundamentalist movements[1].                               


In actual fact, the Frankfurt sociologist does not believe that the values of religion alone underscore democracy, seeing that democratic rules and procedures also make a contribution. However, he holds that it is indispensable that religions renounce their claims to truth, accept the authority of science and subject themselves to the law of the land. Dissent of both a religious and secular nature must always be taken into consideration. This does not prevent the achievement of reasonable consensus. Destructive secularisation is harmful to society itself [Ratzinger, Habermas 2005].


Habermas’s favourite perspective is illuminist, rationalist [Habermas 2002b] and secularist, although Habermas does not appear totally opposed to religion, as he requires it to engage with the secular world in a discourse favourable to dialogue.


In other words, religion is one of the constituents of the life world (Lebenswelt), even if processes of rationalisation and secularisation have reduced its weight, confining it almost to issues of meaning alone, seeing that the modern concept of consensus has replaced the authority of the sacred. This seems to indicate a crisis of religious legitimation [Habermas 1975], along with an extension of secular concepts of knowledge and, therefore, the notion of a public sphere more and more independent of religion. At the same time, however, Habermas [2006a] attributes a certain importance to the role of religion itself within a common language-diffusion process, which gives rise, besides, to a ‘linguistic elaboration of the sacred’ [Habermas 1986b: 648-96]. In short, religious thinking does not fall outside of rationality and may be taken into consideration when seeking to understand the forms and contents of rationalisation processes fully. In actual fact, the role of religion has not dissolved, it has simply changed. In any case, communicative action cannot be attributed to conditionings of a religious nature. On the other hand, however, the increasing secularisation of society must come to terms with the persistence of religious concepts and the confessional communities that express them [Habermas 2002a: 99-112]. Anyhow, post-secular society is called upon to address its own conception of secular rationality in broader terms as far as the enlargement of the horizons of knowledge is concerned (and in terms of learning about religious thinking too). In other words, the principle of separation between religion and state stands on a ‘post-secular’ foundation of mutual respect between religion and reason [Habermas 2006b: 19-50]. The secular state, however, cannot claim the right to impose its language upon citizens who are believers, and who are already obliged by their asymmetrical condition (with regard to non-denominational citizens and a secular state) to seek mediation between faith and secular reasoning, by balancing theology and ethics [Habermas 2006b: 30]. This is how it must ‘spread its wings’, as Habermas [1986a: 202] put it when recalling utopia and hope as theorised by Ernst Bloch.


Believers and Non-believers


Resistance to efficacious communications between believers and non-believers stems, above all, from the insurgence of two fronts built also upon institutional bases[2].


The problematic of secularity – it must be said – is essentially of European origin, initially French, later and gradually, Italian, Spanish, to become widespread. The seed planted during the age of Enlightenment later took the form and content of the revolutionary events of Paris 1789 (and not only). The Federation of the United States of America, during its early stages, was also acquainted with revolution, which did not, however, lead to consequences of a similar nature as far as religious phenomenology was concerned. On the contrary, in North America the link between politics and religion is rather close: the motto on the US coat of arms declares trust in God and the ritual instatement of the president of the United States makes numerous and repeated references to the Bible, the Christian religion, especially to the Protestant form of Christianity. Religious practice is widespread, as confirmed by several empirical surveys carried out in the United States; in Canada too, especially Québec, there seems to be little tendency to raise issues relating to secularity or, at least, it is not one of the main foci of discussion.


Martha Nussbaum (2008) of the University of Chicago, originally an Anglican philosopher and later a convert to the reformed Jewish religion, author of Liberty of Conscience, inher book  In Defence of America’s Tradition of Religious Equality, defends the Mormons’ right to polygamy, in compliance with her idea of total freedom of conscience and religion (a little like Poulat did, in his 1987 text on freedom and secularity). Yet Nussbaum does not seem to approve the French kind of secularity because, she holds, it is too constraining for believers, who are invited not to express themselves in public. On the contrary, for the Chicago professor the value of separation between state and Church is barely secondary compared to the primary one of equal freedom for citizens, both believers and non. As to the on-going issue of the refusal of blood transfusion by Jehovah’s Witnesses, she opts for the solution that mature, informed adults be free to choose, while their children ought to be safeguarded at all costs. Finally, Nussbaum also advocates including creationism in the syllabi of comparative religious studies though not in science programmes.


Barely south of the United States, in Mexico, we find secularism again, but here expressed in very different terms. This country too had a revolutionary beginning, Zapatism, which marked the end of religion in the public arena, during the first half of the last century. One of the most evident signs of the secular nature of the Mexican state may be said to be the law forbidding the clergy to wear cassocks in public. In short, this norm intends making it quite clear that religion is a strictly private matter that should in no way impact at state, and therefore, at public level.


In the other states of central and south America trends in relations between the state and the Churches have followed the vicissitudes of the single nations, which have undergone various kinds of experiences ranging from dictatorship to military government, from pseudo to effective democracy. Interpretations of the events of the past decades have not always been clear or devoid of basic ambiguity. In some instances there have been cases of cooperation or of ideological non-belligerence between the state and the Churches, with consequences that are still the object of diverging opinion even concerning interpretations of matters of fact.


In Asia, relations between the state and the Churches are associated, essentially, with the types of political regimes in force, but, in general, it is the political authority which establishes the rules and the limitations, independently of the opinions of the interested religious parties. With the odd exception, political power in that part of the world is self-referential and opposes all religious expression that does not comply with the system. A singular case is that of the People’s Republic of China where there are two Catholic Churches, one close to the positions of the national state, the other with the Church of Rome as its head. In Japan, on the contrary, the USA’s Jeffersonian model prevails; this envisages a neutral state which privileges none of the Gods available, thus preventing Caesar-God dichotomy while favouring the growth of a civil religious society which is both pluralistic and pacific. This explains the agnostic character of the Japanese scholastic system.


The African situation varies according to the dominant religious culture in the single countries, but reveals the partial failure of secular-based state interventionist scholastic policies. When Islam is the religion of the majority, it is usually very close to the state and this fact generally prevents the question of secularism from arising at all because of the particular kind of symbiosis existing between the Islamic religion and politics. But Islam (Bozdemir 1996) has had to adapt to animist religious trends, permitting polygamy and forms of syncretism. Relations between secularism and the Christian religions are more complex. In some states a formal separation between the state and the Churches exists, but, in actual fact, there is no real issue of secularism in Africa, because religiosity is widespread, assumes various forms, especially traditional and independent varieties of the animist and Kimbangist creeds. Concluding, we must add that various attempts have been made in Africa to eliminate religion by decree (Madagascar, Benin, Angola, Mozambique, Ethiopia, The People’s Republic of the Congo). Little by little secularism has made some headway and become a feature of the majority of state constitutions, but no real debate surrounds the issue which is seen as a foreign import and, therefore, confined mainly to small circles of elitist intellectuals. 


In Australia the predominant reference-model is British Anglicanism, although the conditions there are in way comparable to those of the United Kingdom; in any case, the question of secularism does not seem to present particular differentiations down there.


When all comes to all, secularism seems to be the issue of important debate in Europe alone. Above all, one has the impression that all sides seem to be striving to provide a definition of secularism based on a sole parameter. When religiously oriented intellectuals, or the official Church itself, propose a definition, the secular community objects. When the opposite occurs, the criticism comes from the religiously oriented.


One must note that it is impossible to disentangle this dilemma unless a joint solution is found, not necessarily one for all seasons, but at least one permitting consensus to be reached as particular issues arise. To demand respect for every definition of secularism would mean, in actual fact, surrendering to the difficulties arising from it and, therefore, resignation to the impossibility of establishing any valid definition at all.


The pivotal point is the public role of religion and religions, or rather, that the public dimension itself become the most fruitful arena where ideas and ways of conducting investigations ought to converge. A well-balanced scientific knowledge is the outcome of epoché, that is, suspension of judgment before expressing an evaluation, after deep and careful reflection.  


It should not be forgotten that there are a-religious, anti-religious and non-religious forms of secularism, expressed by non-believers, as well as varieties of secularity expressed by those professing different beliefs, that is, by those who believe in ways different from the official canon of the Churches or from the statistically more frequent modes of religious expression. This could lead to a boundless range of possible instances of etsi non daretur with God as their subject. The entire question is part of the scenario of the choices to make according to criteria of responsibility or rationality. Opposite, divergent and polymorphic views are always at work and do not favour easy advancement. In the long run, however, secularism – starting with its own plurality of stances and opinions, which assume concrete form as definitions and decisions (Norris, Inglehart 2011: 53-79) – remains profoundly, essentially, secular as long as it foresees and allows that perspectives other than the secular contain multiple alternatives. 


Fundamentalism and Laïcité


In the face of pluralism it is not neutrality but impartiality that is required, above all in the field of ethics and the law, where the power of the state must be exerted regardless of who the object of its legislative or punitive interventions may be. The impartiality of the law entails allowing liberty to embrace religious freedom (the exercise of which includes freedom of thought, association and assembly) as well. This perspective overrides the old principle of cuius regio eius et religio, because people are no longer obliged to follow the religion of their sovereign, their state or government.


But an ulterior obstacle exists: that of fundamentalism, which does not mediate, but demands application of the norm in all cases without distinction, failing to recognise the autonomy of interlocutors and insisting on its own reference-principles. At strictly juridical level, the principle of a form of justice which does not take any kind of favouritism into consideration but applies the norm and does not define itself as either secular or religious, may prevail, in compliance with the criterion of equality. What does remain open to discussion, however, is the need or otherwise that the positive legal order conform to the objective natural moral law, to the natural moral order (Dalla Torre 2008: 178). 


In any case, it is opportune to point out that secularity cannot expect religiosity to adapt to it nor can religion be expected to annul secularity simply to avoid meeting with opposition in the public sphere. To arrive at a similar conclusion, there is much to be done at both religious and political cultural level to provide the new generations especially, but the older generation too, with criteria of discernment sufficiently grounded in terms of a non-ideological type of knowledge. It is rightly held that a good religious education cannot but lead to a vigorous defence of the secularity of the state, without accepting surreptitious interest-grounded formulaic adjustments or agreements of the do ut des type, involving undue subjection of the Church by the state or vice versa. The principle of inclusive secularity cannot be considered as being the thin edge of the wedge used to permit the Church to penetrate the state nor, to the contrary, can the public arena be seen as the sphere where the state wields dominion over the church.


Meanwhile, one might advocate the re-introduction of theology into state university syllabi, to be studied from a non-confessional but a thorough and rigorously scientific point of view, in order to increment inter-disciplinary projects like that ground-breaking instance of dialogue between Jürgen Habermas and Joseph Ratzinger (Ratzinger, Habermas 2005). This might light the way to the lowering of barriers of prejudice and resistance, but also and in particular, it might offer ways of enhancing the quality of scientific approaches to themes like secularity and  religiosity, bioethics and biological jurisprudence.


According to Böckenförde (2007), religion should cease to be the caretaker of the soul of the state (and, therefore, no longer of either Christian or Moslem or of any other religious tendency) but should operate in society as civil religion capable of influencing the social order through individuals and the indications it provides them with. Therefore, one must expect, again according to Böckenförde, that it aim at playing a political role in agreement with its very own perspective, that is, the religious point of view. Dwelling on the secularity of the state, Böckenförde seems to suggest a  French kind of laïcité and prefer the concept of open neutrality towards all creeds (like Germany), but maybe the idea of impartiality would work better in this case and open up a broad enough pathway for the entry of religion or, rather, religions, into the public arena, without confining them, ghetto-like, to the private or at most to the so-called private-social sphere acting in lieu of the state itself. This scenario would permit the full achievement of Jewish, Christian and Islamic religious Weltanschauungen, without any kind of discontinuity between faith and action, between spiritual and worldly life. Once again it is a question of finding a balance between state secularity and the religious exigencies of a considerable number of citizens. This way, it would be possible to recover, as Böckenförde argues, some of the main values of Illuminism: human rights and freedom (of religion too).


There is certainly a link between the tópos of secularity and that of pluralism. The one and the other find themselves addressing once more the resilience of religion, which, regardless of the multi-decade surge of secularisation, maintains a basic solidity of its own. The reasons for pluralism may be pragmatic, a matter of opportunity: given the persistence of religions the only solution governments seem to opt for is widespread permissiveness. In any case, this choice seems to shirk responsibility for the difficulties created for those who expect greater autonomy and equality, but who instead, are required to give way to others and, to some extent, tolerate them. Thus, inclusiveness becomes tantamount to the exclusion of many who were already present inside of a given system. A more pondered kind of inclusiveness should appeal to values like justice, freedom, legitimacy and socio-political duty and accommodate positions at loggerheads with its own pre-existing ones. The risk is that of forcing freedom on those not prepared to accept it and who are entitled by right to disagree,  or of asking even of those who do not intend availing of it, so-called equality of respect, a concept still present, as filótimo, in Greek village culture(Cipriani, Cotesta, Kokosalakis, van Boeschoten 2002).     


Gian Enrico Rusconi (2000) has long been one of the foremost intellectual reference figures in the querelle on secularity, thanks to his forty-year-long standing as a cogent and rigorous contributor to the domain of public debate surrounding religion and politics. He is, therefore, a first-class protagonist and interlocutor, attentive, informed and respectful. In his opinion, the novelty of recent times lies in the Churches’ intention to contribute to a public ethos. This is a source of conflict for secularity which tends to bar religion from making contributions towards public ethics, as if God did not exist (the well-known etsi deus non daretur). The Churches, in truth, do not object to the secularity of the state but propose a so-called healthy secularity based on their own reference parameters. This leads to secular reaction, which refuses to brook any sort of diktat from institutions other than the state itself.


The greatest misunderstanding stems probably from the label “dictator ship of relativism” (Joseph Ratzinger, Homily for the Missa pro eligendo romano pontifice, April 17th, 2005; De Mattei 2007) which some exponents of so-called church-religion (an old term so dear to Rusconi) attribute to secular statements, which, on the contrary, prefer to refer to consensual regulation of ethical principles and their enforcement. On the one hand, stands the authority of the criteria of faith, on the other, those of the citizens as a whole, including believers of various kinds (or “differently believing”, as Rusconi likes to say).


It is held that public, secular ethics can differ, in a tolerable manner, from the ethos of private life; the religious public ethos, on the other hand while appearing more compact, also encounters divergences within the private sphere. The greatest distinction emerges from the different procedures applied by the two perspectives: the secular stance denotes a tendency to decide case by case, while the religious one seeks to draw up a general corpus of principles to be applied on all occasions.


So, the secular does not accept that the divine trespass on operative choices based on rights proceeding from rationality and consensus. Therefore, it requires the religious subject to adapt to the rules of the secular state. In other words, the convergence between faith and reason finds no support outside of church religion. But the secular position does not at all legitimise, Rusconi adds, the absence of any kind of moral rule, but, to the contrary, it foresees norms based on a consensual ethos, which is not easily accessed.


Rusconi, while contesting Böckenförde’s thesis (2007) whereby the Christian religion is capable of guaranteeing the normative premises the secular state lacks, observes that the historical roots of Christianity may be transformed, in time, into secular reasons and harmonise in the end with Habermas’s request that religions renounce their claims to exclusive truth, and engage in a real, reciprocal dialogue, for the advancement of science and the acceptance of the supremacy of secularity in the field of the law.  


Conclusions


Relations between the state and religion/s impact on several politico-territorial realities leading to results that depend heavily on historical contingencies, electoral trends, and systems of government. Indonesia, for example, is a country with a two-fold Islamic (just over 87%) and Christian (a little under 10%) presence, alongside two significant religious minorities (Hindu at around 2% and Buddhist at about 1%). In a similar context, as occurs in many other parts of the world (from Ireland to Cyprus, Israel to India, the Sudan to China), the problem of coexistence between diverse religious traditions and cultures within the same territory exists.


Universal history, besides, is a long litany of war and conflict between creeds as well as clashes between politics and religion. In the case of Indonesia, the solution found seems to have emerged thanks to a particular national ideology called Pancasila (Intan 2006), within which religion plays a relevant role and which is based essentially on inter-religious dialogue between Moslems and Christians. Neither the Islamic nor the secular character of the Indonesian state would be able, otherwise, to offer a way out. So Pancasila was the only possible alternative available if Indonesia intended maintaining its unity and diversity. Being obliged to deal with two conflicting ideologies, the solution Pancasila provided, showed that Indonesia did not want to be either a secular state where religion was totally separate from it, nor a religious state founded on one particular faith. In short, ‘both Pancasila and ‘secularisation as differentiation’ […] allowed one to avoid choosing between a secular state and a largely religious one’ (Intan 2006: 18). In other words, according to the principles of Pancasila the state remained religious without being theocratic.


The idea of variety within unity was the brainchild of Sukarno (the first president of Indonesia), who, keeping in mind the divisions within Indonesian Islam itself, expounded it on the 1st. June 1945 in a speech regarding the five principles of Pancasila, a word of Sanskrit and Pali origin indicating five (panca) fundaments (sila). Originally the five principles were: nationalism, internationalism or humanitarianism, deliberation or democracy; social justice or social wellbeing; and finally ketuhanan or Lordship. As can be seen, it was a mixture of Islamic and secular contents, and, indeed, tended to favour the latter. When however, the principles were reformulated and, eventually, reduced to one, reference to the Lord was retained and referred to on the basis of his oneness. The unity of the nation was guaranteed by a common reference to the Lord, shared and to be shared by all citizens. Thus, the religious content remained and the nation was not divided but strengthened in its unity by reference to the same Lord. It was, in fact, the oneness of the Lord that satisfied both Moslems and Christians because both considered the idea as being in perfect keeping with their faith. Not only, but the advocates of the secular state were gratified by the compromise reached thanks to the existence of a unifying factor in the best interests of the entire Indonesian nation. Later on, however, the situation grew less tranquil and episodes of tension between the various sectors of the Indonesian nation have occurred. The principle of sole Lordship has, however, contributed towards maintaining a considerable degree of national unity. 


The situation became more complicated, when, after Sukarno’s so-called Guided Democracy period, General Suharto came to power. His management of the country led to some reaction at religious level, especially among sectors of the Islamic population. The current diatribe concerning the contents of Pancasila is often accompanied by the most peculiar theories. The conclusive datum suggests that the weight of Indonesian religion or religions is considerable, as does the increased influence of Islam within the state, in particular among the members of Suharto’s New Order government. However, religious action does seem to contribute towards the promotion of democracy and liberation. One cannot overlook the important role played by intellectuals (Islamic and Christian) in favouring the  acceptance of Pancasila. In actual fact, «as a lifestyle, Pancasila invites Indonesian citizens to found a nation based on human values characterised by inclusion, not by discrimination» (Intan 2006: 222).


It is not the case to insist on Indonesia, which is simply an example of a solution which is achievable and has been achieved though not indefinitely. But it shows that when secularity is assumed as a value to be defended by the religions themselves and when religion and religions are taken seriously by the secular world, one can say that virtuous communication has been achieved and that further objectives may be reached. Perhaps, hypothetically speaking, only human dignity cannot be made the object of compromise being a generally recognised non-negotiable value, free from the obligations of reciprocity; it should be respected at all costs, even if others fail to comply. By way of coherence with what has been held so far, it is evident that this last point does not intend presenting an exception but begs examination and rebalancing on the basis of the outcome of the debate regarding it. Maybe this may become the hypothesis on which to base a kind of secularity and kind of religion which vie with each other in casting off ideology with a view to entering into dialogue, without, however, renouncing their own basic principles. Absolute truth is not to be found on either side, but it may be revealed by the participation of both, who cannot fail to concede to others what they ask for themselves. Respect and understanding stem from committed attempts at reciprocal recognition aimed at consciously deliberating on issues of an ethical nature, leading to new horizons for human action and excluding nothing from the domain of possibility, except for some mutually established values.


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RUSCONI, G. E. 2000, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Einaudi, Torino


TAYLOR, C. 2007, A Secular Age, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (USA)-London


WEBER, M. 1995, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano [Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen 1922]


WILLAIME, J.-P. 2004, Europe et religions. Les enjeux du XXIe siècle, Fayard, Paris



[1] At the same time, however, Böckenförde observes that religion, increasingly free as it is, does not inform public order and is separate from the state, which no longer either represents or protects any religion, though it does not deny it, above all because religion was born before the state.


[2] Broadly speaking, both as veritable historically-rooted corpora which emerged and established themselves in time, like the various states and churches, and as mind sets or ideologies, born and consolidated thanks to varying degrees of consensus obtained in different historical periods and in different geographical areas and remaining tendentially stable for some time, as in the cases of nihilism, materialism, Marxism, positivism, rationalism, liberalism, secularism, modernism, scientism, existentialism.

“Manfredi-Giacinto, il patriarca di borgata”, in Bartalotta (a cura), Nino Manfredi. Uomo e Artista, Piccin, Padova, 2014, pp. 258-69, in collaborazione con M. Mansi.

Roberto Cipriani, Maria Mansi


MANFREDI-GIACINTO, IL PATRIARCA DI BORGATA


Premessa


   Letteratura e cinematografia non hanno mancato di evidenziare in modo singolare i vissuti e le dinamiche relazionali rilevabili nelle periferie urbane italiane, con particolare riferimento alla situazione romana. Dopo le opere letterarie Ragazzi di vita[1]Una vita violenta[2], Pier Paolo Pasolini si è cimentato con la macchina da presa affrontando l’esperienza di Accattone, un film del 1961. In tal modo è emersa all’attenzione di un largo pubblico una serie di vicende e di traversie solitamente non presenti sulla ribalta dei mass media.


   Ma non è solo Pasolini a segnalare la drammatica situazione dei borgatari romani. Anche la sociologia scende in campo e lo fa con il taglio giusto, scientifico e divulgativo, che desta una larga attenzione sia attraverso l’insegnamento universitario sia mediante alcune pubblicazioni ad alta tiratura. In tal senso va segnalata l’opera pionieristica di Franco Ferrarotti, che coglie subito nel segno con un suo libro dal titolo quanto mai efficace ed immediatamente comprensibile nel suo taglio critico: Roma da capitale a periferia[3]. Ma l’approccio alla periferia romana non si ferma qui. Segue poi un altro titolo, emblematico e provocatorio allo stesso tempo, ad opera di un allievo di Ferrarotti: La dialettica del baraccato [4]La scuola ferrarottiana scende ancora in campo con una buona parte dei suoi esponenti: Maria Immacolata Macioti, Maria Michetti, Laura Tini, Paola Bertelli, Enrico Pozzi, Consuelo Corradi, Renato Cavallaro, ed altri ancora. Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la presenza di studiosi accademici soprattutto a Valle dell’Inferno, detta anche Valle Aurelia, è abbastanza frequente, per studi di vario tipo, ma soprattutto in forma di osservazione partecipante.


   Non è inverosimile che l’idea del film Brutti, sporchi e cattivi (1976) sia venuta ad Ettore Scola proprio a seguito del gran parlare che si faceva, a metà degli anni settanta, delle disastrose condizioni di vita da parte di tanti romani di adozione, immigrati dal sud, abitanti nell’estrema periferia della capitale, oltre il Grande Raccordo Anulare.


   Se la borgata di Valle Aurelia non condivide il tipo di insediamento delle periferie romane o dei cosiddetti borghetti, in quanto si trova in una zona centrale dell’Urbe, nondimeno molti tratti in comune restano: l’accentuata povertà, la promiscuità resa necessaria dalla ristrettezza degli spazi, l’assenza di lavori stabili, la diffusa disoccupazione che colpisce i giovani, le difficoltà di natura igienico-sanitaria, l’assenza di una rete fognante, le traversie da affrontare per l’approvvigionamento dell’acqua, la ridotta presenza od insufficienza di mezzi di trasporto pubblico, l’indisponibilità di servizi essenziali in loco.        


   A Pasolini e Ferrarotti si aggiunge dunque Scola, ma invero bisognerebbe dire segnatamente Nino Manfredi che, impersonando Giacinto, il protagonista del film Brutti, sporchi e cattivi, delinea il profilo di una figura esemplare nel firmamento cinematografico ed urbano di Roma. Grazie a Manfredi, appunto, si capisce molto di una realtà che sembra lontana ed invece è vicinissima: il vissuto molteplice e contraddittorio di chi risiede in una baracca: con grandi slanci di generosità ma anche con atteggiamenti e comportamenti che denotano un fondamentale egoismo, che tutto (o quasi) riconduce al proprio interesse privato, nonostante il carattere comunitario della famiglia allargata, anche ben oltre la misura e le regole della borghesia media ed alta.


Brutti, sporchi e cattivi


   Il film di Scola è stato girato sulla collinetta di Monte Ciocci, che offre uno sguardo panoramico congiuntamente sulla cupola michelangiolesca della basilica di San Pietro, sul viadotto ferroviario della linea Roma-Viterbo, su via Baldo degli Ubaldi, sulla Pineta Sacchetti e soprattutto sulla Valle dell’Inferno, con i suoi residui di vecchie fornaci, da tempo spente, ma le cui ciminiere testimoniano un passato fecondo di operosità ed opere (da quando Roma è divenuta la capitale d’Italia, cioè dal 1870, l’attività edilizia è cresciuta a ritmi esponenziali, dando lavoro a diverse generazioni di fornaciari, che hanno prodotto quei mattoni in argilla che si ritrovano copiosamente in molte strutture residenziali ed istituzionali che costituiscono il tessuto portante dell’Urbe). Si può dare che gran parte della Roma post-unitaria abbia cominciato a prendere forma e linfa costruttiva nella valle un tempo definita inferior (come si legge nelle mappe di qualche scolo fa) in quanto posta più in basso rispetto ai colli circostanti, in particolare ai piedi del Vaticano.


   Sullo sfondo di un contesto tanto prestigioso e ricco di memorie storiche si staglia, nelle scene del film, la figura di un dominus onnipresente ma non sempre vincente: un Manfredi-Giacinto che cerca di governare il suo entourage familiare ed extra-familiare senza riuscirvi ed anzi è costretto a difendere il suo denaro dalle mire del suo nucleo esteso. Nel frattempo però egli riesce ad ottenere qualche risultato positivo e tuttavia effimero: la vita riprende i suoi ritmi quotidiani fatti di espedienti per la sopravvivenza, lotte interpersonali, andamenti altalenanti fra tolleranza e razzismo, astinenze forzate (di ogni genere) ed abbuffate incontinenti, sopraffazioni e solidarismi.


   Tutto questo emerge in modo sintomatico e palese appunto dal protagonista Nino Manfredi, che fa del suo meglio nel dare un accento pugliese alla sua parlata, nel tenere il suo occhio sinistro in parte chiuso (quasi a non volere vedere in dettaglio tutto ciò che gli accade d’intorno), nel trovare il giusto mezzo fra drammaticità, realtà e comicità, in modo da trasmettere allo spettatore l’essenziale delle vicende narrate cinematograficamente e sapientemente accompagnate dal supporto artistico ed organizzativo di nomi di tutto rispetto, che vanno dallo stesso regista Scola (premiato a Cannes nel 1976 per la miglior regia, grazie a Brutti, sporchi e cattivi), agli sceneggiatori Ruggero Maccari e Sergio Citti (straordinario conoscitore degli ambienti marginali romani), al musicista Armando Trovaioli, al fotografo Dario Di Palma ed al produttore Carlo Ponti.


   Il film invero può dar luogo ad osservazioni critiche contrastanti ma forse quello che è più controverso è in fondo il carattere più esemplare, illustrativo e sociologicamente rilevante: la rappresentazione di un mondo reale, non astratto, persino riduttivo rispetto a certe fenomenologie che l’osservazione diretta sul campo mette in luce e segnala all’opinione pubblica ed ai decisori politici.


   Il mondo delle baracche è abitato da persone ed animali (da cortile ma in realtà in campo aperto), da lamiere e piante che fanno da quinte di un teatro all’aperto, di una rappresentazione open air che è messa alla vista di tutti, anzi bene in mostra dall’alto di Monte Ciocci sino ad abbracciare tutto l’intorno: dall’Istituto Dermoterapico dell’Immacolata su un costone della Pineta Sacchetti al Policnico Gemelli che lambisce la valle, dalla via Aurelia alla Città del Vaticano (con la Porta Pertusa – sotto il Torrione di San Giovanni -,  a lungo via di accesso verso la valle ma ormai murata da secoli).


   Nino Manfredi si muove a suo agio su un terreno che pare suo proprio da sempre: la Roma papalina e quella più popolare, la grande bellezza dei fasti imperiali prima e religiosi poi ma pure la grande bruttezza, la sporcizia e la cattiveria messe in scena da una compagine di venticinque attori (infanti compresi) che paiono rappresentare la loro quotidianità di sempre. In questo Nino-Giacinto è magistrale, anche nel senso didattico del termine, attraverso le sue movenze, le sue fisime per la proprietà della casa-baracca, le ansie per il suo pupo ovvero il denaro che nasconde, il legame profondo con la terra e con la realtà contadina di provenienza (pugliese o cociara che sia), il rapporto di odi et amo con la consorte, con la famiglia più o meno allargata e con il vicinato, il tentativo di riservatezza in un quadro d’insieme assai promiscuo ed embricato (la suggestione ha un sapore metaforico e proviene dalla storia del luogo, che ha fra l’altro una via detta degli Embrici a memoria dell’antica vocazione laterizia legata alla produzione tipica delle fornaci).


Vita di borgata


   Giustamente Arnaldo Nesti ha intitolato un suo libro, anni fa, Le fontane e il borgo[5], proprio per sottolineare la stretta connessione, reale e metaforica, esistente fra gli agglomerati umani e le sorgenti d’acqua. Il che è vero per la fondazione di città come per i conflitti territoriali, per la costruzione sociale[6] delle credenze ed appartenenze come per l’esercizio di un potere riservato ed esclusivo. Orbene anche nel film di Scola la fontana di borgata appare come un punto di riferimento essenziale per la trama e lo sviluppo della narrazione filmica. Alla fontanella (o al lavatoio pubblico) ci si ritrova per parlare, si dà appuntamento, s’incontrano i giovani fidanzati, si cerca l’amore della vita, si ha un pretesto per chiacchierare in attesa che si riempiano i contenitori da riportare a casa colmi per lavare persone ed oggetto e per cucinare. La fonte è unica, si fa la fila. Talora lunghi tubi di gomma, a turno, adducono l’acqua sino nelle catapecchie fatte di qualche mattone, cartone pressato, polistirolo, materiali da imballaggio, legname rimediato ed adattato alla bisogna.   


   L’acqua è uno dei pochi beni che i baraccati non pagano. Per il resto sono costretti ad arrangiarsi, a chiedere prestiti, anche per il vino che ovviamente i venditori non danno senza soldi. Singolare ma significativa è la progressiva riduzione di una richiesta formulata da un borgataro a Nino-Giacinto: dapprima tremila lire, poi duemila, più tardi cinquecento o, ancor meno, fino a scendere a duecento, per concludere con il minimo, appena cento lire, una miseria – è giusto il caso di dire -.


   Al mattino Manfredi fa colazione con il vino. Poi esce di casa, si fa per dire. E tutto comincia a svolgersi all’aperto. Motociclette vanno e vengono: servono per scippi e furti, per i quali lo spazio comune della borgata è un formidabile campo di allenamento. Un bimbo si gode il suo lecca-lecca. Una ragazza di colore (indicata come la negra) si affaccia nel paesaggio umano piuttosto composito. Anche un bimbetto di pelle scura fa la sua apparizione. Intanto galline e galli attraversano di continuo la scena, quasi a sottolineare la loro condizione di sudditanza, di destino prefissato, di relazioni di potere a carattere sessuale. Come un vecchio leone ancora in gioco Giacinto non manca di dire la sua e fa sentire alta la sua voce, nonostante l’età lo abbia debilitato.


   I giovanissimi dal canto loro sono segregati sin dalle prime ore del giorno in un recinto a loro riservato e costituito da una barriera di letti in ferro piantati sul terreno. Mandarli all’asilo è un lusso non permesso, neanche in caso di possibile gratuità dell’iscrizione: resterebbe pur sempre il problema dell’accompagnamento. In effetti il nucleo dei borgatari è collocato in una sede che si raggiunge dalla viabilità cittadina solo attraverso una lunga scalinata che in un altro contesto avrebbe potuto rappresentare una sorta di privilegio (guardare tutti e tutto dall’alto) ma che a Monte Ciocci costituisce un ulteriore motivo di separatezza e di emarginazione anche residenziale (la zona) oltre che abitativa (la casa).


Nino-Giacinto preferisce non scendere a valle, o meglio a Roma. Rimane sempre confinato nella sua baraccopoli ed anche quando incontra una sua nuova compagna, una sua amante, predilige il permanere in altura da dove, coccolato dalla sua donna, contempla il traffico cittadino, il resto del mondo, un reticolo di relazioni che gli sono del tutto estranee.


   Il patriarca della borgata non appare un menomato per il fatto di non essere tra gli altri cittadini romani, insieme con loro, accanto a loro, insomma in situazione di parità. A lui basta conservare il gruzzolo che ha nascosto, avere qualche avventura-esperienza amorosa e spassarsela per il resto del giorno. L’età lo giustifica ampiamente: ha già dato, ha procurato ai suoi un posto dove sopravvivere a due passi dal centro storico di Roma. Ad un certo punto pare persino filosofeggiare, anche solo nelle posture, nelle intonazioni della voce ed in suo titubare riflessivo che lo appaia all’ironia cupa e sferzante di Eduardo De Filippo, autore ed attore che ripropone se stesso sul palcoscenico. In fondo anche Nino Manfredi sembra perfetto nel suo ruolo di Giacinto, che fa il suo andare di piccolo cabotaggio fra le traversie quotidiane, magari leccando un sigaro, ma senza distrarsi dai suoi obiettivi primari: bere e mangiare bene, sfruttare qualche occasione di passaggio a livello sessual-sentimentale, prendersela con un avversario di turno, per esempio Cesaretto, un venditore ambulante ben furbo, che regala uno scopino da bagno. A parte questo, il protagonista passa il tempo ad ubriacarsi ed ascoltare la radio (sono invece le donne che si lasciano attrarre dalla televisione). Magari scherza con chi sottopone ad una messa in piega sotto un enorme casco da parrucchiere.


   Varie scene si sovrappongono e tanti sprazzi offrono motivi di riflessione che più volte riconducono al medesimo argomento: povertà e marginalità congiunte. Ne sono un emblema evidente sia un cane zoppo che fa uso solo di tre gambe sia un altro personaggio secondario del film che appare zoppicante quasi come il cane a lui specularmente giustapposto .


   L’immedesimazione dell’attore Nino Manfredi nel personaggio di Giacinto Mazzatella (cognome ben evidenziato a fianco dell’ingresso nella baracca, quasi estremo tentativo di recupero di un’identità negata) è ben calibrata, senza eccessi e sbavature.


   Il rumore dei treni della ferrovia Roma-Viterbo e del traffico automobilistico che scorre ai piedi di Monte Ciocci quasi non lo distrae affatto e lo rende piuttosto apatico di fronte alla realtà circostante. Se la prende con il figlio ma parrebbe più un atto dovuto, un volere mostrare un ruolo paterno che non gli calza affatto. Il rumoreggiare e gli strilli delle donne non lo sommuovono più di tanto. Mazzatella-Manfredi procede con un barcollare costante, con uno sguardo distratto-attento che scruta e valuta, desideroso di non perdere il bastone del comando specialmente quando il piccolo borgo si anima dando segni di vita piuttosto intensa, stimolata dall’atteggiamento di due sorelle ricettatrici e ricattatrici che speculano fino all’osso sulle necessità altrui oppure dalla reazione di una mamma che prende a botte un travestito od ancora da un ragazzino che mostra a tutti un topo o dall’arrivo degli altri bambini che escono dal loro pseudoasilo al suono festoso delle campane della basilica di San Pietro od infine dall’arrivo di una prostituta con un’auto lussuosa di marca Mercedes. Tutto ciò ha luogo mentre una vecchia rimane affascinata da films americani tramessi dalla televisione collocata nel bel mezzo della sua baracca.


   Gli espedienti per la sopravvivenza sono vari: dalla raccolta di carta da macero alle piccole ruberie, dalla riparazione di cassette della frutta al semplice elemosinare per strada. Pure galline e caprette possono costituire un’ottima risorsa alimentare in caso di necessità.


   Come in molte realtà tragiche, disperate, senza via d’uscita, ecco sopraggiungere pure il momento onirico, con un sogno straordinario fatto soprattutto di luci al neon. Nel frattempo la vecchia finisce su una sedia a rotelle ma ha ben tre televisori a sua disposizione. Il sogno notturno peraltro non è casuale visto che Giacinto-Nino opera specialmente di notte, in particolare per procedere alla verifica del suo denaro in contanti. Ma ad un certo punto non ricorda più dove ha nascosto il suo tesoro e viene pure intervistato dalla RAI-TV, che egli manda bellamente a quel paese con un vaff. Anche ai suoi numerosi conviventi rinfaccia, convinto ma con scarso senso dell’ironia, che hanno una stanza tutta per loro, senza tuttavia considerare le condizioni estreme di quella loro sistemazione.


   Ad un certo punto il protagonista si presenta con una barba lunga, rifiuta di finire in un ricovero per vecchi e si prende la sua rivincita con Iside, il suo nuovo amore, in una scena che vede entrambi i personaggi sdraiati sotto un enorme cartellone pubblicitario posto su Monte Ciocci con uno scenario di sfondo costellato dal passaggio di un gregge di pecore (evento non del tutto raro per gli abitanti di Valle dell’Inferno, che si trova in prossimità del parco del Parco regionale urbano del Pineto, ricchissimo di prati).


   Ma la scena chiave, per l’interpretazione di Manfredi e la svolta conclusiva del film è quella del grande pranzo in trattoria (che sembra riecheggiare un film di qualche anno prima, il 1973, La grande abbuffata di Marco Ferreri), momento scelto per avvelenare il protagonista ed ereditare i suoi averi.


Giacinto ed i bambini


   Nel film la presenza dei bambini è descritta da una serie di sequenze in cui una ragazza, quasi adolescente, ogni mattina passa a prendere i piccoli che la aspettano nelle loro case-baracche e la seguono con naturalezza per andare tutti, tanti, in un recinto-gabbia costruito con reti di letto metalliche. La gabbia viene poi chiusa con un lucchetto sigillato da una chiave. Nessun adulto è presente nella gabbia-asilo ed i bambini organizzano le fasi della  giornata, i loro giochi, i loro momenti di apprendimento attraverso l’esperienza condivisa di vita in una sorta di reclusorio, tra pari. Non è fuori luogo osservare che mentre il pollame è assolutamente libero di scorrazzare sono invece i ragazzini e le ragazzine a ritrovarsi in una sorta di pollaio dalle pareti più alte e rinforzate.


   La presenza infantile è metaforicamente muta: è raro sentire il pianto di un bambino nel chiasso concitato di voci che fa da sottofondo alla vita nella baraccopoli. In ogni caso i bambini partecipano a tutti gli eventi della famiglia, dall’accompagnare la nonna (insieme con tutti gli altri) a riscuotere la pensione all’offrire solidarietà e collaborazione alla mamma, prima e dopo che venga picchiata dal padre Giacinto. In questo singolare set che diviene un luogo di formazione, l’unico per loro, la fase primaria e quella secondaria della socializzazione si fondono e nulla pare offrire a questi piccoli-adulti l’opportunità di scoprire un mondo diverso e/o la speranza in un mondo migliore.


   Giacinto (Nino Manfredi) nel suo ruolo di capo-tribù, preoccupato in modo ossessivo dei suoi soldi, della sua casa, sembra non si accorga della presenza infantile, anche se numerosa, perché non costituisce una minaccia per i suoi beni da preservare. Invece è perseguitato dal sospetto che tutti i componenti della famiglia, figli, consorte, amante, nonna, vogliano impossessarsi del denaro che egli nasconde con solerzia e che riuscirà a conservare al di là di ogni tentativo di furto. “I parenti sono come gli stivali, più sono stretti e più fanno male” continua a ripetere. Dunque anche la baraccopoli non è tanto lontana nel tempo e nello spazio dalla realtà allargata del mondo degli uomini e delle donne che si ritrovano a vivere in una condizione meno disastrata. 


   L’affettività, poi, non è una componente rilevante nella vita di questa famiglia Mazzatella abbrutita dalla miseria sia di mezzi che morale, nemmeno quando Giacinto, durante il pranzo organizzato dai parenti per avvelenarlo, si commuove dopo la recita di un’innocente poesia da parte di un suo nipotino.


   La dimensione dell’affettività sembra però fare ancora capolino quando Giacinto si innamora di Iside (interpretata da Maria Luisa Santella), una prostituta, ed è da questa ricambiato. I due sembrano sospesi in alto sulla città, con sullo sfondo la cupola di San Pietro e la Via Olimpica, presi dall’illusione di poter sognare e di allontanare la malinconia e la solitudine che li circonda.



[1] Milano, Garzanti, 1955.


[2] Milano, Garzanti, 1959.


[3] Roma da capitale a periferia, Roma-Bari, Laterza, 1970.


[4] M. Lelli, Dialettica del baraccato. Dalla lotta per la casa alla crisi della città capitalistica, Bari, De Donato, 1971.


[5] A. Nesti, Le fontane e il borgo. Il fattore religione nella società italiana contemporanea, Roma, Ianua, 1982.


[6] P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, il Mulino, 1969.

“Religione e religiosità oggi”, in Arici, Gabbiadini, Moscato (a cura), La risorsa religione e i suoi dinamismi. Studi multidisciplinari in dialogo, FrancoAngeli, Milano, 2014, pp. 29-42.

Roberto Cipriani


RELIGIONE E RELIGIOSITÀ OGGI


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


            Lambert (1991) ha opportunamente distinto fra definizioni sostantive e definizioni funzionali della religione. Ma in verità la tradizione sarebbe l’autorità legittimatrice dell’atto del credere e dunque della religione.


            Si dibatte se sia opportuno procedere all’analisi empirica della religione avendo in mente una definizione specifica di religione o se non convenga giungere ad una definizione solo al termine dell’indagine. L’approccio comprendente invece rimanda – pur senza escludere “una davvero minima definizione sostantiva” (a very minimal substantive definition) legata al soprannaturale – al punto di vista espresso dallo stesso attore sociale mediante la sua definizione della situazione (e quindi della religione).


            Una definizione sociologica della religione è però applicabile al massimo ad un contesto limitato e per un tempo breve. La procedura di costruzione di una definizione della religione prende avvio dalla raccolta dei dati empirici, propone dei concetti orientativi e stabilisce delle strategie di ricerca. Non servirebbero dunque le definizioni di religione che fanno leva sul senso comune, occorrerebbe invece guardare ai processi di costruzione sociale della religione nel loro concreto farsi. Va poi da sé che nessuna delle religioni appare come la religione per antonomasia, per cui verrebbero a cadere anche le remore sull’uso della dizione sociologia della religione invece di sociologia delle religioni.


Le categorie sociologiche per l’analisi della religione


            Si dibatte se sia opportuno procedere all’analisi empirica della religione avendo in mente una definizione specifica di religione o se non convenga giungere ad una definizione solo al termine dell’indagine. In fondo è lo stesso problema della scelta fra un approccio che presuppone l’esistenza di una teoria preformulata rispetto alla ricerca sul campo ed un’opzione favorevole a trarre elementi utili alla costruzione di una teoria solo dopo la raccolta dei dati. Forse la soluzione più efficace è quella che prevede una concettualizzazione iniziale a carattere orientativo e non vincolante, che svolga dunque una funzione “sensibilizzante”, alla maniera suggerita da Herbert Blumer (1954), rispetto al tema da indagare. Sarebbero peraltro da preferire definizioni non troppo rigide, aperte ed abbastanza possibiliste sugli esiti del lavoro empirico.


            Vi sono comunque dei punti fissi od almeno privi di quelle incertezze che inducono a dubitare di proposte piuttosto estensive di ciò che si può intendere come religione.


            Innanzitutto è da prendere in massima considerazione l’aspetto storico. Se una data religione ha dietro di sé una storia lunga di secoli se non di millenni riesce difficile negare il suo stesso statuto, largamente riconosciuto ed accettato sino al punto che quasi non si pone alcun problema in termini di accreditamento sociologico. Di conseguenza nel caso di fenomenologie chiaramente inserite in un filone religioso storicamente radicato dovrebbe essere fuori discussione ammettere il loro carattere di religione. Anche le espressioni marginali, dissenzienti e minoritarie delle grandi religioni presenti nel mondo contemporaneo sono da annoverare quali forme religiose a tutti gli effetti.


            Il problema appare subito più complesso se si debba qualificare come religiose alcune manifestazioni che non hanno precedenti storici alle loro spalle e che divergono in modo significativo dalle modalità religiose più diffuse ed accreditate. Ovviamente nessun giudizio di natura teologica o confessionale potrà impedire di farle considerare come religiose se esse presentano taluni o vari aspetti che siano ritenuti comunemente come peculiari di una religione.


            Ogni tentativo di definire la religione è facilmente soggetto a critiche, anche perché credenza, chiesa, mito, rito, preghiera ed altro ancora sono leggibili ed interpretabili solo nel loro quadro specifico di riferimento. Ogni generalizzazione appare indebita. Pertanto la proposta che qui si avanza ha un carattere provvisorio sebbene sia fondata su molteplici esperienze di ricerca.


            Orbene, pur con tutte le riserve del caso, conviene avere in mente alcuni parametri come elementi di riferimento comunemente accettabili e convenzionalmente condivisibili.


Il concetto sociologico di religione


            Un primo criterio per definire la religione deriva prevalentemente dalla presenza di un riferimento metafisico, metaempirico, che individua in un qualcosa (un ente supremo, un essere superiore con caratteri divini, non assoggettabile a prova razionale, scientifica) l’origine e la gestione delle sorti umane. Ma tale criterio non è di per sé sufficiente, perché può presentarsi come religione anche una serie di atteggiamenti e di comportamenti che prescindono da un rinvio ad un dio e che vedono nella natura stessa una forza, una potenza altrettanto creatrice e pervasiva quanto quella divina. Inoltre non presupponendo la presenza di un dio, l’esistenza può essere vissuta in chiave religiosa e metafisica attraverso l’impegno verso se stessi e gli altri in uno spirito di profonda attenzione all’alterità ed ai problemi dell’umanità.


            Un secondo criterio può essere costituito dalla presenza di credenze e convinzioni più o meno profonde e sentite in merito ad una dimensione in larga misura connotata da contenuti spirituali, non materiali.


            Un terzo criterio vede un apporto significativo a livello di atti rituali orientati da un’ispirazione di fondo in termini di fede, di affidamento alla divinità o comunque ad un essere soprannaturale.


            Come quarto criterio è possibile contemplare l’esistenza di norme comportamentali dettate da un leader carismatico e dai suoi principali seguaci, anche sulla base di una serie di testi scritti e comandamenti da osservare.


            Al quinto criterio sono riconducibili varie azioni che denotano una sostanziale condivisione di prospettive religiose definite e da professare in modo palese.


            L’impegno personale di osservanza dei maggiori principi di una fede religiosa costituisce un criterio, il sesto, per individuare un orientamento religioso più o meno coerentemente vissuto come punto basilare di riferimento, come principio etico.


            La religione può esprimersi a livello di sentimenti, di emozioni, di sensazioni: ed è il settimo criterio, particolarmente sviluppato nelle più recenti indagini sia teoriche che empiriche, con specifico rinvio a nuove esperienze religiose, ai cosiddetti nuovi movimenti religiosi, che vivono spesso di peculiari enfatizzazioni degli aspetti soggettivi.


            In qualche caso si registra un altro criterio, l’ottavo: quello di un atteggiamento reverenziale nei confronti della divinità o del sacro in generale.


            Anche i principi, i dogmi, gli insegnamenti ufficiali rappresentano un corpus significativo da cui non è possibile prescindere, trattandosi di un criterio qualificante (il nono della serie).


            Un decimo criterio è dato dall’osservanza di norme e regole che sono ritenute fondamentali e degne di ogni attenzione, tanto che sul loro rispetto si presta giuramento.


            Come è facile desumere da questa semplice elencazione di criteri in nessun caso è possibile prescindere, in modo astratto, da situazioni culturali determinate, storicamente radicate. Il religare cioè il mantenere il legame riguarda l’obbligo verso le leggi, la tradizione, la prassi, ma anche verso l’appartenenza, il contenuto di fede, l’orientamento confessionale. Si tratta in pari tempo di credenza in dio ma anche di servizio reso a dio.


            Nondimeno qualche tentativo tipologico va effettuato, almeno a titolo orientativo-sensibilizzante. Oltretutto non ci si muove su un terreno del tutto vergine, giacché molto è stato seminato, qualche parte è stata nel frattempo tenuta a maggese – secondo un’espressione cara a Beckford (1991) -, qualche buon frutto è stato già raccolto. Con la consapevolezza della fertilità di ogni accumulazione conoscitiva, si può avviare la ricerca avendo in mente qualche punto di riferimento essenziale. Orbene per religione si possono valutare ai fini investigativi i seguenti approcci, ognuno a sé stante, cioè singolarmente, oppure in combinazione con altri secondo logiche dettate dall’esperienza e dalla metodologia di analisi prescelta.


            In primo luogo la religione è fatta di relazioni interpersonali con altri soggetti umani e/o con una o più divinità. Tali relazioni sono costituite principalmente da convinzioni (credenze), sentimenti (emozioni), principi (valori) e pratiche (riti, cioè atti cultuali, ma anche azioni, sia quotidiane che straordinarie), interconnesse fra loro in modo più o meno coerente. La libertà del soggetto nella sua imprevedibilità produce eventi non usuali e congiunzioni singolari. Intanto però la tradizione delle religioni storicamente riconosciute continua a consolidare i suoi tratti più significativi attraverso nozioni, precetti, cerimonie, secondo le contingenze temporali ed ambientali. Non rientra nella ricerca sociologica stabilire l’esistenza di un dio, l’immortalità dell’anima, il ciclo della reincarnazione, il sistema premiale o sanzionatorio del comportamento umano, la vita ultraterrena, la rivelazione divina all’uomo, ma ciascuno di questi elementi può essere qualificante per l’una o l’altra religione e rientrare dunque in uno schema definitorio (debitamente contestualizzato) non suscettibile però di prova empirica. Va poi da sé che nessuna delle religioni appare come la religione per antonomasia, per cui vengono a cadere anche le remore sull’uso della dizione sociologia della religione invece di sociologia delle religioni.


            In secondo luogo la religione si estrinseca come legame con la divinità, che tiene uniti gli uomini fra loro in chiave universale anche attraverso il sentimento di devozione verso un dio, per il rispetto che gli è dovuto. Pertanto l’oggetto di tale venerazione diventa qualcosa di sacro, di altamente diverso, intoccabile, superiore. Verso di esso ci si fa scrupolo di osservare con deferenza e reverenza ogni buona norma e prassi secondo precetti prestabiliti.


            In terzo luogo la religione è manifestazione di un credere profondo e convinto, è professione di fede anche accentuata e non del tutto riflessiva, non necessariamente critica, in rapporto a concezioni della vita che hanno il carattere di cogenza, di valore paradigmatico, con un’accettazione quasi incondizionata. La fede si esprime appunto nell’affidamento ai valori ritenuti fondamentali, indefettibili. Essi presiedono quasi ad ogni scelta, per quanto minima.


            In quarto luogo la religione è fervore, impegno, dedizione, pratica continua, comportamento devoto, pietà, in fondo religiosità manifestata esteriormente nel raccoglimento, nella compunzione, nella meditazione, nella riflessione, nel silenzio.


            Questi connotati della religione sono semplicemente una traccia dialogica ed aperta, in funzione di guida per la ricerca teorica ed empirica.


I dati empirici sull’Italia religiosa


A tre lustri di distanza dalla prima indagine completamente dedicata al fenomeno religioso in Italia, per di più sulla base di un campione realmente statisticamente rappresentativo dell’intero territorio nazionale (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), non è agevole rendere conto della situazione odierna relativa alla Chiesa cattolica nel nostro paese. Sono molte le dinamiche sociologiche intervenute nel frattempo a livello sociale, politico, economico e culturale, nonché attitudinale e comportamentale, che andrebbero debitamente analizzate ed interpretate. Com’è noto, la ricerca scientifica in questi ultimi anni ha subito pesanti restrizioni economiche che non hanno consentito il decollo di progetti d’indagine pur necessari.


Ci si deve dunque ridurre a trarre indicazioni da indizi e dati di diversa provenienza e natura, per potere tentare – in assenza di elementi più probanti – di offrire un quadro della situazione in termini sufficientemente plausibili, ma non certo del tutto soddisfacenti, rispetto a quello che la vasta problematica in esame meriterebbe.


Non sono mancati invero alcuni contributi anche significativi, ma si tratta di studi parziali, territorialmente circoscritti e dunque non in grado di fornire una visione complessiva relativa all’intera popolazione nazionale.


Ma qualche dato significativo si può trarre anche a seguito dell’accordo stipulato nel 1984 con lo Stato italiano che ha dato adito alla Chiesa cattolica di acquisire risorse importanti, specialmente grazie alla legge successiva, promulgata nel 1985, sul cosiddetto otto per mille. Tale operazione ha dato indubbiamente linfa vitale alle strutture ecclesiastiche italiane, che se ne sono giovate ampiamente, come mostrano le cifre e segnatamente l’andamento sostanzialmente costante delle entrate a loro favore.


L’entrata in vigore della normativa approvata non è stata immediata ma ha avuto inizio nel 1990, allorquando per la prima volta si sono contate le scelte operate dai contribuenti italiani tra le opzioni possibili, che elencavano, fra l’altro, sia lo Stato che la Chiesa cattolica. L’andamento nel corso degli anni è stato altalenante, con incrementi e decrementi di volta in volta, senza che si potesse individuare una chiara linea di tendenza a lunga gittata, ma in linea di massima si è registrata una discreta tenuta dei flussi. Però fare ora delle previsioni per quanto concerne l’immediato futuro rischia di essere fallace. Giova comunque tenere presente la dinamica del numero delle firme (o, meglio, delle quote percentuali riconosciute dallo Stato) in favore della Chiesa cattolica, di anno in anno:


Tab. 1


QUOTE COMPLESSIVE* DELL’8‰ PER LA CHIESA CATTOLICA



Anno


Quote

per la Chiesa cattolica

%

*


Differenza

in aumento (+)

o in diminuzione (-)

rispetto all’anno precedente


1990


76,17


=


1991


81,43


+


1992


84,92


+


1993


85,76


+


1994


83,60




1995


83,68


+


1996


82,56




1997


81,58




1998


83,30


+


1999


86,58


+


2000


87,17


+


2001


87,25


+


2002


88,83


+


2003


89,16


+


2004


89,81


+


2005


89,82


+


2006


86,05



* Va considerato che l’ammontare delle somme attribuite


deriva dalle firme effettivamente apposte ma anche dalla ridistribuzione in percentuale


della quota parte non assegnata (per mancanza di firme).


Pertanto il numero reale di firme per la Chiesa cattolica


è di fatto inferiore alle percentuali indicate in tabella.


Fonte: Elaborazione su Comunicazioni dello Stato italiano alla Conferenza Episcopale Italiana


Uno dei vantaggi derivanti dalla legge 222 è connesso al fatto che l’entità del sussidio statale non è più commisurato al numero dei sacerdoti secolari e regolari (che è andato diminuendo, nel suo complesso, in questo ultimo ventennio) ma al totale delle firme a favore della Chiesa cattolica, cui si aggiunge la percentuale derivante (in misura proporzionale al numero di firme) dalle quote non assegnabili per mancanza di scelta da parte del contribuente fra le alternative possibili.      Insomma anche chi non firma risulta offrire comunque un vantaggio al maggiore destinatario, appunto la Chiesa cattolica.


Un dato, anche se imprecisato (non si hanno informazioni chiare e puntuali al riguardo), resta comunque certo: il numero dei contribuenti che sceglie con apposita firma l’attribuzione dell’otto per mille alla Chiesa cattolica non si attesta sulle percentuali complessive fornite ufficialmente e dallo Sato italiano e dalla Chiesa cattolica. Verosimilmente si è ben al di sotto delle percentuali che danno un tasso costantemente superiore all’80%: il numero effettivo delle firme è di qualche decina di punti percentuali in meno, comunque meno della metà (per esempio nel 2004 le dichiarazioni dei redditi sono state 40.316.692, di cui 16.290.418 ovvero il 40,40% avevano una scelta valida relativa all’otto per mille ripartita tra Chiesa Cattolica, Stato, Chiesa evangelica valdese, Unione delle comunità ebraiche italiane, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia). Insomma la Chiesa cattolica in Italia non gode di consensi straripanti, come lascerebbero invece intendere le cifre messe a disposizione ed una loro ulteriore elaborazione.


Religione diffusa e religione dei valori


Nel corso degli ultimi decenni si è constatato che le relazioni fra Chiesa cattolica e Stato italiano – anche se non del tutto scomparse come punto strategico per la verifica del legame interistituzionale a carattere politico e religioso, fondato sull’interesse dei cittadini per i problemi di natura legislativa (si pensi alla diatriba degli anni ’70 ed ’80 sul divorzio e sull’aborto, per nulla paragonabile a quella attuale sul finanziamento pubblico delle scuole cattoliche) – non sono più un test di prova per la capacità della religione dominante di influire sulle vicende politiche italiane.


Peraltro il nucleo essenziale della religione cattolica diffusa è rinvenibile proprio nell’insieme di valori che costituiscono la base della condivisione di orientamenti e pratiche che accomunano cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, sul medesimo terreno dell’agire in società. Insomma attraverso questa mediazione culturale di valori condivisi passa gran parte delle decisioni operative assunte dai soggetti sociali. L’establishment ecclesiastico resta sullo sfondo. Non c’è più, se mai vi è stata, una stretta accondiscendenza all’ortodossia ed all’ortoprassi insegnate dalla chiesa cattolica, eppure il parametro essenziale resta il cattolicesimo come ideologia di orientamento.


La religione diffusa oggi in Italia non sembra accentuatamente diversa da quella di un quindicennio fa. Anzi proprio la sua persistenza ne costituisce una caratteristica peculiare. Se qualcosa è cambiato ciò è avvenuto a livello secondario, in aspetti di dettaglio e non di sostanza. Dunque la religione diffusa continua ad essere il risultato di una vasta azione di socializzazione religiosa che pervade anche tuttora la realtà italiana e non solo. Come spiegare altrimenti la tenuta massmediatica di un personaggio come il papa (anche indipendentemente dal suo carisma personale)? Il carattere di religione diffusa resta perché nasce comunque dalla religione, è intriso fortemente di religione e non è certo un fenomeno anticattolico, come del resto non è antireligioso neppure negli altri contesti in cui una religione è dominante e risulta diffusa.


Solitamente l’appartenente alla religione diffusa è poco praticante e poco attento agli insegnamenti direttamente legati a conseguenze pratiche immediate.


Inoltre nel caso italiano va pure considerato che appunto la presenza del riferimento al cattolicesimo, rintracciabile pure nei discorsi quotidiani, è la riprova dell’esistenza di una religione il cui peso non sfugge certo a quanti sono alla ricerca di leve potenti per accrescere il loro consenso politico-elettorale. Invero la religione diffusa può essere soggetta a strumentalizzazioni facili giacché il richiamo a valori religiosi ha sempre un suo fascino, un suo appeal.


E così allora non è molto facile distinguere fra religione diffusa e religione dei valori: la prima è inclusa nella seconda, che abbraccia un più largo settore della popolazione caratterizzata da diversi livelli di credenza. Le contingenze politiche e soprattutto i risultati elettorali non si spiegano solo con gli appoggi confessionali o con i rinvii a tematiche religiose: molti e complessi fattori interferiscono, al di là delle apparenze e dei pronunciamenti religiosi ufficiali e/o privati.


Indubbiamente la presenza di valori è una costante delle religioni storiche, più radicate a livello culturale. Tali valori rappresentano dei motivi ideali, dei concetti-guida, delle idee di base, dei parametri di riferimento, degli orientamenti ideologici, che presiedono all’agire personale ed interpersonale degli individui, lo rendono plausibile, socialmente collocabile, sociologicamente classificabile.


Orbene, ogni esperienza religiosa comporta una dedizione ad una causa, ad un ideale, con un coinvolgimento socio-individuale più o meno accentuato secondo le intenzionalità dei singoli, la loro convenienza (anche in termini di rational choice ovvero di opzione ragionata), la loro storia biografica, le occasioni presentatesi, gli incontri avuti, le prove affrontate. Il dirsi appartenenti ad una certa religione significa essenzialmente condividerne i principi di massima, le opzioni di fondo, le modalità rituali. Queste ultime consentono una visibilità delle appartenenze, l’incontro con i correligionari, la legittimazione dei ruoli operativi (e di potere, non solo simbolico), il rinforzo dell’adesione, l’approfondimento delle motivazioni valoriali.


Molto si deve indubbiamente alla socializzazione, in verità più alla primaria (essenzialmente familiare) che alla secondaria (scolastica ed amicale nell’ambito dei gruppi di soggetti aventi pari età). In effetti la costruzione sociale della realtà è la base da cui si dipartono le ramificazioni costitutive dell’impianto valoriale che presiede all’agire sociale, facendo leva su una concezione del mondo oggettivata e storicizzata e perciò dotata di un carattere religioso dal quale non è facile prescindere. Lo stesso significato ultimo della vita vi si inscrive a chiare lettere ed orienta atteggiamenti e comportamenti.


Intanto è ampiamente dimostrata la connessione fra valori religiosi cattolici e valori diffusi in ambito sociale. In molti casi vi è sovrapposizione fra gli uni e gli altri, se non proprio una totale identificazione. A dire il vero, partendo dal concetto di “religione diffusa” in riferimento soprattutto ai legami con la dimensione politica, si approda poi ad una concezione della religione presente in Italia come intessuta di elementi valoriali derivati direttamente dal bagaglio della socializzazione cattolica.


Innanzitutto resta tuttora valida l’affermazione che la religione diffusa investe larghi strati della popolazione italiana. Più di un’indagine ha consolidato nel tempo questa convinzione, che via via si è arricchita di nuove variazioni sul tema ma senza stravolgimenti. Di per sé anche la cosiddetta religione di chiesa sarebbe parte fondamentale all’origine della stessa religione diffusa. Ma per ragioni esplicative e per evitare equivoci è preferibile considerarla come una categoria a parte, a sua volta scomponibile al suo interno in base a differenze attitudinali e comportamentali dei soggetti intervistati (di solito raggruppati insieme secondo stratificazioni suggerite dalla cluster analysis che aggrega gruppi di individui con caratteristiche simili). Peraltro la diversificazione della religione diffusa rispetto alla religione cattolica istituzionale appare necessaria in chiave sociologica al fine di accertare i punti discriminanti fra modalità ortodosse ed eterodosse rispetto al modello ufficiale cattolico.


Ma l’aspetto più rilevante resta il forte radicamento storico-geografico e quindi culturale della religione più praticata in Italia. Appunto la forza della tradizione, la prassi dell’abitudine, il coinvolgimento familiare e comunitario rendono cogente, quasi imprescindibile l’appartenenza alla religione prevalente. Ove non arriva la socializzazione tra le mura domestiche sopraggiunge l’attività pastorale ed evangelizzatrice svolta capillarmente sul territorio da parte di sacerdoti e collaboratori laici parrocchiali.


In effetti il cattolicesimo è diffuso in ogni parte del paese ad opera di una struttura di Chiesa ben attrezzata da tempo e particolarmente capace di far ricorso ad un suo know how. Dell’efficacia di tali azioni la prova migliore è data dal facile proselitismo messo in atto da altri gruppi e movimenti religiosi, sopraggiunti in Italia, primi fra tutti quelli di marca cristiana (ma non solo). Un altro riscontro è rinvenibile nelle propensioni etiche e, specie nel passato, politiche.


Questi caratteri della religione diffusa ne fanno un’esperienza non autocratica, aperta verso altre soluzioni, poco attenta ai confini teologico-dottrinali fra appartenenze confessionali molteplici. I soggetti della religione diffusa sono poco propensi ad intraprendere battaglie in nome dei loro ideali di riferimento ma neppure avversano gli altri per l’espressione di punti di vista non sempre condivisibili.    


La religione diffusa potrebbe anche essere classificata come una “religione invisibile” (Luckmann 1969, 1985) sui generis, ma in realtà essa presenta la peculiarità di rifarsi in parte alla religione di chiesa, attraverso la partecipazione alle pratiche liturgiche ed ai riti religiosi, ed in parte ad una “semiappartenenza” o persino non appartenenza (nelle sue forme più periferiche, quasi confinanti con l’assenza totale di indicatori religiosi).


Nonostante la sua pervasività la religione diffusa non è però presente in ogni caso ed in ogni contesto. Infatti non è agevolmente catalogabile secondo indicatori omogenei. Di solito la cluster analysis delinea tre livelli di religione diffusa: il primo appare più vicino alla religione di chiesa, il secondo se ne discosta parzialmente, il terzo si colloca ai margini del continuum fra religione di chiesa e religione diffusa.


Se si guarda in particolare alla collocazione politica tutto l’arco ideologico-partitico ha i suoi seguaci distribuiti nelle tre grandi aree della religione diffusa. L’appartenente alle classi della religione diffusa preferisce soluzioni che vanno dalla destra all’estrema sinistra, con esclusione dunque dell’estrema destra.


Sul piano dei valori sembra restringersi l’area di quelli strettamente religiosi, ma è in aumento quella dei criteri valoriali laici però vagamente ispirati od ispirabili a modelli religiosi.


Anni fa era già stato posto il problema del mutamento all’interno della stessa religione diffusa. Il fatto è che mentre mutano, quasi impercettibilmente, i contenuti della religione diffusa anche l’approccio sociologico si modifica, mette a punto i suoi strumenti di analisi empirica, scava più a fondo nella realtà e cerca verifiche o falsifiche delle ipotesi-guida.


Invero sino alla fine degli anni ’80, non si disponeva ancora – stranamente – di risultati scientifici abbastanza affidabili e frutto di indagini serie, complete e realmente rappresentative in relazione all’intero territorio italiano. Fu dunque anche sulla scorta degli interrogativi sollevati dalla teorizzazione sulla religione diffusa che iniziò una stagione fertile di ricerche sul campo: dall’inchiesta siciliana su La religione dei valori (Cipriani 1992) alla già citata indagine nazionale su La religiosità in Italia (Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995), a quella a carattere internazionale e con una comparazione fra Europa e Stati Uniti su Religious and moral pluralism (Garelli, Guizzardi, Pace 2003).


La preghiera


In Italia è stato soprattutto Franco Garelli (Garelli, Guizzardi, Pace 2003: 77-114) ad evidenziare il ruolo del sentire religioso fra tensione spirituale ed espressione religiosa, esaminando i risultati di un’inchiesta sul pluralismo, statisticamente rappresentativa a livello nazionale. In merito alla «coscienza di essere una persona religiosa e percezione di avere una vita spirituale» vengono individuate sette categorie: l’ateo/agnosticismo cioè né religiosità né spiritualità (12,3%), la religiosità etnico/culturale cioè medio-alta religiosità e scarsa-nessuna spiritualità (17,3%), la spiritualità critica cioè scarsa-nessuna religiosità e medio-alta spiritualità (8,8%), la credenza debole cioè religiosità media e spiritualità media (23%), la religiosità maggiore della spiritualità cioè alta religiosità e media spiritualità (10,3%), la spiritualità maggiore della religiosità cioè alta spiritualità e media religiosità (9,5%) ed infine la fedeltà cioè alta religiosità ed alta spiritualità (18,8%).


Da tale scenario risulta che “a) In primo luogo, il termine religiosità desta nella popolazione più consensi del termine spiritualità, in quanto sono più numerose le persone che si definiscono religiose di quelle che ritengono di avere una vita spirituale. […] b) Tra i vari tipi di religiosità individuati quello della spiritualità critica desta particolare interesse, sia per l’orientamento culturale sotteso sia per i soggetti che più lo esprimono. […] c) Sulle due dimensioni qui rilevate (religiosità e spiritualità) quanti esprimono posizioni di marcata congruenza ammontano a circa il 50% della popolazione, mentre il 26% dei casi palesa un atteggiamento di sensibile incongruenza. […] d) In margine a quanto rilevato, si può ancora notare che la quasi totalità della popolazione riconosce il significato di termini quali religiosità e spiritualità ed è in grado di definire il proprio grado di coinvolgimento in queste due dimensioni” (Garelli in Garelli, Guizzardi, Pace 2003: 88-92 passim).


Non è senza significato che sin dall’indagine nazionale sulla religiosità in Italia si sia accertato che “gli italiani di 18-74 anni che dichiarano di aver pregato almeno qualche volta durante l’anno sono l’83%. Pregano anche i non credenti, soprattutto se sono in un atteggiamento di ricerca (49%) e coloro che credono in un essere supremo ma non appartengono ad una specifica religione (44%). Perfino tra coloro che si dichiarano atei c’è una quota, seppur piccola (8%), che prega” (Garelli in Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 91).


Le motivazioni della preghiera ripercorrono puntualmente la tipologia classica che annovera la categoria del misticismo (ricerca di relazione con la divinità: 44%), quella dell’impetrazione-perorazione per ottenere un sostegno nei momenti di difficoltà (44%), quella mista che vede insieme il desiderio di rapporto con Dio e la richiesta di un suo intervento, quella di ringraziamento (circa il 25%) che contempla sia la gratitudine che il pentimento per qualche colpa, quella fatta per tradizione ovvero per insegnamento ricevuto, quella dovuta ad una ricerca personale ed infine quella per domandare grazie (che sarebbe la meno frequente in Italia: 10%).


Le conclusioni sono che la preghiera “sia una modalità di espressione del proprio sentimento religioso ancora saldamente radicata e quindi destinata a permanere nel tempo, anche se circoscritta ad una minoranza della popolazione” (Garelli in Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 94).


Tale carattere minoritario previsto per il futuro non presenta ancora indicatori consolidati. Ma è anche vero che “le generazioni a noi più vicine e le persone più istruite rifuggono da comportamenti ascrittivi (pregare perché è un dovere o perché così è stato insegnato loro) e privilegiano più degli altri intervistati la forma di preghiera che forse meglio si addice all’uomo contemporaneo: quella intenzionata a far chiarezza dentro di sé” (Garelli in Cesareo, Cipriani, Garelli, Lanzetti, Rovati 1995: 96).


Senza soluzione di continuità anche ricerche successive sono rimaste nella medesima linea ed hanno confermato i modi tipici del pregare: come ringraziamento, come pentimento; privato-individuale-separato/pubblico-collettivo-unito; orale-detto/silente-mentale; laudativo/perorativo; fiducioso/supplice; spontaneo/fondato su testi.


In particolare torna utile segnalare quanto accertato ancora da Garelli (2011) più di recente: il 63,2% di 2411 intervistati in Italia si rivolge più spesso a Dio nella preghiera, il 42,3% alla Madonna, il 38,6% a Gesù Cristo, il 14,7% ai santi, il 13,1% ai defunti, il 5,2% allo Spirito Santo, il 3,7% agli Angeli.


Lanzetti (2011) evidenzia peraltro una “individualizzazione del credere”, che consiste nel mettersi in rapporto con Dio in un modo proprio, del tutto personale. Non a caso la pratica religiosa più diffusa è la preghiera: il 36% prega ogni giorno ed il 22% “con una discreta frequenza”.      


La religiosità popolare


Misconosciuta per decenni, criticata a lungo, rivalutata strumentalmente, quasi dimenticata negli ultimi tempi, la religiosità popolare torna a far parlare di sé per episodi inconsueti, per eventi inattesi, per usi diversificati nel tempo e nello spazio.


Innanzitutto è da chiarire che è preferibile dire e discutere di religiosità popolare piuttosto che di religione popolare, facendo perciò una scelta precisa sul piano terminologico, seguendo la lezione di un autore classico come il sociologo tedesco Georg Simmel (1992), sostenitore di una celebre distinzione appunto fra religione, come fatto storico-istituzionale, e religiosità, come sentimento diffuso e reso visibile in atti di pratica religiosa, cioè di comportamento empiricamente rilevabile. Ovviamente tale opzione apparentemente solo nominalistica è soggetta ad osservazioni critiche, ma intanto essa risulta chiara nei suoi contenuti sin dall’inizio della disamina scientifica riguardante il fenomeno sociologico in esame.


La religiosità popolare ha un suo andamento lento ma costante, duraturo ma non vistoso, per cui ci si accorge di essa quando qualche episodio di realtà quotidiana crea clamore e richiama l’attenzione momentanea dei mezzi di comunicazione di massa, per poi rientrare nel suo alveo quasi naturale, tanto incisivo perché dato abbastanza per scontato, divenuto abituale, come parte indefettibile della cultura specifica di un territorio.


Secondo Marino Niola, antropologo dell’Università di Napoli, “la Chiesa afferma che un buon cristiano deve essere anche un buon cittadino. In una certa cultura, però, l’etica non è universalista, ma funziona per aree, è riservata alla sfera della famiglia, intesa come clan, vicinato. Fuori valgono altre regole. È il contrasto tra un’etica civica che si basa su diritti e doveri e questa fondata sull’appartenenza. Quando il killer della camorra va a battersi il petto, piange e striscia sulle ginocchia fino all’altare della Madonna dell’Arco, non finge. Non avverte il fatto di essere spezzato in due: nel momento in cui ne avesse consapevolezza, avrebbe già fatto un salto di cittadinanza” (Jesus, settembre 2000, pagine 53-54).


            Questo tipo di spiegazione può anche apparire convincente ma il dato di fatto è che il magistero ufficiale della Chiesa cattolica in Italia non ha di solito la dimestichezza di affrontare tematiche di siffatta natura con strumenti essenzialmente scientifici. Prevalgono infatti altre motivazioni, spiccatamente teologiche e pastorali, le quali obnubilano ogni tentativo di comprensione che vada al di là della mera operazione evangelizzatrice. Insomma di quello che dicono gli specialisti del settore, anche di matrice cattolica, non si tiene molto conto. Pertanto ogni tentativo di analisi in proposito, per mancanza di consapevolezza del proprio wishful thinking, cioè di quel pensiero carico di desiderio volto direttamente all’obiettivo della conversione o della persuasione o della convinzione, crea un corto circuito con la stessa realtà dei fatti, oltre che con il mondo scientifico. La presunzione a volte è quella di dare quasi tutto per scontato senza lo sforzo e l’umiltà di una epoché, almeno temporanea, nei riguardi della problematica in esame. Certo non sono mancati esempi illustri di esponenti della gerarchia e dell’intellighentsia cattolica in grado di misurarsi con la ricerca empirica, con gli studi messi a punto dalle scienze sociali.


            Intanto però il linguaggio dei documenti ufficiali, delle dichiarazioni pubbliche e delle prese di posizione operative rimane sostanzialmente identico da un secolo all’altro, da un millennio all’altro: insomma la religiosità popolare è sempre e comunque da “purificare” come se in essa fosse intrinseco sempre e comunque qualcosa di “impuro”, di illegittimamente sincretico, di pagano, di superstizioso, di magico.


            Ed invece chi segue con mentalità scientificamente orientata le dinamiche interne ai fenomeni di religiosità sa abbastanza bene che diversi aspetti sono mutati nel tempo, simboli efficaci nel passato non lo sono altrettanto oggi, costumi e contenuti tengono conto delle istanze del contesto e dell’epoca.


            D’altra parte atteggiamenti di impronta iconoclastica hanno messo da parte riti millenari sostituendoli con liturgie improvvisate, creando una soluzione di continuità col passato, sprecando cospicue risorse in termini di capitale culturale e sociale, impedendo altresì una partecipazione diretta dei protagonisti alle scelte che li riguardano.


             Si sostiene certo che la religiosità popolare è sociologicamente rilevante e funge da collante sociale e religioso ma in pari tempo si segnala la necessità di andare al di là di essa perché non adatta alla pianificazione impostata ed imposta dalle strutture verticistiche di Chiesa.


Pietà popolare e “purificazione”


         Nel documento della Conferenza Episcopale Italiana per gli orientamenti pastorali 2010-2020, sotto il titolo Educare alla vita buona del Vangelo, i vescovi scrivono che “la pietà popolare costituisce anche ai giorni nostri una dimensione rilevante della vita ecclesiale e può diventare veicolo educativo ai valori della tradizione cristiana, riscoperti nel loro significato più autentico. Purificata da eventuali eccessi e da elementi estranei e rinnovata nei contenuti e nelle forme, permette di raggiungere con l’annuncio tante persone che altrimenti resterebbero ai margini della vita ecclesiale. In essa devono risaltare la parola di Dio, la predicazione e la catechesi, la preghiera e i sacramenti dell’Eucarestia e della riconciliazione e, non ultimo, l’impegno per la carità versi i poveri”.


         Ebbene innanzitutto si ripresenta come un ritornello ineliminabile il riferimento nominalistico alla pietà popolare, che tornando con insistenza come espressione contrapposta a quella comunemente in uso da parte degli scienziati sociali, che preferiscono parlare di religiosità (o religione popolare), risulta essere una chiara dichiarazione di intenti di non comunicazione con la compagine scientifica. Indubbiamente l’opzione a favore della pietà popolare ha precedenti prestigiosi nelle opere di don Giuseppe De Luca e di Gabriele De Rosa, ma per loro non rappresentava certo un’azione voluta di contrasto con il dibattito scientifico in corso, di cui anzi accoglievano le osservazioni critiche e le suggestioni più convincenti.


         Invero l’indefettibilità dell’idea di pietà popolare presenta i caratteri di una incapsulazione categoriale per evitare confronti e misure con altre posizioni ermeneutiche. Lo stesso discorso vale per l’altra costante presente nel linguaggio di Chiesa: il ricorso alla purificazione, insomma il voler emendare, senza una previa ed approfondita conoscenza dei dati di fatto. Numerosi sono i casi documentabili di lettere pastorali, di prescrizioni, di ordinanze, di regole dettate per ingabbiare la religiosità popolare, renderla inerte. In verità però il religioso popolare ha i suoi meccanismi interni di resistenza. Per cui alla fine la normativa resta senza conseguenze, i firmatari passano, i destinatari anche, ma poi le radici storico-culturali del comportamento popolar-religioso riescono a sormontare ostacoli e difficoltà per riemergere di continuo e proseguire nel tempo. Sicché gli stessi avversari di un rito religioso popolare potrebbero successivamente decidere di adattarsi ed anzi di inserirsi come protagonisti. Il che non avviene necessariamente con i medesimi personaggi ma con i loro successori più o meno diretti.


         Anche l’espressione relativa ad una evangelizzazione della pietà popolare (o, meglio, della religiosità popolare) ha il carattere di un sinonimo che sa di sostituto funzionale volto a sottendere la medesima volontà di purificazione. Così la lettera apostolica di Giovanni Paolo II denominata Vicesimus Quintus Annus mentre riconosce la centralità del popolare ne propone l’evangelizzazione, sic et simpliciter, senza operazioni previe, senza alcuna mediazione opportuna: “la pietà popolare non può essere né ignorata, né trattata con indifferenza o disprezzo, perché è ricca di valori, e già di per sé esprime l’atteggiamento religioso di fronte a Dio”. Nondimeno però essa “ha bisogno di essere di continuo evangelizzata affinché la fede, che esprime, divenga un atto sempre più maturo ed autentico”. In altri termini, sì la pietà popolare è un contenitore di valori, esprime la religiosità, la fede, ma necessita di un riconoscimento di legittimità e di un marchio di autenticità che solo la Chiesa dunque sarebbe in grado di fornire.


         Infine nel Direttorio della Santa Sede su pietà popolare e liturgia, invero, si riconosce che vi siano state decisioni improvvide che hanno cancellato forme del passato senza proporre nulla in loro vece. Inoltre si dà atto che la pietà popolare è “espressione del sentire profondo maturato dai credenti in un dato spazio e tempo”. Dunque una maturazione ci sarebbe ed allora non sarebbe ancora da raggiungere e vedere approvata come legittima. Però si rileva, di converso, che vi sono “modi imperfetti o errati di devozione, che allontanano dalla genuina rivelazione biblica e sono in concorrenza con l’economia sacramentale”. Il punto discriminante è perciò l’esercizio del giudizio di genuinità rispetto alla Bibbia o di concorrenza più o meno leale con l’amministrazione dei sacramenti. Ovviamente la struttura gerarchica avoca a sé questo diritto perché di sua esclusiva competenza. Ed il confronto prosegue: tra un approccio istituzionale che intende tutto gestire e regolare ed una religiosità popolare abituata ad autoregolarsi ed a trovare le sue soluzioni di sopravvivenza.


         Forse sono maturi i tempi per una interazione maggiore fra protagonisti della religiosità popolare (gerarchie ecclesiastiche comprese) e studiosi del settore, al fine di una migliore ovvero più adeguata conoscenza della materia in esame. Gli anatemi reciproci non producono scienza e non contribuiscono al cambiamento sociale in chiave di vantaggio per le persone coinvolte nelle esperienze religiose collettive ed individuali.


         Sovente si è operato in modo indiscriminato nei riguardi di celebrazioni, riti, tradizioni, intervenendo con decisione al fine di abolire, emarginare, misconoscere. Oggi invece sembra che una nuova consapevolezza stia maturando. Basterebbe un semplice ascolto delle diverse istanze, per poi discuterne ed eventualmente assumere le decisioni più opportune in chiave sociale e religiosa insieme.                         


Riferimenti bibliografici


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Roberto Cipriani


Sociology of religion in Europe


by Roberto Cipriani


Introduction


At beginning of Fifties Mauss (1872-1950), Radcliffe Brown (1881-1955), van der Leeuwe (1890-1950), and Tawney (1882-1960) were still alive and influenced social sciences of religion in Europe. But the most influential impact was that exercised by Gabriel le Bras (1891-1970) in France namely. A more critical approach was stressed by so called Frankfurt School, with Adorno (1903-1969) and Horkheimer (1895-1973). Some European sociologists of religion have emigrated into the States: Berger (1929-) and Casanova (1951-). But Luckmann (1927-) and Robertson (1938-) have come back to Europe. At same time important streams continued to act in terms of theory and research: in France thanks to Desroche (1914-1994), Séguy (1925-2007), and Bourdieu (1930-2002) from another perspective, and in England because of Mary Douglas (1921-2007) from a socio-anthropological point of view. In France particularly some studies on laïcité by Baubérot (1941-) and on Protestantism by Willaime (1947-) deserve attention. At the moment new waves are also emerging to study Islam and new religions in Europe.


In the development of European Sociology of Religion there are two main steps: the first is based on a sociographic approach, the second appears more scientifically oriented in terms of theories and methods. However the beginning has been correctly situated in a reliable theoretical perspective, which is the case of Frankfurt School. But at the same time, in the Fifties first scholars in the field were inclined towards an empirical gathering of any kind of data without a suitable frame of analysis. The transition from a confessional sociology to an academic, and value-free study, was slow and very difficult because of many obstacles coming from hierarchical leadership of religions. First decades were characterized by a double track but at a certain point the scientific solution prevailed. Different national discourse opened the road to sociology of religion instead of religious sociology, and step by step the majority of European sociologists of religion changed mind, and ecclesiastic reference point. Sociology of religion began to be a legitimated discipline, and outside church control. Of course in France and Belgium the process was faster than in Italy. However international meetings helped a lot to have a common roof, at least at European level.   


The key role of Frankfurt School


The scholars of the Frankfurt school did not seem to favor the study of the religious factor, particularly after their ‘criti­cal theory of society’, and the ‘negative dialectic’.


Nevertheless, Adorno (1903-69) and especially Horkheimer (1895-1973) gave stimulating and original readings on religion. Their reflec­tions began with the Marxist perspective, and reached a position charged either with theological implications or, at least, dialogically open toward the most attentive intellectuals. The sociologists belonging to the Institut für Sozialforschung maintained an aversion toward metaphysics and consequently toward any religious ideology, because they were convinced that the churches made instrumental use of reason in order to enslave and tame the social subject in the name of supposedly higher motivations that have little to do with the actual indi­vidual’s desires.


According to Horkheimer and Adorno ([1947] 1997), even though the Enlightenment actively contributed to conquering theocracy, it neverthe­less favored the advent of antidemocratic and despotic solutions in the name of absolute rationalization.


Horkheimer’s attitude toward religion ‘is not of mere negation but, rather, reveals a cautious, unforeseen approach. He examines the various aspects of religious phenomena and freely expresses his opinion about them also employing, as is common for him, irony and sarcasm. He is convinced, however, of the relevant social role of various movements and religious beliefs’ (Cipriani 1986: 12).


There is in Horkheimer a ‘nostalgia for the Other,’ which remains unex­pressed or at least suspended. However, what he told on the occasion of the death of his friend and colleague Adorno remains unambiguous. Horkheimer maintained that Adorno always talked about the ‘nostalgia for the Other,’ but he never used words such as heaven, eternity, or beauty. How­ever, Horkheimer laid stress on the fact that while Adorno questioned him­self about the world, in the last analysis, he perceived the ‘Other.’ At the same time, he was convinced that it is impossible to understand this ‘Other’ through a mere description. Rather, it is possible only through interpretation of the world as it is, also hinting that the world is not the only place, the only destination in which our thoughts might rest (Horkheimer 1969: 108-9).


Horkheimer himself (1970), while showing some interest in Judaism and Christianity (without however abandoning his initial Marxist posi­tions), talked explicitly and at length about a ‘nostalgia for the totally Other.’


According to Adorno, death did not represent the globality of existence. Moreover, Adorno was convinced that the impossibility of thinking deeply about death did not protect thought from the unreliability of every metaphysical experience (Adorno [1966] 1990). Briefly, the other world was denied as a reality but continued to bear weight in philosophical and sociological reflection. Besides, metaphysical categories, now secularized, still act within the impulse called ‘the question of the sense of life’.


In Minima moralia Adorno ([1951] 1993) attacked knowledge dominated by economic interests. The same thing occurs for religion. Adorno did not attack religion in the light of its primary essence, but criticized ideology that was available for uses of a capitalist kind. The violent criticism shown by Adorno against religion should be viewed as an attitude within the general picture of his vigorous attack against the whole of bourgeois society, namely in Europe. In fact, this approach was understandable within the general framework of Marxist analysis; more­over, Adorno did not spare Marxist analysis from some criticism. The final outcome was a rather pessimistic one. Adorno talked about hope but only within the historical dimension. As for salvation, he hinted that it repre­sented an opening toward hope but of a utopian kind (Cipriani 1986: 21).


The search for the ‘Other’ through the world, according to Hork­heimer’s interpretation of Adorno, was a final objective that could not be given up. In Adorno’s Negative Dialectics ([1966] 1990) there emerged a question about what could happen after Auschwitz. The main question was whether the death of innocent people should require a critical reflec­tion, and redemption as a last need for justice. If justice could not be found in the human world, the absence of any further hope – a divine justice that would give order to every element – would seem like an unexplainable monstrosity.


The starting point: Gabriel Le Bras (1891-1970)                                               Gabriel Le Bras, professor of canon law, promoted ‘religious sociology’ in France and elsewhere in Europe. He had a crucial role in the passage from a classi­cal sociology of religion to a better-implemented methodological approach, especially regarding the statistical dimension. In 1954 he founded the Group for the Sociology of Religion in Paris. He has been criticized for his exclusive attention to religious demogra­phy, to the data regarding religious practice, the number of religious believers who regularly attended mass, who attended the Easter services, and who confessed and took communion at least once a year. Actually, he explicitly affirmed that researching religious practices alone did not pro­vide enough data on ‘religious vitality.’ Notwithstanding this conviction, Le Bras’s research developed more in the direction of a census of the mul­tifaceted religious population rather than toward the sociological survey. He carried out his research mostly in France, and clearly stated in many of his essays (Le Bras 1955-56) his affilia­tion to Catholicism. His writings were published but always for Catholic journals, and in scientific symposiums in disciplines such as archaeology, history, and geography, as well as sociology. It was Le Bras’s conviction that research on religious practice was more accessible but was also more superficial. He was also well aware of the need for investigations into ‘the soul,’ more in-depth themes like the rea­sons for faith and religious feeling. In his view, such investigations should deal with the content and the intensity of beliefs within a specific envi­ronment, such as the parish, school, or workshop. Le Bras’s language (he talks about ‘souls’ instead of social individuals) revealed the perspective within which he moved. He was honest, however, about his intention to consider other important factors, besides mere practice, as religious indicators. Moreover, from the sociology of Catholicism he wanted to shift to a broader and more comprehensive sociology of religion. Le Bras wrote that he was conscious of the fact that sociology could stir feelings of enthusiasm as well as a great deal of suspicion among men of the church whether Catholic or Islamic.                                                                                                                         This eminent scholar of canon law was, however, able to obtain relevant scientific results as documented by a number of his contributions. In his essays he made extensive use of local studies, diocesan researches, university theses, and historical and sociological research projects. He was the organizer of so many scientific enterprises that his reservations about science seemed to fade away. Nevertheless, he tended more toward a religious sociology than to a sociology of religion or religions. Le Bras thought that research should be carried out in the ‘extraparish’ field rather than within the ecclesiastical experience. In the parish it was only possible to find the existence of tradition but not the evolution of religion. Le Bras was aware of faith as an interior phenomenon that escaped the possibility of research as such. He wrote that while it would be useless to attempt to establish a mathematical relation between external acts and consciousness, it would be senseless to deny a relationship that existed. Le Bras also established precise norms and methodological instructions aiming at a neutral research approach. He made suggestions on statistical procedures and warned against improper generalizations. Finally, Le Bras defined religious life as characterized by ‘beliefs, conducts and practices’.


A pioneer: Jacques Leclercq (1891-1971)                                                                 The history and the success of a social science discipline are not neces­sarily or exclusively linked to scholarly publication or to the amount and quality of research. Important or even more determining and contributing to the shaping and development of a discipline are factors such as scholar associations, changes in university regulations, the introduction of new teaching subjects, the setting up of research centers, the beginning of wide-ranging studies, the founding of journals, and publishing. All of these provided the new discipline with importance, visibility, and recognition both within and outside the university communities. They also brought in money and people, thus favoring the difficult task of establishing a new area of social science in Europe. It was well-known that, at least at the beginning, a new discipline is surrounded by doubts concerning its reliability and effectiveness.


This could well have been the case with sociology, and especially with sociology of religion. Notwithstanding the large number of European sociological works produced at the end of the nineteenth century and at the start of the twentieth, in many countries and universi­ties sociology did not have an easy life. These difficulties were not exclu­sively due to political reasons, as in the case of Italy (because of fascism). For example sociology arrived rather late in Belgium, notwithstanding its presence in neighboring countries like France, Germany, and England. In the Catholic University of Louvain, sociology was introduced thanks merely to Jacques Leclercq, an open-minded philosopher, who actively contributed to the overcoming of prejudices surrounding sociology’s presum­ably positivistic orientation.


After the Second World War, Leclercq’s aid to the development of soci­ology and of the sociology of religion was crucial both in Belgium and else­where. He founded the CISR – the Conférence Internationale de Sociologie Religieuse – of which he became the first president. The membership of CISR consists – till now – of both European and non-European sociologists, who meet every two years at a symposium to compare theories and research within the socio-religious realm. At first the CISR was ruled by a Catholic and chiefly European orientation. However, later (in 1989) the name was changed into the SISR – Société Internationale de Sociologie des Religions – thus losing its confessional and continental connotations. During the conferences English became the most used language, instead of French (for instance only 3 papers of Rome conference in 1969 were in French).


Leclercq’s approach was a rather empirical one as he was influenced by the North American sociological tradition, which favored a less specu­lative and less philosophical stance. In this Leclercq was close to Le Bras. However, he differed from the French scholar when he tried to unite the­ology and sociology, thus sociologizing theology. Leclercq wrote that he was not totally enthusiastic about the theology of sociology. He argued that it might be too soon to try this sort of synthesis. In the end, religious sociology as a method or field of investigation was just beginning (Leclercq 1955: 167): Leclercq was not giv­ing up his task, but was only postponing it.                                                                                  


The new wave: eclipse of the sacred in Acquaviva (1927-)


Sabino Acquaviva, a sociologist at the University of Padua, was among the first social scientists to write, in 1961, about the crisis of the sacred, using a statistical documentation of religious practice at the international level. From an early idea concerning the probable survival of religion in the future, the author of The Eclipse of the Holy in Industrial Society (Acquaviva 1979) has been gradually modifying his own statements, until he himself recognized in his book Fine di un’ideologia: la secolarizzazione (The End of an Ideology: Secularization): ‘roughly speaking the crisis of practice and the crisis of religion were almost coincidental: hence, the theory of the eclipse of the sacred in industrial civiliza­tion. … This theory was based on indicators used to measure the initial symptoms and the emergence of the crisis since the 16th century’ (Acqua­viva and Stella 1989: 7). However, ‘secularization as a process can by itself give rise to new ways of being religious. It is evident that if religion is robbed of its exterior forms, it allows in the end new ways of living the experience of the sacred precisely because the rules of the game change’ (Acqua­viva and Stella 1989: 9). Such an argument concerning the post-eclipse phase aims at emphasizing that ‘with secularization, religiosity, as well as religion, changes in quality and diminishes in intensity’ (Acqua­viva and Stella 1989: 11). In order to prove his point, Acquaviva created a neologism: he wrote that more than about secularization, it could be better to talk of ‘demagicalization’ (Acqua­viva and Stella 1989: 11). One should argue therefore that the eclipse of the sacred corresponded to the end of a magical use of the sacred. This interpretation of the socio-religious reality is not new, since in an earlier work he had written: ‘the magical use of the sacred is often tied up with popular and pagan religion, which in a Catholic milieu belongs to our past; this pagan religion somehow dis­solves after the decay of indulgences, of the use of sanctuaries and saints, and of the mythical image of the miracle as a potential factor of great turning points in our lives’ (Acquaviva 1979: 33).                                                                                   


The poser of secularization by David Martin (1929-)


David Martin, a British sociologist at the London School of Economics, has taken an openly polemical attitude to the poser of secularization, a peculiar  European concept: ‘I propose to consider the uses to which the term “secularization” has been put, and to show that those uses (or perhaps, more accurately, misuses) are a barrier to progress in the sociology of religion’ (Martin 1969: 9).


His radical critique (Martin 1967: 11) was expressed with strong persua­sion and passion. By comparing optimistic rationalism, Marxism, and existentialism, Martin reached the conclusion that the concept of secular­ization was subject to many ideological biases that led to superficial gen­eralizations. This was why he suggested deleting the idea of secularization from the sociological vocabulary. He examined the forms of secularization that have interested Christianity in connection with the development of scientific thought and proletarian alienation.


Martin has contested the utopian uses of secularization and stated the necessity of its correct use on the basis of classical sociological thinking. In fact, he has insisted that a wider critical approach be reached with contribution from the socio­logical community.


Martin again tackled the question of secularization in his book A General Theory of Secularization (1978), in which he suggested a survey of such phenomena, especially in Europe, and proposed his own theory. In his view, religion means the acceptance of a level of reality that goes beyond the knowledge of the world through science and also beyond the human dimension. At the same time, instead of insisting upon the rejec­tion of the term secularization, he maintained that it has a wide scope.


At the outset Martin clarified that it was not an abstract but an empirical theory, based on research data. It had an ethnocentric and mainly eurocentric outlook, as it concerned only the West; the author, however, was quite aware of this shortcoming.


Martin conceived a stratification of the various types of societies: monopolistic, typical of Catholic nations; ‘duopolistic,’ with a Protestant church as a majority partner; pluralistic as in England, with a state religion and other fragmentary forms of dissent; plu­ralistic in the Scandinavian sense, with a central role for the Protestant Lutheran churches; monopolistic in the sense of Christian orthodoxy, with a strong convergence between state and church in Eastern Europe. There are, however, exceptions both in the Catholic religion as well as in other confessions. A mixed model, formed by competitive religions in a specific context, for example, in the Swiss cantons, is also indicated. On the oppo­site side, Martin analyzed the model of the secular monopoly exemplified by the Soviet Union. In another chapter he addressed the model of reactive organicism, especially in postwar Spain with its cultural Catholicism, lim­ited dissent, high religious practice (with some differences: it was very low in Andalusia). A sociological remark was devoted to the crisis of the priest­hood. In essence Martin’s general theory of secularization was constructed on the basis of analytical categories derived from various cultural contexts.


A pioneer of sociology of religion in Europe: Bryan Wilson (1926-2004)


Together with David Martin, but even before him, Bryan Wilson must be considered a pioneer of European sociology of religion. He tackled a wide variety of topics with an unusual commitment.


His best-known work dealt with sects (Wilson 1961), and one of his pre­ferred topics was secularization (Wilson 1976).


The phenomenon of sects is a well-researched subject, which, however, is often affected by conceptual limitations and value judgments. For this reason Wilson tried to define rigorously the concept of sects and the typol­ogy that he derived from it.


According to Wilson, sects are voluntary organizations in the sense that freedom to choose to join them is almost total. Equally free, however, is the will on the part of the older members to accept or reject new applicants. A prospective applicant must pass a test in order to be part of the ‘we’ with which the sect identifies itself, as it considers itself an elite and imposes spe­cific rules for its members. The individual who does not obey is expelled. From this, a strong awareness of one’s commitment to the sect becomes apparent. An ideological legitimization covers each member and each activity.


The ways in which sects interact with the world are numerous: some sects accept the world, while other sects reject it. The various attitudes and reactions toward the world can be classified as follows: conversion (the aim is an inner personal change because the world is bad); revolution (a supernatural change can transform the world, which is wicked); introversion (salvation is outside society and for this reason it is necessary to withdraw from it); manipulation (salvation is possible in the world, but to achieve it the use of unusual instruments such as occultism, esotericism, physical strength, and money is necessary); thaumaturgy (the world is full of evils, and supernatural forces are nec­essary to escape the world and its normal laws); reformation (the evil is here, but one can remedy it with adequate interventions, to be suggested at a divine level); utopia (the world must be totally reshaped on the basis of religious principle).


This complex typology does not exhaust all the possible forms of ‘unorthodox reaction to the world,’ but it is certainly useful for a socio­logical understanding and interpretation of the contemporary develop­ment of sects.


The map of the American sects in Europe described by Wilson is also very helpful. These sects are characterized by a strong proselytism, e.g., with the Mormons, Jehovah’s Witnesses, and Pentecostals. Wilson studied their developments from their birth, and showed, for instance, how the Jehovah’s Witnesses have been able to transform themselves since World War II from a type of traditional sect into a genuine mass movement. Finally, despite external appearances, according to Wilson sects are communities of love. They live with the ten­sions of their conditions. As soon as these tensions decline, the desire to join other confessional groups is to be expected.


The relationship between religion and society presents itself as crucial when dealing with secularization. In Wilson’s view, secularization is not only a change in society, but also a change of society in its basic organiza­tion (Wilson 1982). In particular, this change conveys a reduction of the power of religions and an expropriation of ecclesiastical properties. The reference to the supernatural also diminishes, and in this way religion itself loses importance. For Wilson as for Martin, secularization is a lengthy process, which is subject to changes that took many of religion’s functions away.


Secularization is not only a factual condition, but it is part of the pro­found beliefs of the social agents: ‘Not only are men disposed to give less credence to the supernatural, and particularly in its conventionally received Christian formulations, but they are now – and this is a relatively recent change – strongly convinced that religion has diminishing impor­tance in the social order’ (Wilson 1976: 15). The data on religious practice confirm this orientation. The decline appears evident: conventional faith is no longer the same.


Ferrarotti’s (1926-) trilogy on dynamics of secularization


Franco Ferrarotti has analyzed the contemporary dynamics of secular­ization. He stated explicitly in A Theology for Non-Believers: ‘the present book is concerned with some of the discussions on which sociological dis­course has concentrated in recent years with important, sociological if con­troversial, results: from Robert N. Bellah’s ‘civil religion’ to Thomas Luckmann’s ‘invisible religion’ and finally to the somewhat myth-mak­ing theory of “secularization” by Peter L. Berger’ (Ferrarotti 1987: V). However, an incentive to discussion comes from the Italian context also, especially regarding the hypothesis of the Acquaviva’s (1979) ‘eclipse of the sacred.’ Fer­rarotti states his intent as follows: ‘far from witnessing an utter eclipse of the sacred, as some have incautiously announced, we are seeing a return to the sacred, experienced as a renuncia­tion of human reason, which has disappointed, and as a reversion to the irra­tional, to pure feeling as a source of satisfaction and to the primacy of absurdity, misty and suggestive at one and the same time…. [Moreover] the need is to rebuild a postrationalist rationality: one no longer dichotomous, based on the rational-irrational dilemma, but instead one able to take into account the arational and metarational impulses that are part of and even enter as decisive elements into human experience.’ (Ferrarotti 1987: 22)


Ferrarotti’s interests are not confined to the field of sociology of religion but extended to philosophy as well as sociology, from Kant, Marx, and Niet­zsche to Comte, Durkheim, and Weber. In this respect, Chapter 7 of a The­ology for Non-Believers is particularly relevant. Here Ferrarotti formulated a bold proposal for a sociology capable of reversing, as it were, theology, in such a way as to become ‘the basic instrument for linking ethical principles and social practice, or as the essential bearer of a historically rooted ethic, not merely abstractly, sterilely, preached’ (Ferrarotti 1987: 161). It seems that the author went beyond a purely sociological analysis or, to put it more precisely, he used sociological insights in order to elaborate a far-reaching project that become apparent in his concluding remarks: ‘not God, there­fore, but the mystery of God: the awareness and respect for the shadowy area that makes man – every man, every woman – inexhaustible, cog­nizant of the fascination of the irrational, recalling the movable horizon of the possible; beyond the push toward acquisition and utilitarian logic – a calm scrutiny of men and things’ (Ferrarotti 1987: 169).


Ferrarotti made a further development in his studies of the rela­tionship between religion and technology in ‘The Paradox of the Sacred’ (Ferrarotti 1984). While A Theology for Non-Believers faced philosophical and theological thinking about present-day issues, the author returned to philosophical considerations. This is the reason why the research began with observations concerning the crisis of rationality, the hunger for the sacred, the presence of the devil, and the industrial world. The character of the second volume of the trilogy was strongly critical and paved the way for the third volume, which was initially entitled After the Christianity of Constantine, but was finally entitled A Faith Without Dogma (Ferrarotti 1993), which was adapted from a statement by Simon Weil that ‘dogmas should never be affirmed.’


In ‘The Paradox of the Sacred’ Ferrarotti argued that it was a mistake on the part of sociologists of religion to fail to draw a distinction between religion and religiosity: ‘the confusion between church religion and religiosity as a deep, de-bureau­cratized personal experience hindered a recognition that not only was the supposed “eclipse of the sacred” not taking place, but that there was, rather, an undoubted growth of the need for religion and community, and that now we are witnessing the flourishing and growing “social production of the sacred”’ (Ferrarotti 1984: 19).


After stating that the ‘eclipse of the sacred’ was an ‘unfounded’ hypothesis, the author then presented his own perspective: ‘religion, the sacred, and the divine do not point to the same realities. They move on different levels and obey incompatible logics. In its hierocratic form, religion is the expression of the administration of the sacred. The sacred is contrasted to the profane, but it does not necessarily have need of the divine. One might say that the more religion gains as a structure of power and center of economic interests and socio-political influence, the more the area of the sacred contracts. The field of the religious and the field of the sacred do not necessarily coincide. With good evidence, one probably could maintain that when the need, or the “hunger,” for the sacred increases, then organized religion declines. The paradox is that organized religion is inti­mately desacralizing and that the pure experience of the sacred, even in its relation with the divine, is blocked rather than helped by the religious hierocracy. One would need hypothetically to conclude that there is not an eclipse of the sacred but of religion, more precisely of church religion’ (Ferrarotti 1984: 37).


There is, however, another paradox that must be considered: ‘the “sacred” is the metahuman, which is required most of all for human coex­istence, to avoid the flattening-out of living, the obscuring of the parame­ter or point of reference against which to measure oneself, the loss of the “sense of the problem,” the risk of the loss of what is really uniquely human in man’ (Ferrarotti 1984: 83).


In A Faith Without Dogma (Ferrarotti 1993) many of the notions and sug­gestions appearing in the first two books are re-discussed and further deepened. From the ‘wind of the spirit’ to the problems of theology, from the myth of development as a good in itself to the excesses of mechanistic rationalism, from the ambivalence of the sacred to Satanism and to the sociology of evil. In this work Ferrarotti took stock and used the empirical evidence from fieldwork conducted and dealt with in previous works, especially in Toward a Social Production of the Sacred (Ferrarotti 1970), and Comte and Durkheim dealing with the issue of religion. He was skeptical about the possibility of ‘civil religion’ (Bellah 1967) in Italy. In that country ‘the weakness of the theoretical, conceptual apparatus of Italian positivism is obvious, but the difficulties for “civil religion” in Italy, did not arise only from philosophical deficiencies. From its unification in 1860, Italy lacked a profound national experience, shared by all citizens, which would consoli­date its basic cohesion…. [In Italy] “civil religion” seems destined to have a difficult life and little capacity for obtaining that “interior disposition” to service for the common good that today seems to present itself as a basic pre­condition for the orderly progress of civil society’ (Ferrarotti 1993: 118-20).


These remarks are not incompatible with the positions elaborated by other scholars of secularization: ‘the sacred points to and presupposes a community link. In its external, rit­ualistic aspect, this link is the religious bond, the community of the faithful, the Church. But precisely for this reason, sacred and religious must not be confused. They are two realities that should not be hastily conjoined, even if in everyday language they are often used as synonyms. The fact is that the idea of the sacred precedes the very idea of God, and that the religious is probably none other than the administrative arm of the sacred, a power structure that continually runs the risk – diabolically – of replacing the sacred while proclaiming itself at its service’ (Ferrarotti 1993: 144-45).


History and sociology in Europe: Poulat (1920-)




Émile Poulat, Directeur d’Études at the École des Hautes Etudes en Sci­ences Sociales and Directeur de Recherche at the Centre National de la Recherche Scientifique, is one of the few European sociologists of religion suf­ficiently known throughout the world. He can be considered one of the most important contributors to the Archives de Sciences Sociales des Religions (before 1973 called Archives de Sociologie des Religions) if for no other reason than his detailed reviews of books and for his collaboration in the publi­cation of the journal as well as being a member of its reading committee.


His familiarity with other disciplinary sectors (through the jurist Le Bras), and especially with histori­ans, has also earned him great appreciation outside the sociological milieu. His way of conducting research in the field of sociology of religion is very original. A great specialist in Catholicism, he uses sociological instruments for detailed and persuasive analyses of phenomena, those belonging to both the present-day and the past. He moves with ease among different fields: Fourier’s utopian socialism (Poulat 1957), the Jesuit Bremond’s spir­itualism (Poulat 1972), modernism (Poulat 1962, 1982), the worker priests (Poulat 1961b, 1965), integralism (Poulat 1969), and from the problems of democracy to those of lay groups (Poulat 1987).


According to Poulat (1986: 260), there is a ‘Ecclesiosphere’ as we have a ‘Sovietsphere.’ The Ecclesiosphere is for Poulat a ‘sphere of influence of the Roman Catholic Church that forces the other spheres but also other countries to come to terms with it.’ Moreover, Poulat maintains that the ‘sphere of the church goes well beyond the church itself as outlined in Canon Law; it can no longer be identified with the people of God, a doctrinal notion which is based on faith’ (Poulat 1986: 267).


As is perhaps to be expected, Poulat centers his attention on France (but not only). From this social laboratory he opens up to other contexts in order to reach conclusions that would be applicable to the wider Catholic world. He studies the origins of modern freedoms, of republican laypeople, and of the scientific culture, which are not favorable to religion (Poulat 1987). What he says about the two French worlds, the lay and the Catholic, is that there is a confrontation between them. This issue is very much alive in other European countries. His conclusion is that none of the reali­ties of conscience, church and state, has the means to remain self-enclosed. When one of the three elements is too invasive, oppressive, or threatening, it might happen that the other two make an alliance against it. Within human soci­eties, between tyranny and anarchy, freedom points to a narrow path; it is a permanent invention, a fragile enterprise, but also a tremendous force (Poulat 1986: 435).


A similar question concerns religion in Europe, which cannot only be a domain reserved to the churches. It is, in fact, also a question of the state, of the European states, although they conceive of themselves as being liberal and lay. They share the same conception of the state based on the rule of law and of freedom. This puts them up against a paradox: on the one hand, nothing can escape the law, not even freedom, on the other hand, they are all far from having an identical conception of law and of freedom (Poulat 1993: 408).


Poulat is also a scholar who loves to do research in the archives, in which he finds key documents of the relationship between state and church, precious and enlightening letters, personal data (Poulat 1961a), unpublished texts (Poulat 1957), or little known works (Poulat 1972).


His knowledge of the European Catholic world, its clergy, and the religious intel­lectuals of the eighteenth and nineteenth centuries turns his publications into a gold mine of historical-sociological information and interpretations. Writing about the spiritual powers, Poulat defines the Holy See as a ‘power that is denied but recognized. Historians can tell us how, being practically excluded from political power at the time of Comte, the church has been able progressively to reenter the international scene, causing sur­prise on the part of many outside the church and scandal on the part of some inside the church’ (Poulat 1988: 53).


Regarding the present-day socioreligious situation (with respect to France) Poulat’s perception appears to be well balanced between the atti­tudes of the laity and of religion as a private, personal experience. In this way private values are being negotiated and evaluated in the social world almost as in some sort of stock market. But the signs of religious crisis are there.


Emotions and religion. Hervieu-Léger (1947-)


Danièle Hervieu-Léger has been a teacher in Paris at the École des Hautes Etudes en Sci­ences Sociales, and a member of the Centre d’Études Interdisciplinaire des Faits Religieux, and has also been chief editor of the Archives de Sci­ences Sociales des Religions. Hervieu-Léger has made some innovative con­tributions to sociology of religion and has published some works with Françoise Champion (Champion, Hervieu-Léger 1990; Hervieu-Léger, Champion 1986).


She must be credited with a revision of the concept of secularization, which is to be understood not only as a crisis of religious institutions that are unable to have an impact on contemporary societies. In fact, these soci­eties themselves are at present capable of producing some alternative ways of socializing through diversified forms of experience, such as the new religious movements.


The contradictory symptoms of a sacred in crisis and at the same time of new religious enthusiasm calls the relationship between religion and modernity to the attention of Danièle Hervieu-Léger. The problem is to understand, between decline and renewal, what religious dynamic is at present developing, after ‘the disappearance of the practicing believers’ (Hervieu-Léger, Champion 1986) and following the ‘de-Catholicization’ and the end of ‘parish culture’ and ‘civilization’. The conclusion is that the accent on the affective relationship with God, as a source of personal fulfillment and of enrichment of relationships with oth­ers, tends to move the practicing Catholic toward a transcendent human­ism that seems to jeopardize an ethical affective conception of salvation with a dominant worldly characterization (Hervieu-Léger, Cham­pion 1986).


After having considered separately the future perspectives of Protes­tantism and of Catholicism, Hervieu-Léger argues that a new Christianity consisting of ‘emotional communities’ is on the rise. This is a religion com­posed of voluntary groups in which one becomes a member on the basis of an explicit choice. This strongly personalized choice creates a very intense bond between the community and each of its members (Hervieu-Léger, Champion 1986). These militant members distance themselves from the most observant believers. In the last analysis, Hervieu-Léger maintains that the expansion of religion based on ‘emotional communities’ corresponds to the quest for a new type of compromise, in terms of self-real­ization between Christianity and a modernity that has broken up its con­tacts with the Christian eschatology (Hervieu-Léger, Champion 1986). In the end religion becomes some sort of ‘authorized collective memory’ based on the recognition of its values.


Hervieu-Léger defines religion as a way of believing with a constant reference to the authority of a tradition and to the continuity of a family of believers, or ‘believing descendency.’ By the term ‘believing’ Hervieu-Léger means a totality of individual and collective persuasions, which do not depend on empirical verification and, in general, on recognized methods of scientific control. On the contrary, these persuasions find their justification in the fact that they give coherence and meaning to the subjective experience of those who believe. It is ‘believing’ rather than faith: this is due to the fact of including, besides the usual persuasions, all those practices, lan­guages, gestures, spontaneous automatism through which beliefs manifest themselves (Hervieu-Léger 1993).


Luhmann (1927-1998) and religion as function


German sociologist Niklas Luhmann was a coherent systemic functionalist who wrote about religion. Luhmann recalled that, for his late wife (and also for himself), religion’s meaning went beyond whatever a theory could say (Luhmann 1977).


Luhmann’s essay on the function of religion was not born out of a unified project, nor was it part of an intellectual plan especially dedicated to the study of religious phenomena. The five chapters of Luh­mann’s volume dealt with different questions: the social function of reli­gion, religious dogma and social evolution, contingency transformations in the social systems of religion, secularization, and organization. The second chapter, the longest, is a discussion directed to theologians. Quite a few insights do not belong to a purely sociological domain and amount to a call for specific activities in the religious field (in the first place in the theological one). One must add that Luhmann’s contribution was part of his theory of functional differen­tiation, which he applied to many other fields, from politics to law. It is somewhat difficult to understand his reasoning completely, especially because of his concise conceptual definitions.


His main point is that religion, as a social system, regulates the rela­tionships of people with the world in a comprehensive and ultimate mean­ing. Naturally, society is the essential condition for being in the world in a meaningful way. With the concept of system the difference between inter­nal and external, between environment and system is introduced in the analysis. This difference can be illustrated as a difference in complexity so that the environment is always more complex than the system itself. In practice a society is a social (external) system that aims to reg­ulate the environment (internal). The system serves to reduce the com­plexity of the environment. For this reason the former is always less complex than the latter.


At the same time it should be kept in mind that the environment is external with respect to the system, which is that whole mechanism of elaboration that answers to the enormous and infinite variability of the environment. It is necessary, at this point, to take into account the fact that society as a system means for Luhmann that it is essential to imagine it as an entirety of subsystems, each keeping under control a portion of the external environment. There are, of course, various subsystems, or partial systems (politics, law, religion, and so forth). Finally, it should be remem­bered that individuals with their various forms of living, desiring, behav­ing, and believing constitute a vast, unpredictable series of social models and actions: hence, the complexity of the social environment (Acquaviva, Pace 1996: 45). The function of each system consists in reducing the dif­ferentiation through subsystems or partial systems that provide rules and procedures for better communication.


If functional systemic logic is applied to religion, one finds that reli­gion fulfills for the social system the function of transforming the indeter­minate world, in the sense that it was not possible to limit it toward the external (environment) and towards the internal (system), in a deter­minable world in which system and environment can have a relationship which excluded both from arbitrary change.


The distinction is also evident, together with the correlation, between religion (of a social context) and the religiosity of an individual character. In fact, there are personal as well as social sources of religiosity. Being united for the other environment of the system, they depend on one another without being, however, reducible to one another.


Reli­gion produces its own communications that do not have, however, a meaning for the whole social complex. This, also, is a sign of secularization because the religious subsystem is only one among the many possible sub­systems. It gives a meaning, it determines a sense, but with a limited valid­ity. Despite this fact, Luhmann maintained that the function of religion is no longer integrative but interpretative. That is to say, for the individual it represents a resource of meanings that allows one to imagine as united what is in reality divided, as absolute what is relative.


Luhmann thought that religion is called upon to develop the function of representing the non-representable. In other words, religion has the functional task of representing, that is, specifying, determining or rendering at least determinable, what is not presentable and determinable: the world, the whole. The prob­lem consists in transforming complexity from indeterminate to determi­nate: religion has to do, in the last analysis, with the contingency of the world.


Conclusion


Sociology of religion in Europe has a strong tradition because of its  classical roots linked to Durkheim, Weber, Simmel and many others. Today the presence of sociologists of religion in Eastern and Western countries is diffused enough, and the number of investigations is conspicuous. Hundreds and hundreds of European scholars participate in international conferences every other year: this is the result of more than fifty years of organization and scientific work which started on the 3rd of April 1948 in Belgium as Conférence Internationale de Sociologie Religieuse (CISR).


Some relevant journals in the field are published in Europe: Archives de Sciences Sociales des Religions, founded in 1956 as Archives de Sociologie des Religions (http://assr.revues.org); Implicit Religion, published by Centre for the Study of Implicit Religion and Contemporary Spirituality (www.equinoxpub.com); Journal of Contemporary Religion, published by Routledge, Taylor & Francis Group (http://www.tandf.co.uk/journals/titles/13537903.asp); Religioni e Società. Rivista di scienze sociali della religione, published by Firenze University Press, and directed by Arnaldo Nesti (http://epress.unifi.it/riviste/); Social Compass. International Review of Sociology of Religion. Revue Internationale de Sociologie de la Religion, published by Sage, also on line, founded in 1953 and from 1960 official journal of Fédération Internationale des Instituts de Recherches Sociales et Socio-Religieuses (http://scp.sagepub.com); Religion and Society in Central and Eastern Europe, official journal of International Study of Religion in Central and Eastern Europe Association (ISORECEA) (http://www.rascee.net/index.php/rascee/issue/view/5/showToc).


Many activities characterize centers and research groups like Centre interdisciplinaire d’étude des religions et de la laïcité (CIERL), Université Libre de Bruxelles (http://www.ulb.ac.be/philo/cierl/); Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), directed by Massimo Introvigne (http://www.cesnur.org/); Faculty of Religious StudiesUniversity of Leiden (http://www.religion.leiden.edu); Groupe Sociétés, Religions, LaïcitésConseil National de la Recherche Scientifique in Paris  (http://www.gsrl.cnrs.fr/head.htm); Institut d’Études de l’Islam et des Sociétés du Monde MusulmanÉcole de Hautes Études en Sciences Sociales in Paris (http://www.ehess.fr/centres/institut); Institut Européen en Sciences des Religions (IESR) in Paris, directed by Jean-Paul Willaime (http://www.iesr.ephe.sorbonne.fr/); Politique, Religion, Institutions et Sociétés: Mutations Européennes (PRISME) at University of Strasbourg (http://prisme.u-strasb.fr/site10).


Scientific associations too play a key role: Associazione Italiana di Sociologia – Sezione Sociologia della Religione, founded in 1983 (http://www.sociologiadellareligione.it/); British Sociological Association – Sociology of Religion Study Group, founded in 1975 (http://www.socrel.org.uk/); Deutsche Gesellschaft für Sociologie – Sektion Religionssoziologie (http://dgs.iz-soz.de/index.php?id=103);  International Study of Religion in Central and Eastern Europe Association (ISORECEA) (http://www.isorecea.net/isorecea/).


Finally Eurel is a reliable data bank for information concerning European socio-religious issues: http://www.eurel.info/EN/.


Of course the list of main sociologists of religion in Europe could be very long. Let’s quote just a few of them: in past years Silvano Burgalassi (1921-2004) in Italy, and Yves Lambert (1946-2006) in France; at present François Houtart (1925-), Jean Rémy (1928-), Karel Dobbelaere (1933-) and Liliane Voyé (1938) in Belgium, François-André Isambert (1924-) in France, Eileen Barker (1938-), Jim Beckford (1942-), Grace Davie (1946-), and Steve Bruce (1954-) in United Kingdom, Arnaldo Nesti (1932-), Enzo Pace (1944-), and Franco Garelli (1945-) in Italy.


To draw a conclusion: sociology of religion in Europe looks well established, and scientifically appreciated, with a promising future for new generations of scholars.


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“Religiones y política en Europa”, in Blancarte (coordinador), Laicidad, religión y biopolítica en el mundo contemporáneo, El Colegio de México-Universidad Nacional Autónoma de México, México D. F., 2013, pp. 19-40.

Roberto Cipriani


Religión y politica en Europa


Roberto Cipriani


Introducción


Se puede decir que el continente europeo está dividido sustancialmente en cuatro grandes áreas de influencia religiosa: 1) la católica en la parte principalmente centro-meridional; 2) la protestante en el área esencialmente centro-septentrional; 3) la ortodoxa, sea griega o rusa, sobre todo en la parte sur-oriental, y 4) la musulmána en la parte más oriental.


Respecto de las minorías, los hebreos están presentes principalmente en Grecia y Ucrania; los hinduistas en cambio en el Reino Unido, en los Países Bajos y en Rusia.


En definitiva, el cristianismo en sus diversas articulaciones (católica, ortodoxa y protestante) está ampliamente presente en la Europa contemporénea. En la parte oriental del continente se halla el islam que, aunque en aumento por el número de adherentes, continúa siendo el grupo menos consistente entre las grandes religiones del libro (judaísmo, cristianismo, islamismo).


En el pasado el cristianismo ha visto la erosión de su matriz originaria. Otras religiones y otras iglesias han desembarcado en el suelo europeo donde han ejercido un peso político consistente al punto de influenciar los aspec­tos económicos. Después de la situación de dominio que tuvo precedentemen­te, el cristianismo se ha confrontado varias veces con el islam. El doble fracaso del asedio turco de Viena en 1529 y en 1683 ha sido un momento clave, que se podría decir ha completado lo que ha sucedido con la anterior paz de Westfalia, estipulada apenas treinta y cinco años antes del segundo intento de conquista de la ciudad danubiana realizado por los turcos.


En su mismo interior el cristianismo vivió la contraposición entre la iglesia de Roma y la iglesia de Bizancio (convertida en Constantinopla en el 330 y en Estambul, desde 1929). La diferenciación politica, con la división entre el Imperio Romano de Occidente y el Imperio Romano de Oriente y sobre to­do con el traslado de la capital hacia el Bósforo, tuvo así consecuencias sobre el aspecto religioso, con el nacimiento de la iglesia ortodoxa, que gradualmente amplió su influencia a los territorios de la actual Bulgaria y Ucrania ya entre los siglos IX y X. Más tarde, después del cisma del 1054 con Roma, los ortodoxos prefirieron aceptar el dominio turco estableciéndose en Constantinopla en el 1453. Sucesivamente también Moscú creció en importancia y se convirtió en una especie de “tercera Roma”, como alternativa ya sea a Constantinopla que a la misma Roma. Huellas de estos y otros contrastes se han sucedido hasta los tiempos más recientes con la cuestión de los Balcanes, complicada aún mas por la presencia de residuos de la dominación otomana, es decir de grupos islámicos ya sean compactos que fragmentados sobre el territorio, en Serbia, en Bosnia-Herzegovina, en Macedonia y en Albania.


Por otro lado los judíos llegaron a varias partes de Europa – donde aún hoy continúan a estar presentes – en el lejano Medioevo, sufriendo persecuciones, masacres y la shoah durante la segunda guerra mundial. Las comunidades hebraicas ashkenazitas de lengua yiddish han obrado ampliamente sobre todo en los países centrales y orientales de Europa.      


Existen diferencias respecto a las mismas relaciones entre Estado e iglesia en los diversos países Europeos: en algunos la separación es neta y hasta definida por ley (como ha sucedido por ejemplo en Francia a partir del 1905), en otras partes existe un régimen concordatario (como es el caso de España, Italia y Portugal), aunque no faltan ejemplos de Iglesias de Estado (como en los países escandinavos y en Gran Bretaña). Aún mas variegada es la realidad concreta, mas allá de las declaraciones de principio y de las normas estatales, en cuanto se financia la enseñanza de la religión en las escuelas en Bélgica, Irlanda y Holanda, o existe la intervención de las Iglesias como actores sociales ya sea en los hospitales que en las escuelas y en las obras de asistencia. En particular a nivel de esfera pública se encuentran varios intentos de mediación entre diversos valores, tratando de resolver así los problemas producido por el pluralismo ideológico y confesional. De hecho se da que en Europa existen Estados que aún siendo seculares conceden varios privilegios a las comunidades religiosas. O se pueden verificar casos en que el Estado y la religión no se identifiquen pero que tampoco se enfrenten completamente, negociando caso por caso, come sucede generalmente respecto a las Iglesias mayoritarias o en lo que se refiere a las minorías, a los movimientos y a los grupos religiosos.


En otras partes, en cambio, hay una relación más estrecha entre el Estado y la Iglesia, donde se crea casi un culto del Estado y de sus gobernantes. En estos casos es el pueblo mismo el que sostiene el Estado a través de las formas culturales de su religión oficial. “Estas formas culturales comprendiendo valores cristianos universales como el sufrimiento y el sacrificio, aplicados a religiones concretas (la misión providencial del líder y del pueblo, el hecho de ser elegidos por Dios), y expresando en formas convencionales de civilización el potente culto arcaico del líder, del sacerdote-príncipe, ejercitan una acción fuerte que se manifiesta en su universalidad histórica. El culto del jefe del estado (Rusia) permanece vigente y eficaz también en la historia mas reciente de estos países (Bogomilova-Todorova, 1996: 162).


La iglesia ortodoxa serbia ha vivido dramaticamente el final de Yugoslavia, con el surgimiento del conflicto étnico en 1991 y el enfrentamiento entre católicos y musulmánes. Los ortodoxos serbios se han encontrado en el me­dio, acusados por los croatas y eslovenos (católicos), pero también por los musulmánes. Es decir, era una guerra de todos contra todos: croatas contra ser­bios, serbios y croatas contra musulmánes, católicos contra ortodoxos, cris­tianos oontra musulmánes. En estos enfrentamientos las motivaciones polí­ticas, étnicas y religiosas se unían en una mezcla explosiva con consecuen­cias algunas veces irreparables.


Es necesario agregar que el problema del nacionalismo concierne también la Grecia, si bien no ha participado en las acciones bélicas de los años 90. En realidad, “las tradiciones particulares que han dado origen al estado griego moderno y a su mitología histórica han hecho posible la aparición de esta conexión entre ortodoxia y nacionalismo. El caso griego en sus dimensiones históricas es un claro ejemplo del hecho de que el ecumenismo tradicional de la ortodoxia y del Commonwealth bizantino pertenecen definitivamente al pasado. El etnocentrismo y la dependencia de la iglesia al estado son quizás los pro­blemas fundamentales de la iglesia ortodoxa hoy” (Makrides, 1996: 69-70).


Aunque no será posible realizar una especie de Commonwealth ortodoxo, también con el ingreso de Bulgaria y Rumania en 2007 ha crecido la presencia de los ortodoxos en la Unión Europea. Además, su presencia puede variar de cuarenta a doscientos millones de personas con una ulterior ampliación de la Unión hacia el este, por lo que constituiría así un porcentaje decisivo. De todos modos ya estaba presente en Europa occidental, en Suecia, Francia, Reino Unido, Suiza, Alemania, Finlandia, Croacia y Austria.


Politica y religión


Una politización de la cultura y por ende de la religión es examinada por Srdjan Vrcan (2006), quien estudia el enlace entre nación, cultura y religión (Van der Veer y Lehmann, 1999) en los países de ex Yugoslavia.


Diversas situaciones prueban que el proceso de politización de la cultura y de la religión en clave nacionalista ha sido puesto en marcha en casi todo el vasto territorio que fuera yugoslavo. En efecto, en Herzegovina el catolicismo ha sido “una religión en una región de frontera”, pero en realidad se ha convertido en “una religión de frontera” (Vrcan, 2006: 222).


De este modo se han reforzado los caracteres eclesiocéntricos, nacionalistas, militantes, es decir, de rechazo hacia lo externo. En lo que concierne al islam, luego, ha sucedido que los musulmánes de Bosnia y Herzegovina desarraigados en una parte de su territorio se han convertido en fuertes dominadores en otras zonas, con todas las consecuencias que de esto han derivado.


En su mismo interior el cristianismo vivió la contraposición entre la Iglesia de Roma y la Iglesia de Bisanzio (convertida en Constantinopla en el 330 y en Estambul, desde 1929). La diferenciación política, con la división entre el Imperio Romano de Occidente y el Imperio Romano de Oriente y sobre todo con el traslado de la capital hacia el Bósforo, tuvo así consecuencias sobre el aspecto religioso, con el nacimiento de la Iglesia ortodoxa, que gradualmente amplió su influencia a los territorios de las actuales Bulgaria y Ucrania ya entre los siglos IX y X. Más tarde, después del cisma del 1054 con Ro­ma, los ortodoxos prefirieron aceptar el dominio turco estableciéndose en Constantinopla en 1453. Sucesivamente también Moscú creció en importan­cia y se convirtió en una especie de “tercera Roma”, como alternativa sea de Constantinopla o de la misma Roma. Huellas de estos y otros contrastes se han sucedido hasta los tiempos más recientes con la cuestión de los Balcanes, complicada aun más por la presencia de residuos de la dominación oto­mana, es decir, de grupos islámicos compactos o fragmentados sobre el terri­torio en Serbia, en Bosnia-Herzegovina, en Macedonia y en Albania.


Además, los judíos llegaron a varias partes de Europa — donde aún hoy continúan presentes — en el lejano Medioevo, sufriendo persecuciones, masacres y la shoah durante la Segunda Guerra Mundial. Las comunidades he­braicas asquenazí de lengua ídisch han actuado ampliamente sobre todo en los países centrales y orientales de Europa.


Existen diferencias respecto de las mismas relaciones entre estado e igle­sia en los diversos países europeos: en algunos la separación es neta y hasta definida por ley (como ha sucedido por ejemplo en Francia a partir de 1905), en otras partes existe un régimen concordatario (como es el caso de España, Italia y Portugal), aunque no faltan ejemplos de iglesias de estado (como en los países escandinavos y en Gran Bretaña). Aun más variada es la realidad concreta, más allá de las declaraciones de principio y de las normas estatales, en cuanto se financia la enseñanza de la religión en las escuelas en Bél­gica; Irlanda y Islanda, o existe la intervención de las iglesias como actores sociales sea en los hospitales o en las escuelas y en las obras de asistencia. En particular en el nivel de la esfera pública se encuentran varios intentos de mediación entre diversos valores, que intentan resolver así los problemas producidos por el pluralismo ideológico y confesional. De hecho, en Europa existen estados que aun siendo seculares conceden varios privilegios a las comunidades religiosas. O se pueden verificar casos en que el estado y la religión no se identifiquen pero que tampoco se enfrenten completamente, negociando caso por caso, como sucede generalmente respecto de las iglesias mayoritarias o en lo que se refiere a las minorías, a los movimientos y a los grupos religiosos.


En otras partes, en cambio, hay una relación más estrecha entre el estado y la iglesia, donde se crea casi un culto del estado y de sus gobernantes. En estos casos es el pueblo mismo el que sostiene al estado a través de las formas culturales de su religión oficial. “Estas formas culturales comprendiendo valores cristianos universales como el sufrimiento y el sacrificio, aplicados a religiones concretas (la misión providencial del líder y del pueblo, el hecho de ser elegidos por Dios), y expresando en formas convencionales de civilización el potente culto arcaico del líder, del sacerdote-príncipe, ejercitan una acción fuerte que se manifiesta en su universalidad histórica. El culto del jefe del estado (Rusia) es vigente y eficaz también en la historia más reciente de estos países” (Bogomilova-Todorova 1996: 162).


Miklós Tomka (2006) enfrenta en clave comparativa las diversas situaciones del este y del oeste europeo. Él parte de tres consideraciones: la in­fluencia de la religión en Europa occidental se encuentra en declive; mientras en el oeste los jóvenes son cada vez menos religiosos, inversa es la tendencia en los países del área central y oriental; en las regiones que eran comunistas crece el rol de las iglesias. Pero los datos empíricos no siempre confirman tales tendencias. De todos modos, son tres los criterios individualizados para explicar las diferencias entre las dos Europas: el pasado comu­nista, la modernización limitada y la cultura ortodoxa oriental. Un rol a par­te tienen algunos países de Europa central, más modernizados y modelo pa­ra los países del este, pero más bien marginales respecto de Europa occiden­tal. Hay dos factores guía que están en la base de la religión cristiana occi­dental: la iglesia como institución y la autonomía individual. Pero cuando se quiere distinguir lo que es típico de Oriente respecto de Occidente emer­gen, según Tomka (259-262), seis diferencias: un reducido control de la igle­sia y una dominación de los factores locales; una tendencia a homologar con­tenidos y formas, creencias y símbolos, liturgia y arte; el carácter más colec­tivo que individual de la pertenencia religiosa y una jerarquía de los roles eclesiales que ve al clero en una posición dominante; una tendencia a consi­derar la cultura y la religión como un unicum; un énfasis formal de la litur­gia, que no permite modificaciones y adaptaciones ni tampoco una partici­pación directa de los laicos, y una sustancial unidad entre politica y religión, entre estado e iglesia, es decir, una symphonía.


Como es sabido, en Europa central prevalece la presencia católica, en la oriental es mas difusa la ortodoxa: en ambas áreas, normativas nuevas están regulando las relaciones entre estado e iglesia. De todos modos se debe tener presente que los porcentajes significativos de ateísmo caracterizan tanto a la República Checa como a la ex Alemania Oriental, y que en Letonia y Estonia las declaraciones relativas a la propia religión son mas bien reducidas, por esto los datos públicos del nivel sociorreligioso no logran abarcar el uni­verso entero de la población residente. Ademés, es un hecho la resistencia del catolicismo respecto del comunismo, mientras el protestantismo y la religión ortodoxa hán sufrido mayormente las consecuencias del ateísmo del estado. Sin embargo, la recuperación más marcada la está realizando principalmen­te la iglesia ortodoxa rusa (Borowik, 2006: 268).


Es decir, la iglesia ortodoxa habría utilizado estrategias oportunas para mantenerse a flote en situaciones no siempre fáciles. Esto ha sido posible debido a la falta de lazos estrechos entre las varias iglesias ortodoxas naciona­les (en Grecia así como en Georgia, en Rusia y en Serbia), por lo que no ha sido necesaria ninguna uniformidad de comportamiento. En efecto, la religión ortodoxa no ha vivido la experiencia centralista del catolicismo sino más bien la fragmentación de las denominaciones protestantes.


Justamente como en Bulgaria, también en Bielorrusia, Ucrania y Rusia, mucha gente guía sus creencias según modelos típicos de la superstición, recurriendo a talismanes, a formas de comunicación extrasensorial, a modalidades típicas de la New Age. Esto se ubicaría en una espiritualidad genéri­ca, omnicomprensiva al punto de identificar religión, cultura y nación.


Obviamente, el patriarcado de Moscú sigue siendo la sede de mayor peso en el mundo ortodoxo. Sin embargo, su reciente recuperación en términos de visibilidad, poder y capacidad de intervención en los asuntos públicos no permite olvidar que en el pasado su fuerza era sin duda mayor a la actual y que hoy resulta debilitada también por toda una serie de cismas. Entre los pro­blemas que debe enfrentar se encuentran los siguientes: el nacimiento de iglesias independientes a nivel nacional; la recuperación de las propiedades eclesasticas como indemnización por las expropiaciones sufridas después del decreto de Lenin sobre la nacionalización (el tema concierne el conflitto con la iglesia católica griega en relación con las parroquias católicas ucranias dadas a la iglesia ortodoxa); la carencia de personal religioso y una escasa preparación de base; la competencia con el catolicismo, el protestantismo (ambos acusados de hacer proselitismo en áreas ortodoxas) y el islam.


La políticización de la religión


Es típico el caso de la Croacia europea y de sus macrorregiones de Dalmacia, Croacia del Este, Croacia Central, Istria y Primorje. Lo mismo se puede sostener en lo que se refiere a la afiliación religiosa: en la región de Vukovar la presencia ortodoxa se encuentra en el 14,1 por ciento pero es nula en la de Dubrovnik, donde los musulmánes son el 5,1 por ciento, mientras están com­pletamente ausentes en Vukovar. Esta tendencia entrecruzada de presencias y ausencias es habitual en otras zonas de la ex Yugoslavia, sea por razones histórico-culturales o por motivos político-militares (incluidas las operacio­nes de “limpieza étnica” forzada). No se deben olvidar los enclaves mixtos que se encuentran en las naciones limitrofes aún sin interrupciones con la cultu­ra de origen. Éste es el caso de los croatas de la Herzegovina occidental (y también de los serbios ortodoxos presentes en Croacia, en las regiones de Krajina y Eslavonia, y además de los magiarios y de los sajones en Rumania, en la región de Transilvania). En general, se asistiría a una “etnicización” de la politica y a una “politización” de la etnicidad, es decir, a una “politización” de la religión y a una “religionización” de la politica (Marinović Jerolimov y Zrinščak, 2006: 287). La consecuencia es que cada vez más las mismas igle­sias dan un carácter sociopolítico a sus actividades y a sus intervenciones ofi­ciales. Por ejemplo, en Croacia como en Polonia, en Lituania y en Eslovaquia, la iglesia católica ha favorecido el nacimiento de un estado-nación moderno (Martin, 2005: 81, citado por Marinović Jerolimov y Zrinščak, 2006: 289). Todo esto representa un desafío o un recurso para los procesos de integración europea. Sin embargo, no es simple hacer previsiones.


Djordjević y Djurović (1993: 215) habían ya afirmado que “la Europa cristiana con su noble meta de construir la «casa europea desde el Atlántico a los montes Urales» no puede olvidar el hecho de que su espiritualidad se basa también sobre la herencia cultural ortodoxa”. Más tarde, el mismo Dragoljub Djordjević (1996: 29) recordó que “la desintegración del «imperio comunista» ha liberado las naciones ortodoxas de la obligación y éstas se dirigen ahora hacia dos fines: en primer lugar, retornar a las raíces de su civilización y de su cultura; en segundo lugar, comprometerse en la democracia europea contemporánea. En ambos casos hay mucha desorientación y mucha incompren­sión, y hay también muchas consecuencias esperadas e inesperadas, a las que Europa occidental no presta atención ni comprensión. El caso de los ser­bios y de la iglesia ortodoxa serbia, aun compartiendo el hecho común de las otras naciones ortodoxas orientales, es específico en un cierto sentido”. Aqui se da una peculiaridad, a considerar entre tantas, que comienza con la his­toria que se remonta al siglo VI después de Cristo y que tuvo como figura a Sava (1174-1236), el primer arzobispo de Serbia — luego declarado santo — gra­cias al cual la iglesia ortodoxa serbia obtuvo oficialmente la autocefalía de la iglesia matriz, de Constantinopla. Tras un largo periodo de dominación otomana — extendido hasta 1878 — esta iglesia logró conquistar su independen­cia en 1920. Los conflictos étnico-religiosos enfrentaron a los ortodoxos ser­bios con los musulmánes de Bosnia y con los católicos serbios croatizados. En este contexto de conflictividad se destacan los relieves críticos de la mitologi­zación de San Sava, que evoca la tradición propia de la trilogia ortodoxa (un zar, un imperio, una iglesia); así como del mito de Kosovo, en particular de la batalla de Kosovo-Polje donde los serbios, aun vencidos, defendieron en 1389 la cristiandad contra los turcos. Para los serbios Kosovo evoca la “vieja Serbia”, la “grandeza del Imperio”, el “paraíso perdido”, cuya restauración es constantemente reivindicada por la iglesia ortodoxa serbia autocéfala. Am­bos mitos se encuentran en la base de una idea de superioridad y unicidad concerniente a la nación serbia (Bogomilova, 2005: 160-161).


Oportunamente Djordjević (1996: 31) precisa: “Cada iglesia autocéfala, muy apegada a la historia, tradición y cultura de su pueblo, posee ciertas características peculiares sin violar la ortodoxia. Por ende las peculiaridades no constituyen una diferencia en la dogmática teologica y en el rito, pero sí en las actividades terrenas y cotidianas, históricas, culturales, políticas, de la iglesia. Así, con la debida cautela, podemos hablar de la variante serbia, búlgara, rusa o griega del cristianismo ortodoxo”. Y aun así los serbios tienen algunas características propias: la Slavafiesta única del nombre de pila y del santo de familia, y un gran número de monarcas canonizados, como para testimoniar también de este modo la “sintonía” entre el estado y la iglesia. Hay que relevar, por último, que en 1967 en Macedonia ha sido autoprocla­mada una iglesia ortodoxa macedonia autocéfala, independiente de la serbia.


Estado y religión


Desde el 1°de enero de 2007 Bulgaria (junto con Rumania) ha entrado a formar parte de la Unión Europea. Varios problemas se encuentran aún sin solución. Tales cuestiones no están sólo relacionadas al área balcánica de Bulgaria, Serbia y Macedonia sino que incluyen muchos países dentro o fuera de la Unión Europea. Existen iglesias de estado en Finlandia, Grecia y el Reino Unido; hay separaciones pero también acuerdos en Alemania, Austria, Italia y España. La única excepción de diferenciación total se da en Francia (pero con situaciones contradictorias a nivel práctico). La Constitución griega y la irlandesa hacen referencia a la religión, la alemana permite la Invocatio Deila europea evita toda mención. En otras partes se habla de Dios en el preámbulo constitucional (en Polonia y Ucrania), se evoca la tradición religiosa (en la República Checa y en Eslovaquia) o no se menciona para nada, en algunos casos también por falta de preámbulo (en Albania, Armenia, Azer­baiján, Letonia y Rumania). Sin embargo, en general Dios no es mencionado en las constituciones de Bielorrusia, Bosnia, Bulgaria, Estonia, Hungría, Lituania, Rusia, Eslovenia, Serbia y Montenegro.


En realidad las diversas opciones están relacionadas también con su condición de centralidad de la pertenencia (eslava o latina, anglosajona o también europea). Al mismo tiempo, aún hoy se invocan antiguas acciones “evangelizadoras” como las realizadas por los santos Cirilo y Metodio, “apóstoles de los eslavos” en el siglo IX, para legitimar las raíces confesionales relativas a la entera realidad continental. En Bulgaria se han abandonado desde hace tiempo las mitologías relativas a la elección divina de un pueblo con una misión especial a cumplir.


Los asuntos de Kosovo en el conflicto transcurrido desde 1990 a 1995 demuestran hasta qué punto se puede dar una actitud de contraposición absolu­ta entre los diversos sectores religiosos. Ahora Kosovo goza de autonomía res­pecto de Serbia-Montenegro, garantizada por la Organización de las Naciones Unidas, después del desastre que ha golpeado a personas pero también centenares de lugares sagrados de la ortodoxia serbia y del islam kosovar.


El pluralismo religioso


En cuanto al pluralismo y al respeto religiosos, Europa se articula según situaciones muy diversas entre sí (Davie y Hervieu-Léger 1996; Davie, 2000; Davie, 2002, Bolgiani, Margiotta Broglio y Mazzola, 2006). En algunos casos la libertad es muy limitada; en otros es reducida; en algunas naciones se encuentra en crecimiento, en otras disminuye. Según Asma Jahangir (que tra­baja para la ONU en el ámbito de la libertad religiosa), también en Europa hay limitaciones: por ejemplo en Holanda, a causa del surgimiento de tensiones religiosas, o en Francia por la ley de 2004 (que no permite a las mujeres musulmánas llevar el chador y a los cristianos llevar cruces mas grandes de.un determinado tamaño).


Los estados eligen con cuales religiones mantener relaciones privilegiadas, iniciar formas de cooperación, poner las bases para un soporte sociopo­lítico de legitimación desde lo bajo. A pesar de que el intento de incluir la mención a las raíces cristianas en la constitución europea haya fallado, que­da en ésta un conjunto de formas y contenidos que invocan directamente la vida de los ciudadanos europeos, su cultura y sus expresiones religiosas.


Asimismo, algunas naciones europeas están haciendo lo posible para cambiar la legislación vigente y adecuarla a la nueva realidad europea: es lo que ha hecho también Portugal, como nota Helena Vilaça (2006: 57):


Los cambios en el ámbito del sistema político como el final de las dictaduras en los países ibéricos, el elevado flujo inmigratorio de poblacio­nes de religión islámica hacia Europa central o la reciente integración en la Unión Europea de los países del este constituyen factores que, an­tes o después, comportarán una revisión del estatuto de la religión en las constituciones nacionales o la reformulación de las legislacionés de culto, fenómeno que en Portugal se traduce en la nueva Ley de la Liber­tad Religiosa.


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Roberto Cipriani


Donne e cattolicesimo


di Roberto Cipriani 


 


 


1. Premessa


Il rapporto tra cattolicesimo e donne è piuttosto complesso per vari intrecci storici e culturali insieme. Ancora oggi se ne constatano gli esiti, assai problematici in una disamina sociologica a carattere diacronico.


In effetti per parlare correttamente e fondatamente della dignità femminile soprattutto nel contesto cattolico occorre anche perlustrarne in primo luogo le remote radici, che affondano assai indietro nel tempo e che si sono poi riprodotte e ramificate sino ai nostri giorni. Insomma la storia in proposito è lunga, affascinante e ricca di sorprese, che contraddicono il comune sentire legato principalmente all’esperienza della quotidianità contemporanea.


Probabilmente è a partire dall’anno mille che ha origine una certa propensione ad assegnare ruoli mistici alla figura femminile, che si riverberano sino ai nostri giorni.


Il presente contributo è una proposta di ricostruzione del percorso attraverso il quale si giunge alla situazione attuale, che vede fra l’altro l’affermazione di un protagonismo femminile proprio nel campo della teologia, in passato dominio quasi esclusivo del genere maschile. Ed alla fine risulta che la decostruzione del misticismo femminile diventa un compito mistico per eccellenza. Un tale tipo di bouleversement non ha luogo all’improvviso ma è debitamente predisposto nel corso della transizione che segue allo spartiacque rappresentato appunto dall’anno mille.


2. Dal primo al secondo millennio


Verso l’anno mille si diffuse un’idea ascetica, spiritualista della chiesa cristiana. E dopo un paio di secoli, secondo lo storico francese Duby, cominciò ad essere rivalutata la posizione delle donne. Lo studioso parigino del Collège de France si interroga sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle donne medievali, annotando: «Almeno, nel loro campo, sotto i veli dei quali l’autorità maschile le avvolge, nelle camere nelle quali vorrebbe tenerle ammassate, e dietro lo schermo che innalzano davanti agli occhi dello storico le invettive ed il disprezzo degli uomini, io le indovino, solidamente unite dai segreti che si trasmettono e da forme d’amore compatibili a quelle che fanno, all’epoca, la coesione delle compagnie militari, investite di grandi poteri – sulla servitù, per la loro condizione di mogli, sulla discendenza, per la maternità, sui cavalieri che le circondano, per la loro cultura, le loro attrattive, e per le relazioni che sono sospettate di intrattenere con le potenze invisibili -, io le indovino, ripeto, forti, molto più forti di quanto non immaginassi, e perché no, felici, così forti che i maschi si danno da fare per indebolirle con le angosce del peccato. D’altra parte mi è sembrato di poter situare verso il 1180, quando il prepotente slancio di crescita che trascinava l’Europa si trovava nell’acme del suo vigore, il momento in cui la posizione di queste donne fu in parte rivalutata, in cui gli uomini si abituarono a trattarle come persone, a discutere con loro, ad allargare il campo della loro libertà, a coltivare quei doni particolari che le rendono più vicine al soprannaturale» (Duby, 1996, pp. 140-141 trad. it.).


Ma non è questa l’unica lettura possibile, giacché secondo un’altra prospettiva ed appena qualche tempo dopo «nel tredicesimo secolo gli atteggiamenti nei confronti dei ruoli delle donne all’interno della Chiesa si erano cristallizzati intorno a queste preoccupazioni maschili, questo miscuglio di paure tradizionali della femmina come essere sessuato. Consentire, sì, alla donna una vita di devozione religiosa, ma, visti i pericoli inerenti al suo essere, questa vita deve essere fortemente limitata e controllata. Le monache devono essere tenute separate dagli uomini, anche religiosi. Le proibizioni di monasteri associati, dell’insegnamento delle monache ai bambini maschi, di qualunque contatto non strettamente necessario tra le donne e i loro confessori, guadagnarono un grande appoggio. Fatto ancora più importante, le donne devono essere tenute in rigido isolamento. Non devono lasciare il convento, non devono avere contatti con nessuno al di là delle sue mura» (Anderson, Zinsser, 1992, trad. it. 301).


Frattanto la stessa verginità era scelta come modo primario di sottrarsi alla subalternità rispetto al maschio. La chiesa istituzionale aveva cercato di mantenere comunque la donna in un ruolo di sudditanza (Green, 2000). Le prove documentali non mancano. Ancora Duby ce ne dà conferma attraverso l’analisi di un testo indirizzato dall’abate Adamo di Perseigne ad una nobildonna: «Appare con estrema evidenza ciò che gli uomini di Chiesa pensavano del corpo della donna e ciò che volevano che ne pensassero le stesse donne: “un ricettacolo di escrementi”, ripetevano. In ogni caso la tana del peccato corruttore, dacché i nostri primi progenitori per la colpa di Eva furono cacciati dal Paradiso terrestre, a causa delle pulsioni incontrollabili della carne. Ne consegue che le dame, queste ragazze che non hanno conservato l’integrità, l’innocenza del corpo, devono distaccarsene, farlo tacere quanto più è possibile. Abbandonarlo, certamente, all’uomo che ricevette solennemente la loro carne peritura, che se ne impadronì e che arde ancora dal desiderio di trarne godimento. Che l’unione, la commixtio dei sessi, si compia. È cosa necessaria: è la legge del matrimonio, il dovere degli sposi. L’ideale sarebbe che questo dovere fosse penoso. Per molte donne in questo tempo lo era fisicamente. Comunque sia, la dama si guardi, con tutte le sue forze, dal parteciparvi. Resti di marmo, contratta, con i denti serrati, resista, rifiuti di farsi traviare dal piacere» (Duby, 1996, pp. 81-82 trad.it).


Parole austere, tipiche di un ambiente, quello cistercense, poco propenso a compromessi o cedimenti in favore di una certa flessibilità.


In pari tempo, invero, anche il potere delle badesse era riconosciuto uguale, di fatto, a quello dei vescovi. E l’influenza delle donne si esercitava anche sugli uomini, come nel caso di Matilde di Canossa, che fece incontrare Enrico IV e Gregorio VII nel gennaio 1077 e fu esaltata in un poema di quasi tremila versi (Codice Vaticano Latino 1922) dal monaco Donizone (1984), il quale terminò la sua opera dal titolo Vita di Matilde di Canossa dopo la morte della contessa, di cui scrisse che ospitò per tre mesi il papa Gregorio, a cui come Marta servì ed attenta coglieva con l’udito della sua mente ogni discorso del papa, come Maria le parole di Cristo.


Matilde fu elogiata anche da Rangerio, vescovo di Lucca, che nella sua Vita metrica di Sant’Anselmo così la ricorda: «non appena conobbe le gioie malvagie della misera carne, ne ebbe orrore e subito se ne vergognò. Non poté conservarsi al primo marito come avrebbe voluto, e al suo uomo appena fanciulla si sottomise. Le parole materne, la potenza di una stirpe importante, la trattennero dal suo pio volere. Ma quando il Signore la sciolse dalla madre e dall’uomo, dispose ella sola al solo Dio di votarsi».


Che dire poi del caso di Eloisa (1101-1163) ed Abelardo? Ella fu dotta, famosa, eroina del libero amore, e rifiutò il matrimonio ma non rinunciò ad avere un figlio: una monaca passionale, ribelle a Dio ed anticipatrice della liberazione femminile. Di lei Georges Duby dice che fu «donna sensibile, sensuale, ma della quale la sensualità fa la forza, perché è proprio quest’incendio, nell’intimo della sua natura femminile, che la spinge a passare, come dice Pietro di Cluny, da una saggezza profana alla vera filosofia, ossia all’amore di Cristo. Diventando modello e consolazione per tutte le nobili donne che, d’accordo con il proprio marito, entravano tardi in convento, e magari alcune rimpiangevano i piaceri che avevano avuto la possibilità di gustare talvolta nel letto nuziale. Ma era un modello anche per gli uomini: la sua storia, come quella di Maria Maddalena, non insegnava loro, per strapparli alla pigrizia e al sussiego, che le dissolutezze dell’amore, soffocate dalla virtù, sono in grado di rendere un corpo femminile, per debole e impastato di smanie che sia, più puro e più rigoroso del loro?» (Duby, 1995, p. 102 trad. it.).


Nel XII secolo apparvero i Re-taumaturghi. Intanto San Bernardo di Chiaravalle diffondeva il culto di Maria ed il papa Innocenzo III imponeva la confessione, portando a compimento un progetto risalente ai primi anni del nuovo millennio ed in particolare al vescovo Burcardo di Worms ed al suo manuale pratico dal titolo Decretum: «invitare le donne, almeno le più nobili, a confidarsi con un uomo di Chiesa, era trattarle da persone in grado di correggersi da sole; ma era anche catturarle: la Chiesa le prendeva nella sua rete … La Chiesa decise di porre sotto il più stretto controllo la sessualità … La Chiesa divise di conseguenza gli uomini in due gruppi. Ai servitori di Dio vietò l’uso del sesso, lo permise agli altri, alle condizioni draconiane che essa dettava. Rimanevano le donne, il pericolo, perché tutto ruotava attorno a esse. La Chiesa decise di assoggettarle, e a questo scopo definì chiaramente i peccati dei quali le donne, per il loro temperamento, si rendevano colpevoli. Nel momento in cui Burcardo componeva la lista di queste colpe specifiche, l’autorità ecclesiastica accentuava il proprio sforzo per rigenerare l’istituzione matrimoniale, per imporre una morale del matrimonio, dirigere la coscienza delle donne: stesso progetto, stessa lotta. Fu un lungo processo; finì con il trasferimento ai preti del potere dei padri di consegnare la mano della figlia in quella di un genero, e con l’interposizione di un confessore tra il marito e la moglie» (Duby, 1997, pp. 28-29 trad. it.).


Cominciavano a diffondersi le beghine.


Restano peraltro esemplari i ruoli di santa Caterina da Siena (Jantzen, 1995/1997, pp. 216-223) e di santa Caterina de’ Ricci (Anodal, 1995). Ma anche quello di altre sante medievali, da Sant’Elisabetta d’Ungheria a Santa Chiara da Assisi, a Chiara da Montefalco, ad Angela da Foligno (Pasztor, 2001).


Però dal XIV al XVIII secolo migliaia di donne, accusate di stregoneria ed eresia, vennero bruciate dai cristiani (Jantzen, 1995/1997, pp. 242-277).


Non scamparono all’accusa di eresia neanche le beghine. Papa Giovanni XII le condannò di fatto nel 1317.


In Europa, nel XVI secolo Teresa de Cepeda y Ahumada (1515-1582), detta di Avila, pensava alla riforma delle carmelitane, riportando l’ordine delle religiose all’antico rigore.


Nella stessa temperie storica si cominciava ad affacciare una nuova figura di laica, la zitella, propugnata in particolare dalla Compagnia di Sant’Orsola, fondata da Angela Merici, che vedeva una concreta possibilità di mettere insieme religiosità ed impegno nel mondo.


Secondo Gabriella Zarri si assisteva così ad una sorta di secolarizzazione della vita religiosa ed in pari tempo ad una nuova sacralizzazione della vita coniugale. In pratica la donna sposata viveva in un recinto sacro, sottoposta al controllo sociale: ogni suo rapporto familiare e sociale era rigidamente codificato e sanzionato (Zarri, 2000).


Ne è prova, fra l’altro, il testo di un documento storico risalente al 1580 e relativo alla Visita Apostolica fatta dal vescovo di Melfi, Gaspare Cenci, nella terra di Cerignola, in Capitanata. In un editto per l’osservanza delle festività veniva ingiunto quanto segue: «commandamo in virtu della instessa authorita che tutti li homini et donne di qualsivoglia qualita, anche che siano zite o vacantie conformi alli precetti della chiesa, in tutti giorni di festa commandate come sotto non havendo canonici impedimenti, debbano andar a vider et ascoltar messa, altrimente facendo oltro che commetterando peccato mortale sarando scomonicate nominatamente. Et ordinamo al Reverendo Arciprete, voglia tener essatta cura de tutti et massime delle donne che non andarando alla messa in detti giorni accio nella festa seguente le possi escomunicare nominatamente. Parimenti ordinamo et commandamo in virtu della medesma authorita, che tutte le vidue o madre o altri che passato il mese della morte de loro mariti, figli et altri propinchi, nel qual tempo si tollera stiano in casa vadino alla chiesa ad ascoltar et veder messa sotto la istessa pena come de sopra» (AA. VV., 2000, p. 32).


Questo editto denotava un’evidente situazione di rigida sorveglianza sulla pratica religiosa dei cittadini e massimamente delle donne. Sebbene il comando impartito riguardasse tutta la popolazione adulta, i riferimenti più precisi avevano a che vedere con il genere femminile (zite, cioè sposate, e vacantie, cioè nubili). Del resto non a caso la stessa scomunica era prevista più che altro al femminile (scomonicate). Questa peculiare attenzione all’inadempienza da parte delle donne era altresì ribadita anche a proposito di vedove (vidue) e madri di famiglia affinché – trascorso un mese di lutto tollerato – riprendessero la loro frequentazione del rito festivo. In caso di mancata ottemperanza non solo si sarebbe commesso un peccato grave (mortale) ma si sarebbe andato incontro alla massima sanzione religiosa, per di più con un carattere pubblico: la scomunica non generica ma nominativa, da pronunciarsi in chiesa in occasione della festa comandata immediatamente successiva a quella della mancata presenza alla messa.    


Un secolo dopo, una propugnatrice della mistica dell’abbandono totale a Dio, Jeanne-Marie Guyon, vedova con tre figli, autrice fra l’altro nel 1685 di Le Cantique des Cantiques interprété selon le sens mystique, veniva accusata di quietismo (come Molinos et Fénelon) ed imprigionata dal 1688 al 1702.


Risale quasi al medesimo periodo la contestualizzazione di La finzione di Maria, romanzo storico di Fulvio Tomizza, pubblicato nel 1981 e fondato su documenti di archivio, risalenti alla seconda metà del 1600: tutto ruota attorno all’accusa degli inquisitori che attribuiscono a Maria Janis, una ragazza del Bergamasco, la colpa di fingersi santa. La conclusione dell’opera è amara. «Ben più oscuro e mortificante fu l’inizio della nuova vita di Maria. Nella stessa estate il tribunale ecclesiastico chiuse definitivamente anche il suo caso facendole la grazia, non richiesta, di essere trasferita dalle carceri al “pio Luogo dei Mendicanti di questa città, qualora i signori Governatori di detto luogo si compiacciano di riceverla”. L’avranno di certo ricevuta: l’umiliarsi riesce gradito agli uomini, e su una raccomandazione del sant’Uffizio non si discute. In quel ricovero di derelitti, da cui forse è più difficile venir fuori che di prigione, Maria Janis di Vertova avrà finito i suoi giorni. La sua condizione non le permetteva di poter contare su protettori né su amici disposti a garantire sulla sua condotta. Come i reverendi padri sono riusciti a dimostrare, era soltanto una donna» (Tomizza, 1981, p. 215 ed. 1982).


Già in precedenza nel contesto asiatico, attraverso l’induismo si era sviluppato il culto Bhakti di Rama e della moglie Sita.


Più tardi è documentato in Giappone il culto ad Amaterasu, dea del sole (segnatamente dal XVII secolo ad oggi, nel tempio di Ise); ma è da ricordare anche la dea Kannon, cui è dedicata una delle statue più grandi al mondo.


3. Il mondo contemporaneo


In campo cattolico la proclamazione del dogma dell’Immacolata nel 1854 con la bolla Ineffabilis Deus di Pio IX ridiede spazio al culto mariano.


Nel 1875 la signora Elena Petrovna Blavatskij fondò a New York la Società Teosofica, a carattere sincretistico, con l’intento di unire la religiosità orientale con quella occidentale.


Nello stesso anno Mary Baker Eddy (1821-1910) pubblicò il testo-base della Christian Science Association, fondata un anno dopo: Science and Health with Key to the Scriptures.


Nel 1920 ebbe luogo la canonizzazione di Giovanna d’Arco.


Nel 1950 venne proclamato il dogma dell’Assunzione (con la costituzione Munificentissimus Deus di Pio XII), che apportò nuova linfa alla devozione mariana.


Le donne cattoliche furono molto attive in Italia sin dall’inizio del ‘900: è da citare fra le altre Adelaide Coari (cui è intitolata la sezione femminile dell’Archivio Storico del Movimento Sociale Cattolico in Italia presso l’Università Cattolica di Milano): «Il riferimento della sezione femminile dell’Archivio storico alla Coari  – nata a Milano nel 1881 e morta nel 1969 – non è casuale, perché fu un personaggio di spicco del femminismo cristiano di inizio secolo, impegnata fin dalla prima ora nel Partito Popolare di Sturzo, appassionata promotrice dell’educazione popolare e assidua operatrice dell’Opera dei figli di don Orione, anticipatrice di posizioni ecumeniche e di dialogo tra le Chiese; ancora ricordata da chi le fu scolaro, ma ignorata da chi redige la storia. Bisogna dire lo scandalo di tale memoria perduta all’interno del movimento cattolico femminile. E pensare che fu Giovanni XXIII a trasmettere, tramite don Giuseppe De Luca, alla studiosa Paola Gaiotti “le carte da lui gelosamente custodite, che testimoniavano di una presenza femminile cattolica, consapevole, agguerrita, dialogante, entro la vicenda complessiva delle donne italiane. Fu lui – testimonia la stessa Paola Gaiotti che negli anni ’60 produsse il primo studio sul femminismo cattolico – a volere riaccendere la nostra memoria” … La storia moderna delle donne, pur attraversata da tante differenze di propositi, di stili, di linguaggi, di valori, è stata una storia comune; un cammino su cui si sono ritrovate fondatrici di congregazioni, umili operatrici di molteplici azioni di solidarietà, donne di grande esperienza religiosa e non credenti. Un’unica storia costruita e costituita da molte storie individuali. E la riflessione sulla storia delle donne è ormai un campo di ricerca comune tra le diverse correnti di pensiero, tra laiche e religiose, tra credenti e non» (Vegetti, 2000, pp. 183-184).


Ma è la relazione donna-Chiesa (AA. VV., 1998) a costituire un problema costante: «Certamente il piano di maggiore scontro tra le donne e la Chiesa è sempre stato quello culturale e con esso l’accesso all’istruzione; e la storia ci mostra come la presenza femminile nella cultura, seppur minoritaria per quantità, abbia dato frutti qualitativamente pregiati, soprattutto in ambito ecclesiale. La modernità ha portato le donne ad uscire dalla cerchia domestica per inserirsi nel mondo produttivo ed ha richiesto loro istruzione e professionalità, di qui posizioni molto contrastanti nel comportamento della Chiesa. Pro e contro la cultura femminile, fu tema di discussione e di dibattito per molta parte del nostro secolo entro gli ambienti culturali e le associazioni cattoliche: secondo una maggioranza benpensante la donna, creata prima di tutto per la famiglia, doveva attrezzarsi solo per tale scopo, non serviva che facesse la speculatrice o la scienziata. Le donne però hanno continuato a  studiare, a produrre cultura, ad affermare l’uguaglianza con gli uomini insieme alla propria peculiare differenza» (Vegetti, 2000, p. 185). Nondimeno streghe e madonne, diavolesse ed ossesse continuano ad abitare il terreno della cultura e della religiosità popolare anche in epoca contemporanea (Lombardi Satriani, 1971; Tullio Altan, 1972).


A sorpresa giungeva l’espressione di “Dio mamma” usata da papa Luciani nel 1978, ripresa in qualche misura anche nel n. 239 del Catechismo della Chiesa Cattolica, che rinvia ad Isaia (66, 13) ed ai Salmi (131, 2) ma tali passi solo molto indirettamente presuppongono una maternità di Dio, se non a livello metaforico (Rodríguez, 2001).


La martire Edith Stein aveva scritto: «la prima cosa non è essere uomo o donna ma persona».


Questo significa andare ben oltre la sottolineatura di genere, che pure ha potuto affermarsi a fatica in ambiente cattolico. Lo stesso Concilio Ecumenico Vaticano II nei suoi documenti più rilevanti ha solo en passant toccato i temi relativi al ruolo delle donne. I suoi documenti ne parlano qua e là in modo disorganico e rapsodico in termini di diritto, lavoro e parità e madre di famiglia. Così le persone vedove e nubili «possono contribuire non poco alla santità e alla operosità nella Chiesa» (Lumen gentium, 41). Nella Gaudium et spes, al n. 52, si parla della «madre nella casa, di cui abbisognano specialmente i figli più piccoli, pur senza trascurare la promozione sociale della donna». E poco più avanti, al n. 60, si ribadisce quale sia lo specifico del ruolo muliebre, proprio cioè dell’indole femminile: «Le donne lavorano già in quasi tutti i settori della vita; conviene però che esse possano svolgere pienamente i loro compiti secondo l’indole ad esse propria. Sarà dovere di tutti far sì che la partecipazione propria e necessaria delle donne nella vita culturale sia riconosciuta e promossa». Senza negare il diritto alla cultura si coglie l’occasione per ricordare il proprium della funzione legata all’essere madre e/o moglie. Del resto anche in precedenza, al n. 29, tutto era visto in rapporto alla condizione di coniugabile con «la facoltà di scegliere liberamente il marito e di abbracciare il suo stato di vita». Quest’ultimo riferimento rimanda indirettamente all’opzione della scelta religiosa, in chiave di vita monacale. Ma in pari tempo non si nega «di accedere a quella pari educazione e cultura che si riconosce all’uomo».  Ben poco di più si trova nelle centinaia di pagine dei vari testi conciliari (costituzioni, decreti e dichiarazioni), fatta eccezione per il Messaggio del Concilio alle Donne, in data 8 dicembre 1965.


Non è così nel caso della Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II dal titolo Mulieris dignitatem, datata 15 agosto 1988. Si tratta del documento più importante che la Chiesa cattolica abbia mai prodotto sulla questione femminile. Il respiro del testo è ampio ed articolato, giacché spazia dai testi biblici a quelli teologici, dalla patristica al magistero ecclesiale. La Lettera ha un tono dichiaratamente meditativo sulla donna come madre di Dio, sul suo essere immagine e somiglianza di Dio.


In particolare al n. 6 si legge che la donna «è immediatamente riconosciuta dall’uomo come «carne della sua carne e osso delle sue ossa» (Cf. Gen 2, 23) e appunto per questo è chiamata «donna». Nella lingua biblica questo nome indica l’essenziale identità nei riguardi dell’uomo: ’iš – ’iššah, cosa che in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. «La si chiamerà donna (’išš) perché dall’uomo (’iš) è stata tolta» (Gen 2, 23)».


Dopo aver affermato al n. 10 che «la donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso» maschile», il papa si sofferma sulla figura di Cristo e sul suo atteggiamento nei riguardi delle donne nonché sulle figure femminili del vangelo. 


 Il n. 12 fa riferimento all’atteggiamento di Gesù nei confronti della donna: ««Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna» (Gv 4, 27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi contemporanei. «Si meravigliavano», anzi, gli stessi discepoli di Cristo. Il fariseo, nella cui casa la donna peccatrice andò per ungere con olio profumato i piedi di Gesù, «pensò tra di sé: “se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”» (Lc 7, 39). Di sgomento ancora più grande, o addirittura di «santo sdegno», dovevano riempire gli ascoltatori soddisfatti di sé le parole del Cristo: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio» (Mt 21, 31)».


Ancora più esplicito, se possibile, è il rinvio al «principio» dell’uguaglianza fra uomo e donna in quanto fatti entrambi ad «immagine e somiglianza» di Dio. «La questione posta è quella del diritto «maschile» di «ripudiare la propria moglie per  qualsiasi motivo» (Mt 19, 3); e, dunque, anche del diritto della donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua dignità. Gli interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica vigente in Israele: «Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via» (Mt 19, 7). Gesù risponde: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19, 8)». Dunque si conferma autorevolmente la necessità di non discriminare la donna, che più volte è protagonista nel vangelo come miracolata, dotata di grande fede, di dignitosa umiltà, di particolare saggezza, nonostante povertà e malattie.


Gesù – chiarisce a più riprese Giovanni Paolo II – era in contraddizione con i suoi tempi e con i suoi interlocutori. Ed in effetti, come si legge nel successivo punto 13, l’insegnamento di Cristo non dà adito a nulla «che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna».


Proprio una donna, «e per di più «donna peccatrice», diventa «discepola» di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4, 39-42)».


Molti colloqui di Gesù con le donne sono citati come tra i più belli nel vangelo. Sono donne quelle che restano ai piedi della croce, sono ancora donne quelle che annunciano il risorto, prima fra tutte Maria di Magdala detta non a caso «apostola degli apostoli» secondo l’espressione tipica di Tommaso d’Aquino ma anche secondo Rabano Mauro.


La Mulieris dignitatem scioglie anche qualche nodo problematico relativo a taluni insegnamenti della Chiesa delle origini in merito al posto della donna nella società e nella famiglia. A tale proposito il documento papale è quanto mai esplicito, chiaro: «nella relazione marito-moglie la «sottomissione» non è unilaterale, bensì reciproca» (n. 24). Ecco perché «la «mascolinità» e la «femminilità» si distinguono e nello stesso tempo si completano e si spiegano a vicenda» (n. 25).


La lunga schiera di donne citate nel vangelo e quelle presenti nella storia della Chiesa sia primitiva (Febe, Prisca, Evodia, Sintiche, Trifena, Perside, Trifosa) sia successiva (Macrina, Olga, Matilde, Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta, Brigida, Giovanna d’Arco, Elisabeth Seton, Mary Ward) testimoniano quanto esse abbiano contribuito al rafforzamento del cattolicesimo ed all’azione della Chiesa.    


Il documento pontificio raggiunge però la sua acme nella parte finale, soprattutto nei numeri 29 e 30 dove si legge quanto segue: «Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne. In questo contesto, ampio e diversificato, la donna rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come quella persona concreta, per il fatto della sua femminilità». Inoltre «la donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento, forte per il fatto che Dio «le affida l’uomo» sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui essa può trovarsi. Questa consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano alla donna della dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende «forte» e consolida la sua vocazione».


La conclusione poi è un inno di ringraziamento alle donne: «per le madri, le sorelle, le spose; per le donne consacrate a Dio nella verginità; per le donne dedite ai tanti e tanti esseri umani, che attendono l’amore gratuito di un’altra persona; per le donne che lavorano professionalmente, donne a volte gravate da una grande responsabilità sociale; per le donne «perfette» e per le donne «deboli» – per tutte. Così come sono uscite dal cuore di Dio in tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità; così come sono state abbracciate dal suo eterno amore; così come, insieme con l’uomo, sono pellegrine su questa terra».


Come il Cristo era in contraddizione con il suo entourage palestinese, così Giovanni Paolo II sembra in contrapposizione con la mainstream cattolica non sempre propensa a lasciare spazio alla presenza femminile.


Appare quindi abbastanza fondata l’ipotesi formulata da Feliciana Merino Escalera secondo la quale, in accordo anche con Carla Bettinelli, il papa si sarebbe rifatto in larga parte agli spunti offerti da Edith Stein nei suoi saggi sulla donna. La studiosa spagnola ritiene infatti «probabile questa influenza». «Ogni volta che mi immergo nella Mulieris Dignitatem – scrive la Merino Escalera – constato quanto le idee di santa Teresa Benedetta della Croce coincidano con quelle del Santo Padre, soprattutto se consideriamo che Edith Stein venne beatificata da Sua Santità nel 1987 e che l’Enciclica venne pubblicata nel 1988» (Merino Escalera, 2000, p. 26).


Le convergenze fra la Stein ed il pontefice sono numerose ed incontrovertibili: «entrambi concepiscono la relazione uomo-donna inserita nella storia della salvezza»; «tanto la Stein che Giovanni Paolo II evidenziano l’importanza del peccato nella degenerazione dell’ordine iniziale, nella perdita della originaria unità, dell’uomo con se stesso, con gli altri e con Dio»; l’una e l’altro instaurano un «parallelismo Adamo-Cristo/Eva-Maria»; da parte di ambedue viene enfatizzato «il rapporto che Cristo ha sempre mantenuto con le donne, a differenza della prassi ecclesiale e di determinate pratiche discriminatorie nel contesto socio-culturale»; in entrambi i casi c’è «la rivalutazione delle due vocazioni essenziali della donna: maternità e verginità»; viene comunque difesa «la necessità di preservare la specificità femminile, il «genio» della donna»; infine viene riscontrata una «complementarietà essenziale: l’esser kenegdo, espressione ebrea utilizzata da Edith Stein, immagine speculare per cui l’uomo contempla la propria natura, coincide con la «reciprocità» di Giovanni Paolo II. In entrambi si tratta del fatto che l’uomo e la donna sono l’uno per l’altra, che nella loro unione realizzano la chiamata fondamentale all’amore e al dono reciproco, il livello più elevato della realizzazione della persona» (Merino Escalera, 2000, pp. 26-29).    


Meno elogiativo risulta invece il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992. Si parla della donna ai numeri 369, 371, 372, 373, ma solo per confermare prospettive già note. Il n. 1577 ribadisce che l’ordinazione sacra concerne solo i battezzati di sesso maschile. Nel n. 1605 si afferma, ancora una volta, che l’uomo e la donna sono fatti l’uno per l’altra. Lo stesso dicasi per l’uguale dignità di uomo e donna (n. 2334). Sono 32 i punti principali in cui si tratta della dignità femminile ma in nessuno di essi si legge uno slancio peculiare per una rivisitazione sostanziale di letture scontate.


Per uno sguardo meno tradizionale sul mondo religioso femminile occorre consultare altri documenti, per esempio un compact disc a carattere multimediale predisposto da Carla Ricci, promosso dall’AECA e realizzato dall’Alfa Cfp Opera Diocesana Giovanni XXIII di Piangipane (Ravenna), dall’Associazione Opera Sacro Cuore di Lugo (Ravenna), dall’Enac Emilia Romagna di Fidenza (Parma) e dall’Engim di Cesena (Forlì). Il CD rom, dal titolo Lei multimedia,è diffuso gratuitamente ed è di facile uso. In particolare si segnalano le voci “religione” e “femminismo cattolico” come più pregnanti ed utili, grazie alla descrizione del riferimento, all’elenco di enti ed indirizzi, alle suggestioni per navigare in Internet, alla bibliografia ed alle riviste sull’argomento.


4. Donne, religione e società italiana


Gli indicatori più affidabili in merito alla presenza femminile nel nostro Paese si trovano nei risultati empirici delle ricerche sul campo.


Che cosa pensano, fra l’altro, delle donne consacrate alla vita religiosa gli italiani e le italiane? L’indagine nazionale su La religiosità in Italia (AA. VV., 1995), condotta nel periodo 1994-95, ha fornito risultati derivanti da un campione “ponderato” di 4500 soggetti. Essa può fornire qualche indicazione sul tema che qui ci interessa.


Le risposte alla domanda n. 274 (giudizio sulla clausura) del questionario somministrato sono state quanto mai significative. È vero che il quesito riguardava sia i religiosi che le religiose, ma si può ritenere che in buona misura i dati ottenuti siano applicabili in primo luogo alle religiose, non fosse per altro che per la loro maggiore numerosità sul territorio nazionale rispetto ai loro confratelli religiosi e dunque per la loro maggiore visibilità, che ne fa un parametro essenziale di riferimento per quanto concerne la percezione e l’immagine a livello diffuso.


Se si aggiunge poi che il connotato della clausura limitava ma anche sottolineava il carattere di separatezza e di diversità che riguarda più specificamente la condizione delle congregazioni religiose femminili si può concludere che i dati acquisiti attraverso l’inchiesta appaiono abbastanza probanti in termini di valutazione complessiva sulle monache operanti in Italia.


Appunto l’uso del sinonimo monache, rispetto al nome di suore, già segnala qualche differenza rilevante. Infatti il parlare di monache (al posto di suore) comporta di per sé – per situazione di fatto e di uso linguistico comune – un’accezione più valutativa ed in negativo per le donne votate alla professione religiosa. Ma ormai anche il termine suore, per affinità, è accompagnato da giudizi di valore non sempre neutrali, solo alcune volte positivi, generalmente sfavorevoli.


Invece in campo maschile il riferimento ai monaci, piuttosto che ai frati od ai religiosi, assume un orientamento più positivo, induce a maggior rispetto, quasi ad una separazione nel contesto delle organizzazioni religiose. Insomma i monaci sarebbero più credibili ed affidabili. Nel loro novero rientra però una miriade di profili concreti. Ed a loro vantaggio sembra prevalere comunque l’idea di persone tutte dedite al servizio divino, alla contemplazione, alla preghiera, ai lavori più umili.


Ma veniamo al contenuto preciso del quesito posto: “Qual è il suo giudizio sui religiosi e sulle religiose che vivono in clausura (cioè permanentemente chiusi in convento)?”. Era prevista una sola risposta possibile, fra quelle indicate dal questionario. Ha detto che “è la testimonianza religiosa più alta” il 16,9% degli intervistati. Il 20,4% ha ritenuto che “è una forma di testimonianza religiosa valida come le altre”. La maggioranza relativa, cioè il 44%, ha reputato che “è meglio che i religiosi vivano tra la gente”. Infine il 18,7% ha detto che “è una cosa senza senso” o ha espresso altri giudizi negativi. Solo 20 intervistati su 4500 non hanno dato alcuna risposta.


C’è dunque una chiara sollecitazione a vivere nel sociale, ad evitare l’isolamento entro ambiti ristretti. È quasi un invito a “sporcarsi le mani” con le questioni del mondo, della società, degli altri soggetti umani. Insomma la clausura (e – si può immaginare – anche altre forme succedanee, simili o tendenzialmente affini, fra quelle relative alla vita conventuale) non sembra particolarmente apprezzata, anzi è vista come una segregazione volontaria rispetto alle questioni reali, stringenti, tipiche di chi vive nel quotidiano, cioè affrontando un’esperienza comune alla maggioranza degli individui sociali.


Considerazioni più favorevoli, si direbbe a livello elogiativo, provengono da quasi il 17% degli intervistati. Si può presumere che questo gruppo di rispondenti sia molto legato a posizioni di religione-di-chiesa, cioè ad un’osservanza ed una pratica religiosa costanti, insomma ad una linea ortodossa e ad una militanza forte e consapevole. In fondo è facile ipotizzare che questo stesso sia il bacino di provenienza della maggior parte delle vocazioni religiose.


Favorevole ma meno appassionato è il giudizio di coloro che considerano la clausura come una modalità religiosa al pari di molte altre possibili. Questo orientamento interessa il 20,4% dei casi campionati. Insomma la particolare condizione di vita claustrale, per quanto rigorosa, non comporta un aumento degli atteggiamenti favorevoli.


Non va poi trascurato il 18,7% che si mostra particolarmente ostile, giudica senza senso il tutto, esprime opinioni piuttosto sfavorevoli. Va tenuto presente che questo sottouniverso non è costituito solo da soggetti non orientati religiosamente ma anche da credenti e praticanti (magari saltuari).


In definitiva la vita monastica in generale (fatte salve le dovute eccezioni) non trova molta comprensione nel più vasto ambito sociale. Certamente questo dato di fatto può anche dipendere da una scarsa conoscenza e frequentazione da parte di soggetti ad essa esterni e che hanno poca dimestichezza con lo spirito e le problematiche dell’esperienza religiosa comunitaria, improntata a regole ben definite. I consensi, più o meno differenziati, non mancano ma non provengono da una quota rilevante della popolazione italiana. Anche forzando l’interpretazione dei dati, non più di un italiano su tre appare favorevole alla soluzione cenobitica in senso stretto.


Illuminante, a complemento e completamento di quanto detto sinora, è il dato relativo agli ostacoli che si frappongono nella scelta della vita religiosa. Anche in questo caso valgono le osservazioni di carattere generale premesse all’interpretazione dei risultati considerati sopra.


Ebbene, la domanda del questionario era così formulata: “A suo giudizio, quali sono oggi i principali ostacoli alla scelta di una vita sacerdotale o religiosa (prete, suora, frate)?”. Si potevano dare non più di due risposte. Le alternative proposte erano le seguenti: “la solitudine legata a questo tipo di vita” (che ha raccolto il 20,2% di sì), “oggi ci sono altre possibilità per fare una scelta di impegno religioso” (che ha registrato il 21,5% di consensi), “bisogna rinunciare a troppe cose” (che ha ottenuto il 26,7% di pareri favorevoli), “non potersi sposare, avere figli” (che è giunto fino al 37,4% dell’universo campionato), “è una scelta che impegna per sempre” (che ha attinto il 23,8% di intervistati consenzienti), “è la mentalità corrente che ostacola questa scelta” (che ha trovato d’accordo il 13,9% del campione), “il peso della responsabilità che la scelta comporta” (che ha fatto registrare il 18% di risposte), “il vincolo eccessivo nei confronti dei superiori” (che si è attestato sul 3,1%), “è un modo di vita retrogrado” (che ha riguardato il 5,2% degli intervistati). Hanno espresso altri giudizi 2,5 intervistati ogni 100.


Il quadro complessivo che emerge è una conferma in larga misura di quanto osservato in precedenza. Le nove motivazioni formulate nella domanda in questione hanno visto numerose adesioni, più o meno consistenti su tutta la linea. In generale l’impedimento matrimoniale sembra essere la ragione considerata come più significativa di altre, ma anche quelle relative alla rinuncia piuttosto ampia ed alla scelta definitiva e irrevocabile sembrano rilevanti, per non parlare della solitudine e della possibilità di altre opzioni religiose.


Detto altrimenti, le motivazioni per la non scelta appaiono abbastanza concrete, decisive, consapevoli. Si può immaginare che gli intervistati non solo non hanno manifestato in proprio la preferenza a favore dell’ingresso in una congregazione religiosa ma sono anche indotti a ritenere che non esistono in genere delle ragioni che inducano altri ed altre a comportarsi diversamente, in quanto gli ostacoli non appaiono facilmente sormontabili e le limitazioni sono piuttosto cospicue. È in questione principalmente la rinuncia a metter su famiglia ed a quel che ne consegue. La scelta peraltro è per la vita, per la sua intera durata, senza possibilità – si direbbe – di ritorno.


I vincoli previsti risultano non facilmente sopportabili. Sono pesanti da sostenere, specie in un’epoca come quella contemporanea, caratterizzata da larghe libertà di comportamento e da possibilità plurime di impegno religioso e non. Qualcuno degli intervistati poi preferisce esprimersi in un linguaggio che non lascia adito ad alcuna ipotesi differenziata, visto che comunque si tratta di un “modo di vita retrogrado”.


In riferimento al ruolo delle donne (e di conseguenza delle religiose) all’interno della chiesa il campione degli intervistati pensa che esse dovrebbero “contare di più” (lo dice il 47,95) o almeno “contare come oggi” (secondo il 49,3%), mentre appena il 2,7% propende per l’item “contare di meno”. E 61 intervistati non si esprimono affatto. In pratica se si tiene conto che l’universo di ricerca è composto per metà da uomini e per l’altra metà da donne è attribuibile piuttosto alle intervistate la richiesta di maggior attenzione per loro nella chiesa cattolica, mentre saranno stati in maggioranza gli uomini a ritenere che le donne dovrebbero contare come oggi.


Intrigante è da ultimo il risultato relativo al “giudizio sulla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio”. Evidentemente questa proposta concerne primariamente le religiose, che potrebbero ambire ad un ruolo pieno come ministre di Dio al servizio dei fedeli.


Intanto il 34,8% vede in modo positivo l’accesso femminile alla funzione sacerdotale. È vero che il 28,9% appare perplesso, ma ciò è forse dovuto più alla novità della proposta ed al suo carattere modificativo della realtà esistente od anche, magari, ad una mancanza di informazioni e motivazioni sufficienti per esprimere un punto di vista consapevole. D’altra parte l’atteggiamento negativo non è particolarmente diffuso, visto che arriva a non più del 31,5%, in effetti appena un intervistato su tre.


In definitiva l’inchiesta nazionale su La religiosità in Italia mette in evidenza luci ed ombre della situazione attinente alla vita religiosa, declinata essenzialmente al femminile. Nel complesso la valutazione non è del tutto positiva, salvo alcuni settori di maggiore ortodossia di chiesa. Del resto, però, la stessa ostilità dichiarata è minoritaria. Prevale invece l’atteggiamento intermedio: si può inferire che non si disprezza ma neppure si apprezza più di tanto il contributo delle donne che operano nell’ambito delle congregazioni religiose. Forse gioca in senso negativo una mancanza di comunicazione fra mondo monacale e realtà mondana, fra vita cenobitica ed esperienza sociale in senso lato.


Dunque ad alcune chiusure che provengono dal mondo religioso femminile corrispondono altrettante, se non più massicce resistenze che costellano gli orientamenti di fondo dell’universo sociale extra-monastico. Insomma c’è un corto circuito. A volte si tenta di ripararlo ma rischiando di procurare danni maggiori.


5. Conclusione: nascita e sviluppo del misticismo femminile


       Un significativo indicatore del rapporto intercorrente fra condizione femminile e contesto cristiano e cattolico è costituito dalla dinamica relativa al misticismo o meglio ai diversi misticismi che hanno attraversato tante generazioni di donne (AA. VV., 2005), assoggettate anche in questo campo al potere definitorio degli uomini (teologi, filosofi ed esponenti dell’apparato ecclesiastico).


       Una prima verifica si può avere a partire dalla lettura dell’opera di Egeria, scritta nel IV secolo come diario di viaggio in Terrasanta. L’autrice non si era permessa di cimentarsi in ipotesi e suggestioni relative a testi biblici: questo era compito riservato ai vescovi, ai sapienti, comunque a degli uomini. Già il suo viaggio ai luoghi santi era stato un azzardo. Non avrebbe dovuto andare  oltre, con commenti e riflessioni personali (Jantzen, 1995/1997, p. 76).


       In pratica «quelle forme di misticismo che erano compatibili con le prospettive ecclesiastiche dominanti vennero lasciate fiorire, e quelle che non lo erano vennero eliminate» (Jantzen, 1995-1997, p. 341).     


Insomma potere e conoscenza sono sempre in stretta relazione. Ed il genere fa spesso da spartiacque nell’esercizio del potere stesso anche in campo religioso e spirituale, indipendentemente dalle buone intenzioni dei soggetti coinvolti. Di conseguenza la costruzione storico-sociale del misticismo è un’operazione di tipo patriarcale, di cui le donne diffidano. Di fatto sarebbe avvenuta un’appropriazione indebita da parte degli ecclesiastici e degli accademici i quali si sarebbero impossessati strumentalmente della mistica e della spiritualità «conservando ad esse il potere ma assoggettandole ad un tornaconto maschile, oppure privandole del potere e perciò addomesticandole e femminilizzandole» (Jantzen, 1995/1997, p. 347). In tal modo tutto resta tranquillo, senza cambiamenti in campo pubblico, nella politica, cioè dove si esercita il potere reale.


Il definitiva il misticismo femminile è frutto delle contingenze storiche legate ai rapporti di genere e di potere e quindi rimane il precipitato ultimo di una costruzione sociale che va smontata punto per punto al fine di ricostruire, consapevolmente, i vari passaggi che hanno portato alla situazione presente. Per Grace M. Jantzen, in fondo, proprio il decostruire il misticismo è oggi «il compito mistico» per eccellenza (Jantzen, 1995/1997, p. 353).


Per secoli la donna ha subito mortificazioni di natura spirituale e corporale. In qualche modo le è stata negata la possibilità di esprimersi al meglio delle sue potenzialità senza sottostare a limiti imposti dall’altro e dall’alto. Ora si assiste anche ad una singolare «rivincita»: proprio le donne, a lungo tenute lontane dall’altare e dalle decisioni più importanti, si stanno riappropriando di uno spazio che è loro dovuto nella Chiesa. Ed ecco che sposando inaspettatamente anima e corpo propongono una mirabile simbiosi fra spirituale e materiale giusto in un ambito non facilmente soggetto a restrizioni di sorta, quello della preghiera. Appare dunque singolare e straordinaria insieme la «provocazione» di cinque teologhe spagnole che hanno scritto altrettanti saggi sulle possibilità offerte dal pregare con i cinque sensi del corpo, cioè udito, vista, tatto, olfatto e gusto. La felice coniugazione di elementi ascetico-contemplativi e fisico-corporali praticabili dall’orante attraverso orecchi, occhi, dita, naso e palato rende più partecipata, unica, non ripetitiva l’esperienza della preghiera. Così l’udito serve per ascoltare la parola di Dio, ma anche se stessi; l’olfatto converte la preghiera in sensazione divina e dà l’idea del profumo di Cristo nell’esistenza umana (Mt 26, 7 e Mc 14, 3); la vista richiama alla mente il valore dello sguardo femminile, di quello divino e della stessa Maria; il gusto si accompagna al vissuto della convivialità eucaristica; il tatto mette in campo le medesime sensazioni provate dalla figlia di Giario (presa per mano da Gesù ed alzatasi dal letto di morte) e dall’emorroissa che aveva toccato il Figlio dell’uomo con viva fede – dopo essere rimasta a lungo senza sperimentare alcun contatto umano, reietta com’era per il suo stato di impurità – (Gómez-Acebo, Fuertes Tuya, Zubía Guinea, Navarro Puerto, León Martin, trad. it. 2000).


Come si vede non solo sono delle teologhe a scrivere di questo ma anche le fenomenologie esemplarmente citate hanno come protagoniste delle donne, che dunque recuperano in pieno la loro dignità (Sennett, 2009) e restano degne di memoria (Scaraffia, Zarri, 2009; Militello, 2009), sulla scorta di quanto avvenuto alla donna di Betania che infranse un vaso prezioso per versarne il profumo sul corpo del Signore, il quale nonostante lo sdegno di taluni così testimoniò il suo apprezzamento verso di lei: «in verità vi dico: ovunque sarà predicato il Vangelo nel mondo intero, si parlerà pure di quello che ella ha fatto, in memoria di lei» (Mc 14, 9).


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Roberto Cipriani


RELIGIÓN POPULAR Y ESPECTÁCULO


Roberto Cipriani (Universidad Roma Tre)







La religiosidad popular


Resulta necesario aclarar que es preferible reflexionar y debatir sobre la religiosidad popular en lugar de la religión popular, optando utilizar una terminología producto de la enseñanza de un autor clásico como es el sociólogo alemán Georg Simmel [1906, 1912], quien ha realizado una celebre distinción entre la religión en cuanto hecho histórico-institucional y la religiosidad, definida come sentimiento difuso, visible en los actos de la práctica religiosa, es decir, en el comportamiento empíricamente relevable. Obviamente, esta opción aparentemente sólo nominalista ha sido objeto de observaciones críticas, pero es clara en sus características.


La religiosidad popular es tendencialmente lenta pero constante, de larga duración, no llamativa. Por esta razón se nota cuando algún suceso genera clamor y llama la atención de los medios de comunicación de masas, para luego volver a su álveo natural.


En Italia, por ejemplo, en pocos kilómetros alrededor de Nápoles se alternan y combinan diferentes experiencias de religiosidad popular. No muy lejos de Pompeya, se encuentra un famoso santuario dedicado a Nuestra Señora del Rosario y luego otro de la Virgen del Arco. Este último es un lugar de peregrinación local muy popular en donde cada año diferentes comunidades y grupos acuden el lunes después de Pascua. Miles y miles de fieles llegan a la localidad de Santa Anastasia durante la noche, después de un viaje de varios kilómetros, con los pies descalzos con los que golpean rítmicamente el suelo, de aquí nace el nombre de “battenti” (que en italiano significa “golpear” o “vattienti” en dialecto local). Éstos no deben confundirse con los hombres y mujeres que cada siete años se golpean hasta sangrar en la fiesta de la Asunción en Guardia Sanframondi, en la provincia de Benevento, en la región Campania. Lo mismo ocurre el Viernes Santo en Nocera Tirinese, en Calabria.


La entrada de los peregrinos en la iglesia de la Virgen del Arco se hace a menudo de rodillas, entre gritos y llantos, arrastrándose por el pasillo que lleva al altar de la Virgen. Los peregrinos se visten de blanco, con una banda azul trasversal y una banda roja en la cintura. Los dos colores no son colocados al azar ya que el primero alude a la Virgen María y el segundo a la sangre, es decir, a los sufrimientos de Cristo.


Al mismo tiempo, nuevas actitudes iconoclastas han dejado de lado los antiguos rituales, sustituyéndolos con liturgias improvisadas, creando una solución de continuidad con el pasado, derrochando recursos considerables en términos de capital cultural e impidiendo también la participación directa de los protagonistas populares en la elección de cosas que les incumbe.


La sociedad del espectáculo


Se debe principalmente a Guy Debord [1967, 1994] la idea de una sociedad del espectáculo, que es esencialmente una sociedad de consumo. A este respecto, no es difícil conectar el concepto de espectáculo a una forma de derroche ostensible, como lo define Thorstein Veblen [1899] o al mismo potlatch [Rosman, Rubel 1971].


Se trata de varias acciones ceremoniales de evidente carácter espectacular, que tienen lugar a lo largo del calendario y están condicionados por los ciclos de la naturaleza. La oferta de alimentos, la experiencia de la convivencia, la entrega de dones, la abundancia de comestibles, la sofisticación de la comida y el grado excesivo de bienes puestos a disposición son características peculiares de una manifestación de poder, superioridad y privilegio. Sin embargo se sigue religiosamente un conjunto de reglas. En otras palabras, la liturgia es establecida de antemano, punto por punto y luego se la cumple en forma servil.


Todo esto alude explícitamente a la lectura interpretativa de Cicerón (en De natura Deorum, 2, 72) aplicada al término de religión como relegere, es decir curar meticulosamente la ejecución, es decir, volver a ver, volver a leer, volver a pasar, verificar en detalle, examinar con diligencia cada detalle, cada aspecto, dirigir como un director de espectáculo que no deja nada al azar ya que el ritual se lleva a cabo a la perfección; de lo contrario no se consigue el efecto deseado. En definitiva, una gran parte de los ritos religiosos populares siguen normas arraigadas en el tiempo, en la tradición y en el respecto de las normas establecidas en el pasado.


Se trata de una forma de lealtad, de reverencia a los predecesores, los antepasados, ex protagonistas del mismo momento espectacular. La ortopraxis es, entonces, la clave de lectura principal de una representación que se renueva, pero que al mismo tiempo se mantiene fiel a sí misma a través de los años. Es posible obtener el beneplácito de las divinidades a través de acciones correctas, justas, adecuadas, serias y devotas.


El ceremonial simbólicamente significativo también sirve para transmitir poder y facultades, posesiones, roles y funciones. La importancia de este momento debe ser destacada y legitimada por acciones singulares, casi únicas, no fácilmente repetibles, espectaculares por cierto. Dada la importancia de la ocasión la transición de un patrimonio cultural y religioso, económico y político está caracterizado por signos claros, legibles, fácilmente interpretables, pero no por esto menos solemnes.


Don, reciprocidad, intercambio, favores recíprocos, generosidad exorbitante y acogida son las características del momento festivo. El carácter extraordinario de la celebración legitima todo en modo incondicional, permite el acceso a recursos que por lo general están reservados a propietarios privados.


No hay que olvidar que gracias a estas manifestaciones de apertura, abnegación, algunos actores sociales adquieren un prestigio casi inmediato, favorecido por las circunstancias excepcionales de la fiesta-espectáculo.


Tampoco podemos pasar por alto el hecho de que cada vez más la sociedad actual funciona como una sociedad del espectáculo, que se centra en el consumo organizado, preparado y planificado, que es también una “inmensa acumulación de espectáculos”. En este sentido, el análisis crítico de la sociedad hecha por Debord combina bien con la perspectiva marxista que apunta a transformar la ciudad, a librarla de la esclavitud del consumismo y a emanciparla del capitalismo. El enemigo, en particular, es el sistema de medios de comunicación de masas que conspiran en contra de la libertad de los individuos y propone atracciones de todo tipo para engañar a la gente.


Para Debord, como para Marx [1867, 1885, 1894] estamos asistiendo a una cosificación del mundo, a su objetivación a través del espectáculo, a través de relaciones ficticias, fabricadas, pre-establecidas por las instituciones para la socialización de las personas a través del aporte fascinante de las imágenes. Pero la idea que se está promoviendo es la de la interacción entre productores y usuarios, quienes no hacen más que acumular actuaciones y shows, sin solución de continuidad en el tiempo y el espacio, de una generación a otra y así sucesivamente.


Debord sostiene que el espectáculo máximo se obtiene literalmente cuando la mercancía, el producto, es capaz de ocupar y colonizar la entera vida social. De alguna manera esta versión de Debord parece ser un eco de la famosa teoría económica de Piero Sraffa [1960] que analiza la producción de mercancías mediante las mercancías. El hecho es que para Debord la mercancía es capaz de tener un espacio desbordante, tanto es así que al final el producto se convierte en el mundo real de las personas.


En tal sociedad, dominada por la hegemonía del consumo y la figura del consumidor, el único y verdadero placer está en el gasto, la compra, la adquisición, en apoderarse de algo que tiene una marca reconocida, claramente visible, claramente identificable por un dígito, una letra, un dibujo, un símbolo. A lo que se le atribuye valor. El resto parece no tener importancia. Prevalecen, por lo tanto, la apariencia y la visibilidad.


Pero detrás de esto hay un aparato que ha planeado cada detalle con el fin de obtener ese efecto. El deseo es satisfecho sólo en la toma de posesión de un símbolo, de un signo distintivo. No es que el espectáculo como tal ejerza un control directo sobre sus “víctimas” predestinadas, pero básicamente son estas últimas, aunque estén condicionadas, las que deciden y se dejan llevar por la encantadora llamada de las mercancías. Entrar en una tienda, en un gran negocio, sirve a calmar – aunque en forma ficticia y temporal – esa necesidad hecha de imágenes que circulan en modo prevalente y de modelos difusos y atractivos. La publicidad, el cine y la televisión son los vehículos de esta dinámica. Y el resultado final es estar presente en ciertos lugares que han pasado a formar parte del imaginario colectivo, en base a la tendencia fríamente construida por los intelectuales calificados del consumo de bienes. En efecto, especialistas de todo tipo trabajan casi sin cesar para construir nuevos emblemas, nuevos ídolos a seguir y perseguir. Casi todo está planeado, programado, calculado.


La intervención incisiva del consumismo global y de la industrialización se extendió hasta derrocar también, en una medida definitiva, los productos tradicionales que se utilizan en las fiestas: ya sea una bebida hecha con una receta antigua y plantas cultivadas en el sitio (como en el pueblo mexicano de Nahuatzen el aguardiente o el agua de caña local, en uso en los años ochenta, sustituidos luego en los años noventa, por el coñac francés o producido industrialmente en la Ciudad de México), lo mismo ocurre también con los ponchos o los sombreros sustituidos por otros productos tejidos con fibras sintéticas, no vegetales, de origen extranjero. Lo mismo ocurre con el aspecto festivo de los juegos y el entretenimiento: ya no más los juegos habituales del pasado, simples y artesanales, sino que ahora son más elaborados y funcionan con mecanismos complicados, a veces incluso manejados desde las computadoras. La lotería del tipo antiguo, con hojas numeradas, que corresponden a premios a extraer, ahora ha sido reemplazada por las máquinas tragamonedas, equipos que realmente “tragan” el dinero.


Al mismo tiempo, somos testigos del despliegue de formas de desvío, cuyo objetivo es mantener una cierta identidad cultural sin someterse a los dictados externos. Se rechazan así las fórmulas establecidas y ampliamente probadas en otros lugares y se prefieren soluciones locales, que responden mejor a los casos concretos, a hábitos de raíces autóctonas. Esto puede ser cierto para un baile, una procesión, una comida, para la música y el teatro.


En general, la doble elección puede prevalecer, con un enfoque mixto a medio camino entre nativo y extranjero, como para confirmar la tendencia de la llamada “glocalización” [Robertson 1994]. Y es aquí, entonces, que la fiesta se anuncia como un espectáculo en los sitios web, en las redes sociales más populares, a través de la radio y la televisión, los periódicos y las revistas, la publicidad y lo paquetes turísticos: peregrinaciones a través del ferrocarril, o vía mar o aire, junto con la comunicación artística más refinada al servicio de la propaganda religiosa-cultural, pero también gastronómica y paisajística.


Desde este punto de vista, la oportunidad que funciona mejor es sin duda la de la celebración del carnaval, que en sí misma se presenta como espectáculo por excelencia, fiesta vistosa de la protesta del status quo, inversión irónica – aunque no sólo simbólica – de las jerarquías vigentes. Es la forma máxima de exteriorización de la disidencia, de oposición a las diferencias de clase social y la evidenciación de la identidad cultural, de los males sociales y las marginalidades en curso (económica, sexual, lingüística, étnicas).


No es una casualidad que precisamente el espectáculo festivo del carnaval exalte la pasión de los participantes y destaque particularmente la estratificación inter-individual e inter-familiar que domina la comunidad y lo social. También vale la pena señalar que, en ausencia de un tiempo dedicado a este tipo de explicitación, oficialmente autorizado y legitimado por las autoridades sólo una vez en el transcurso del año (semel in anno licet insanire, es decir está permitido divertirse un momento en 365 días, más no se concede porque sería peligroso para el establishment), hay que destacar que el carácter festivo y espectacular del carnaval se impregna también en las fiestas religiosas, a través de otras formas, que de hecho operan claramente a nivel de comunicación pública.


En Nahuatzen, en el estado mexicano de Michoacán, la fiesta litúrgica en honor del santo patrón se transforma en una oportunidad para reafirmar ostensiblemente una pertenencia cultural negada durante siglos y mortificada por la dominación extranjera (por los españoles, los franceses) sobre los que se ironizan de modo no tan disimulado. Una vez más, se hace uso del détournement, una forma de rebelión intencional para invocar un mayor respeto por parte de los dominadores políticos y económicos, religiosos y lingüístico-culturales.


Un ejemplo: la fiesta como espectáculo popular


La elección de estudiar como ejemplo un país como México, a menudo llamado el “Sur de los Estados Unidos”, proviene de una intención un poco provocadora en el sentido de querer abrir rutas que toman en cuenta la realidad que generalmente han sido ignoradas a pesar de su considerable fuerza numérica y su importancia cualitativa. El problema central de la investigación se refiere a un proceso cultural caracterizado por una religión primero exportada de un país (España) a otro (México), soportada por las comunidades indígenas (aztecas y/o purépecha/tarascas, u otras), más o menos compatibles directamente con las antiguas tradiciones locales cuyos aportes han dado lugar a sincretismos impredecibles, luego extraída de la esfera litúrgica oficial católica [Cipriani 2009] para ser importada en los rituales cotidianos y festivos de una población que hoy en día puede comportar la presencia de características de origen española y de un remoto origen americano (en el sentido más amplio y apropiado del término).


La consecuencia histórica de este proceso es una especie de fiesta religiosa espectacular, pero sin la Iglesia (aquella institucional); de este modo la comunidad del pueblo de Nahuatzen gestiona por si misma todos los aspectos vitales de la dimensión simbólica y sagrada, casi prescindiendo completamente de los parámetros y referencias resultantes de la denominada “religión de Iglesia”.


Con razón a menudo se argumenta que el momento festivo es el punto culminante del potencial dramático, expresivo y simbólico de una comunidad. Y precisamente a partir de esta suposición se ha tratado de examinar el pueblo de Nahuatzen en ocasión del momento social más importante: las celebraciones en honor de San Luís Rey, que se celebran del 24 al 28 de agosto de cada año.


La fiesta se organiza y se lleva a cabo por la gente del pueblo sin tener mayormente en cuenta las autoridades políticas y religiosas del lugar. Sin embargo, la Iglesia y el Ayuntamiento son dos lugares de gran significado simbólico al punto que cada fase del ritual prevé al menos un momento de reconocimiento de las dos instituciones emblemáticamente presentes con sus estructuras físicas en la plaza central, punto de encuentro de los 4 barrios de Nahuatzen y que se convierte en una especie de escenario abierto y claramente visible y accesible a todos.


Las mismas violaciones de las normas de convivencia (comportamientos habituales en el carnaval) simplemente refuerzan y validan los actos de la fiesta: emborracharse es el resultado casi descartado de cualquier participación a la fiesta-rito (inclusive las mujeres) en un acto de desviación de lo cotidiano, con botellas levantadas hacia arriba a ritmo de danza sin parar que precede el recorrido de las bandas por el pueblo. No falta algún bebido que se improvisa director de una de las bandas, despertando las risas de los espectadores y haciendo que todo sea aún más espectacular. Otros evitan que algún borracho termine corneado por el toro en la arena, donde se hace el jaripeo, es decir el rodeo de toros, otro momento que recuerda el espectáculo de las corridas de toros en España.


Formas y contenidos del espectáculo


Según Cristián Parker [1996: 9-13] en una lucha entre la cultura indígena y el cristianismo habría cuatro resultados posibles: la rebelión reforzada por el regreso a la religiosidad antigua, la aceptación a través de la integración en el cristianismo, la resistencia militante con el uso del énfasis mesiánico, la aceptación parcial pero con la recuperación sincrética de antiguos modelos culturales.


Esta última solución es probablemente la más común, verificable incluso en el caso de la fiesta de Nahuatzen, donde se realiza un énfasis excesivo de la “auto-afirmación de la comunidad ante el clericalismo de la religión oficial” [Parker, 1996: 107]. Como contracultura, la fiesta afirma la vida, lo femenino, el pathos, el vitalismo, la expresión, la trascendencia. Está claro que es una respuesta a la modernidad [Parker, 1996: 115].


A través del análisis de las manifestaciones espectaculares de la religiosidad popular se puede comprender el significado y el alcance de los procesos de construcción de identidad respecto a cultos y celebraciones específicas del calendario. Se puede analizar también el peso de las normas respecto a la devoción de los santos a partir de los principios y patrones simbólicos que los caracterizan. Se puede observar la relevancia de reelaboraciones culturales y rituales de las manifestaciones populares como medios expresivos de resistencia étnica a las propuestas que vienen del exterior. Las soluciones sincréticas reúnen los aspectos más antiguos (y más radicados) con aquellos más nuevos que han sido importados por otras personas. Por otro lado, la presencia del clero, de origen europeo en la primera fase de la conquista y luego de origen local en los últimos tiempos, ha representado y representa una tendencia prevalentemente hegemónica, que apunta a mortificar o hasta a suprimir todas las formas de expresión religiosa-popular, especialmente cuando tiende a formas llamativas, ostentosas y teatrales. Por consiguiente, la respuesta indígena tiene varias alternativas: la adaptación-integración, la resistencia-reacción o la innovación-creación. Cada una de éstas actúa por su cuenta, pero también se mezclan hasta encontrar la forma más efectiva de mantener la pertenencia original, la identidad cultural primitiva y la referencia étnica habitual.


Es necesario señalar también que “el sistema de fiestas no tiene prácticamente ningún efecto sobre la distribución de los ingresos de la comunidad, ya que únicamente provoca episodios de consumo intensificado, y no la redistribución de la riqueza”.


Los 4 barrios de Nahuatzen (donde sólo pocos ancianos saben hablar purépecha) se turnan para desempeñar los roles previstos para la fiesta deSan Luís Rey, en el siguiente orden: los soldaditos, los moros, los toros, el castillo. Hay un carguero en cada barrio, por lo que algunas personas se presentan como candidatos cada año para asumir el manejo de la fiesta en relacióna las tareas encargadas a su zona. Según la costumbre, en el pueblo se hacen comparaciones entre los diferentes cargueros, que se confrontan con quienes los han precedido, tomando en consideración lo logrado en la parte de la fiesta que ellos han organizado; se considera también el hecho que las disponibilidades económicas de base, a nivel familiar, sean iguales o menores, ya que es considerado digno de mayor prestigio quien aun no teniendo ventajas debido a sus propias condiciones financieras se ha desempeñado mejor en su rol, con mayor satisfacción para el barrio al que pertenece y para el pueblo entero. El rol de mayorprestigio es aquel de carguero de los toros, porque esnecesaria una particularcapacidad organizativa, acompañadade una discreta disponibilidad financiera sobre todo parala realización del jaripeo, que dura tres días conespectáculos, ya sea a la mañana que en la tarde.


Ritos y funciones de representación


Diez días antes de la fiesta tiene lugar en la casa del carguero de los toros la danza del cerrito, puesto en el centro del corral, alrededor del cual bailan las marichas y los muchachos. En la cima del cerrito hay cintas coloradas. Por cada maricha hay también una botella de vino tinto, es decir de color rojo intenso como la sangre del toro. Al final todas las botellas son utilizadas por las marichas para ofrecer de beber directamente en la boca de los presentes. Luego se le pide a algún propietario de toros de dar su hierro quemador, o la patente que certifique la propiedad de los toros. El hierro (o patente) se coloca al centro del cerrito. Para recuperarlo el propietario debe dar un regalo. No es difícil individuar en esta ceremonia un carácter prónubo, es decir bien augurante para las parejas de novios que se unirán en matrimonio. El vino-sangre del toro tiene un claro significado de líquido seminal, en cuanto va a unirse a nivel labial gracias a la oferta de las mujeres. La danza es el momento central de todo el encuentro. El cerrito además es el lugar unificador, la fuente, la matriz emblemática de cada unión, el punto de convergencia, tomado del contexto ambiental y por lo tanto cargado de imaginario también por su identificación con el manantial de riqueza del pueblo. Por ultimo, el intercambio que lleva al don final es el sello de la alianza estrecha, de la coparticipación legitimada por la renuncia a un bien (el objeto del don) en vistas de obtener algo mejor (la recuperación de la potencia insita en el hierro quemador o en la patente de propiedad).


El 24 de agosto se hace la procesión o entrada de la cera con velas elaboradas (como en Ocumicho, en el estado de Michoacán, y en Sevilla, en España). A las 11 horas se celebra la misa de la primera comunión. A las 18 horas se celebra la misa por los cargueros y las comisiones. Pero durante los años en que se ha realizado la presente investigación, en el programa oficial colocado en las puertas de la iglesia y en las calles, nunca se han mencionado los momentos profanos de la fiesta.


El 25 de agosto, a partir de las 6 horas de la mañana, las bandas musicales tocan las mañanitas (recorriendo las calles del pueblo) y las alboradas (música clásica) en la plaza. A las 6,30 horas y a las 8 horas de la mañana se celebran dos misas. Aquella solemne concelebrada inicia a las 12 horas y está acompañada por los cantos del coro parroquial y por la presencia de las marichas. En los años sucesivos al 1982 han participado también los moros. Delante a la puerta de la iglesia alguna mujer vende el pan bendito y otros objetos religiosos. Los protagonistas de ese día son los moros y los soldaditos (eran 34 en 1982). Estos últimos representarían en realidad a los españoles, a pesar de estar vestidos con uniformes franceses. Aun iniciando sus danzas el mismo día de los moroslos soldaditos pierden importancia y la ganan los moros, dominadores incomparables de la fiesta también porque se mueven a caballo y se bajan casi solamente para bailar su danza (grupos de moros danzantes están presentes en muchas otras fiestas mexicanas, por ejemplo en San Pedro Ocumicho [Padilla Pineda 2000: 118-120; 222-227] y en Ihuatzio, donde la fiesta se realiza del 3 al 6 de octubre [van Zantwijk 1974: 177-180]). En realidad también los soldaditos van a caballo, ayudados por los padres, pero obviamente se imponen menos que los jóvenes adultos que interpretan los moros. De todos modos, por cuanto latente, la confrontación entre moros soldaditos es frecuente: unos y otros danzan, van a caballo, son seguidos por las bandas musicales, tienen un carguero y una comisión, la protección religiosa (de San Luís o de Santa Helena) y aun así el resultado mejor es sin dudas aquel de los moros, es decir, aquel de los indígenas, antagonistas de los extranjeros.


El 25 de agosto de 1982 la procesión principal, que debía comenzar a las 4 de la tarde – después de la exposición del Santísimo Sacramento, el Rosario, la Bendición Eucarística y el cambio de vestimentas a la estatua grande de San Luís – no se hizo porque según el curahabían sólo 30 o 40 personas por lo que no valía la pena hacer salir la estatua del santo por las calles (parece que en pasado participaba a la procesión también el obispo o un delegado suyo, ahora ya no más). Otra justificación dada fue que la estatua del santo era muy antigua y por ende merecía un particular respeto. A la tarde se incendiaron los dos castillos (del costo de 50.000 pesoscada uno).


En ocasión del incendio del castillo entra en función el torito, una construcción en madera de un toro pequeño accionada por un pirotécnico. El torito de luz, con bengalas y diferentes explosiones da la vuelta a la plaza (mientras se incendia el castillo) y los niños se burlan de él. Durante el carnaval se usa otro torito hecho de tela; un oficial va sobre un burro y algunos hombres vestidos como mujeres (maringuiyas) van detrás del torito: una vez más se burlan de los españoles. También es llamada torito la danza de las marichas (eran 28 en 1982) las muchachas que bailaban en las ceremonias de la fiesta relativa a los toros.


El día 26 de agosto se hace el jaripeo, a la mañana y a la tarde y se repite en los dos días siguientes.


No faltan juegos y carruseles (el precio por una vuelta era, en 1982, de 15 pesos). Se juega a tiro al blanco y a la lotería. Hay espectáculos cómicos, se prueba suerte en la rueda de la fortuna. Hay vendedores de globos (de diferentes formas, entre ellas de pescado), titiriteros y también están los pájaros de la suerte (que asomándose de su jaula extraen con el pico un billete, entre tantos, para predecir el futuro).


Mercado y divertimentos atraen muchos campesinosdel alrededor, ya sean mestizos que indígenas. A la fiestallegan también muchos jóvenes de las comunidades cercanas y gran cantidad de emigrados (de vuelta de otras ciudades de México o de los Estados Unidos). La fiesta tiene un carácter secular debido a varios aspectos. En efecto, es la ocasión en que se estrena ropa nueva o se calza un flamante par de zapatos de cuero, generalmente recién comprados en el mercado en la plaza. También se exhibe un sombrero nuevo, quizás comprado a un vendedor ambulante (que gira por las calles del pueblocon su enorme pila de sombreros de varias formas, sobrepuestos uno sobre el otro).


Para dar una óptima impresión en la fiestase ahorra mucho durante el año, especialmente si un propio familiar se vestirá de moromaricha o soldadito. Durante la fiesta es costumbre opinar y dar un juicio comunitario a quien desempeña un rol específico. Esta evaluación se hace en base al gasto económico realizado: “vale más, gastó más”. El costo mayor, se sabe, es aquel de los toros y de las bandas musicales.


En cada jaripeo hay entre 6 y 8 toros, pero el número total de los toros por día es 14.


Generalmente dos toritos son presentados al final. Es decir, en tres días se exhiben 42 toros que provienen de seis ranchos diversos, uno para cada jaripeo matutino o vespertino.


El sistema de cargos y la atribución del rol del carguero siguen una rotación anual y da lugar a dos figuras diversas: el titular y el suplente del cargo. El carguero y su familia generalmente son de orígenes humildes y de pobres recursos o poco más, asumen el compromiso de auspiciar un santo por un año entero y de revestirlo con un nuevo traje. En su casa, una habitación es adornada de flores y destinada al culto del santo (relacionado al rol específico asignado al barriopor aquel año).


La teatralidad de la fiesta: los soldaditos, los moros, los toros y el castillo


Durante los días festivos todo el pueblopresenta una atmósfera especial. A lo largo de las calles se construyen pequeños altares donde se posarán las imágenes sagradas en el curso de las procesiones.


Existe una explicación oficial también para los bailes de los moros fuera de la iglesia al final de la misa: sería un recuerdo de la liberación de los lugares santos de los musulmanes. En lo que concierne en cambio a los soldaditos estos serían parte del Ejercito Real que sostuvo la lucha para defenderse de los moros.


La fiestaes de tal importancia que fue el escenario para la realización de un film del titulo Pueblo Chico, Infierno Grande con los actores Verónica Castro y Juan Soler. La historia, más bien trágica, es colocada a fines del siglo XIX y habla de una viuda, Leonarda, que se enamora de un joven empleado suyo, Genaro. Todo comienza durante la procesión de San Luís, cuando los dos adolescentes, la misma Leonarda y Elmiro enlazan un lazo de amor, pero que no tiene un final positivo. Leonarda se casa con un anciano millonario, Rosendo, que muere poco después el casamiento. Luego de haber quedado viuda Leonarda encuentra a Genaro.


La verdadera fiesta inicia en la víspera, en las horas vespertinas cuando llegan las bandas musicales, que son acogidas al ingreso del pueblo y luego dirigidas al templo o directamente a las casas de los respectivos cargueros. La primera presentación de las danzas se realiza a la tardecita, frente a la iglesia: esta fase de la fiesta es llamada el Real. A la noche se incendia el castillo. También las bandas tomaron parte con música apropiada, ya que el barrio organizador del fuego pirotécnico no dispone de ningún grupo musical


El 26 de agosto a la mañana continúan las alboradas y luego las danzas y la vuelta de las bandas. Comienza el jaripeo, es decir los toros (pero su banda, con moños rojos en los instrumentos y juntos con las marichas, ha iniciado su actuación de la tarde del día 24 por lo que se exhiben por 5 días seguidos).


Dos espectáculos están previstos durante tres días consecutivos, uno a la mañana y otro a la tarde. Aquel de la mañana comienza con el toro de las once; ésta es más o menos la hora de la mañana cuando llegan las marichas, que llevan en la mano un pequeño toro de madera o plástico u otro material y están vestidas con el traje tradicional purépecha. Llegan al toril danzando al son de la banda de los toros, que cada tanto imita el mugido taurino.


Durante el jaripeo algunos espectadores bajan a la arena para enfrentar el toro, tratando a veces de meterse la cola del animal entre las piernas, como desafío o modo de buen augurio. Algún borracho, quizás con una camisa roja, puede crear problemas y terminar aplastado por el animal, pero sin graves consecuencias gracias a la intervención providencial e inmediata de quienes son particularmente expertos en tratar con los toros, resolviendo las situaciones más arriesgadas y dramáticas.


El 27 de agosto continúan las actividades centralizadas sobre los toros. En el cierre del día la banda de los toros y las marichas dan la vuelta al pueblo. Se retorna luego a la casa del carguero. Al mediodía la estatua de San Luisito vuelve a la casa del carguero de los soldaditos. En el mismo día tienen lugar las últimas danzas de los pequeños soldados y de los moros. Hacia la noche los cargueros entregan el símbolo de la danza (una bandera) al barrio que se encargará de organizar esa parte de la fiesta al año siguiente. Numerosa es la participación al momento del pasaje de un barrio al otro. Se hacen más danzas y brindis, con gran jubilo de todos.


El 28 de agosto se presentan los mejores toros en el jaripeo. La afluencia de espectadores es la mayor. Se hacen los jarabes, bailes y músicas populares. Se termina a la tardecita con la última vuelta de la banda y de las marichas por las calles del pueblo y en la plaza. Luego se va a la casa del carguero para que él entregue la bandera de los toros al barrio que le tocará organizar el jaripeo al año siguiente.


Si se acepta, aunque con alguna duda, el análisis de García Canclini y Sevilla Villalobos [1985: 31-34] el origen de la danza de los moros en la región de Michoacán debería ser relacionado con el monje Alonso Ponce y con un episodio del 1590 que tuvo como protagonistas los purépecha de Patamban y los chichimecas: los primeros fueron al encuentro de los segundos para darles la bienvenida y lo hicieron a caballo y vestidos de españoles con espadas de madera y otras armas falsas; los segundos bailaban alrededor a un señor de cabellos blancos y a caballo; luego de enfrentarse, unos y otros comenzaron a danzar juntos. La hipótesis surgida es que luego los chichimecas han sido sustituidos por los moros. Y también los enfrentamientos han desaparecido. Algunas veces además de los moros aparecen también los soldados.


El baile está dividido en tres partes (enredos) y está acompañado por las bandas musicales. Generalmente la danza de los soldados precede aquella de los moros, al menos en el área michoacana (en otros lugares hay variaciones). Por ultimo la gran difusión de la representación que ve protagonistas los moros en varias partes de México [Mompradé, Gutiérrez 1981: 245-252] hace pensar más bien a un evidente origen europeo, en particular de la España medieval [Barman 1972a] y de la tradición de la lucha entre cristianos y moros que se concluye con la victoria cristiana y el incendio del castillo moro.


La danza había sido importada por los monjes franciscanos en el siglo XVI [Mompradé, Gutiérrez 1981: 245] pero sus orígenes más remotos llegarían hasta el 1150 y al período de las chansons de geste. El primer documento trata sobre lo señalado por Díaz del Castillo [1992] respecto a la acogida reservada a Cortés hacia el 1524-1525 (cuando llegó a Coatzacoalcos) con arcos de triunfo y “ciertas emboscadas de cristianos y moros”. La danza se adoptó después por los indígenas y los mestizos y alcanzó varias regiones y localidades de México. Mompradé y Gutiérrez [1981: 250-251] precisan también que “solían incluso construirse dos castillos simulados, baluartes de los dos bandos contendientes, quemándose al final el castillo de los moros con cohetes o “castillos” pirotécnicos”.


La tradición de los fuegos pirotécnicos como momento de identidad y socialización festiva es aun hoy actual en España, donde mantiene además contenidos satíricos expresados en la esfera pública, perfectamente incorporados en la dialéctica entre cultura tradicional y procesos de modernización: emblemático es a este propósito el caso de las Fallas de Valencia, que consisten en figuras alegóricas quemadas luego en la noche de la vigilia de San José, al final de una Cabalgata de marionetas, llamadas Ninots,que danzan y tocan haciendo participar también a los espectadores [Costa 2002a, 2000b].


El traje de los moros comprendía “turbantes de seda, flores de papel, hojalata, oropel, espejos, cuentas de papelillo y sarta de perlas” [Mompradé, Gutiérrez 1981: 251; 384, lámina VIII]. Un turbante en parte similar a aquel de los moros michoacanos los usan, en las fiestas religiosas, también los Tarahumaras de la Sierra Madre Occidental [Tommaseo 1984: 94].


Para reconstruir con mayores detalles la compleja historia de la danza de los moros y de los cristianos conviene referirse a una obra fundamental en este campo escrita por Max Harris [2000], del título Aztecs, Moors, and Christians. Festivals of Reconquest in Mexico and Spain. Se trata de un trabajo bien documentado, meticuloso, ciertamente confiable sobre el plano científico. La tesis principal sostenida por Harris es que las batallas entre moros y cristianos tienen un evidente sentido de disenso respecto al statu quo. Por lo tanto la atención de las poblaciones indígenas a este tipo de manifestaciones públicas, de carácter burlesco, tiene que ver con el deseo de volver a ver a los indígenas mexicanos reconquistar su territorio poniendo fin a la conquista-ocupación-colonización de los españoles-cristianos. Los actores-danzadores que hacen el rol de los moros se identificarían plenamente con los aztecas (o con los purépecha en el caso de Nahuatzen) con el fin de desempeñar una función profética, de anuncio es decir de la esperanza que un día los legítimos titulares del territorio puedan liberarse definitivamente de las poderosas y excesivas presencias no indígenas.


Toda la danza de los moros es una forma máscara para decir algo que observando bien es bastante evidente. En efecto, los varios modos en que las poblaciones subordinadas insieren su resistencia en la trascripción publica son testimonio no solo de la creatividad humana en condiciones difíciles sino del “tremendo deseo y de la voluntad” de estos grupos de expresión publica, a pesar del riesgo de punición por parte de los detentadores del poder, del mensaje de la trascripción escondida [Harris 2000: 24-25]. Y de esta voluntad se es completamente conciente. Así se llega a criticar las pretensiones imperialistas de los españoles y de los extranjeros (como en el caso de los franceses representados por los niños-soldaditos de Nahuatzen, que no pueden no hacer pensar a la presencia histórica de Maximiliano de Habsburgo, enviado por Napoleón III y declarado emperador de México, en la segunda mitad del siglo XIX; obviamente el conocimiento preciso de este posible origen de la danza de los pequeños soldados vestidos como la legión extranjera no está profundizada y circunstanciada pero esto no impide explicitar un malestar que se expresa recurriendo a la ironía). Sin embargo, al final Harris propende a considerar la doble posibilidad ya sea de conciencia que de inconciencia de ambas categorías, aquella de quienes tienen el poder y aquella de los privados de toda forma de poder (y aquella de expresarse a través de la trascripción escondida).


Sigue, en la obra de Harris, un largo y detallado análisis del modelo español de la lucha entre moros y cristianos desde el 1150 y el 1521 [Harris 2000: 31-63]. Luego se pasa al período precedente a la colonización en México, desde 1321 a 1521, para mostrar que en el calendario azteca están ya previstas batallas burlescas a realizarse en ocasión de fiesta [Harris 2000: 67-114]. Sin embargo la parte más significativa es aquella sucesiva que abraza el período mexicano entre 1521 y 1600 [Harris 2000: 117-169]: en ésta se buscan los precedentes más relevantes por lo que se puede aludir al disimulado enfrentamiento entre moros y cristianos. Así se llega a la lucha simulada, entre canoas mexicanas e infantería chichimeca en 1531 o en 1566 en honor de la Virgen de Guadalupe o en la representación mexicana de la conquista de Rodi que dio lugar a la Ciudad de México en febrero de 1539, teniendo como escenario algunos castillos y una entera ciudad de madera, imaginada como Rodi, lugar disputado entre cristianos y turcos o por último en la conquista de Jerusalén recordada en Tlaxcala en 1539 con cristianos y moros enfrentándose. También Harris no deja de citar Fra Alonso Ponce [García Canclini, Sevilla Villalobos 1985: 31-34], viajador incansable, acompañado por su secretario Antonio de Ciudad Real, autor de un valioso diario [de Ciudad Real 1993]. Harris se refería obviamente al conocido escrito de Ponce sobre la aldea de Patamban y sobre los indiosvestidos de españoles y protagonistas de una batalla disimulada con los chichimecas [Harris 2000: 158-159]. A fines del siglo XVI de Ciudad Real ha documentado varias manifestaciones que tenían como protagonistas moros y cristianos. La última representación citada por Harris es aquella de la tarde del 8 de septiembre de 1598, para la conquista del New México, cuando “el campo entero celebró con una buena simulación la batalla entre Moros y Cristianos, estos últimos a pie y con escopetas, los otros a caballo con lanzas y escudos” [Harris 2000: 163].


Esta tradición taurina viene de lejos y se ha erradicado en México ciertamente gracias a la influencia español, pero con cambios sustanciales respecto al modelo de la corrida. El jaripeo no comporta la muerte del animal y, es más, es mucho más arriesgado para el hombre, como demuestran los numerosos accidentes también mortales que han marcado la historia más o menos reciente. La importancia dada al espectáculo en el toril tiene elementos religiosos, sagrados, lo que se puede constatar también en la oración especial que los jineteshacen antes del desafío. Ésta dice así: “¡Señor… nosotros los jinetes, no te pedimos favores especiales, sol… te pedimos nos des valor para cabalgar en la arena de la vida; esta vida que tu quieres que vivamos; y… cuando llegue el momento del ultimo e inevitable gran jaripeo y nos llames allá… donde las praderas son ricas en pasto y el agua es como el cristal: nos digas que nuestro boleto de entrada está pagado! Amen”.


Respecto al toro hay una especie de culto basado en 3 elementos: el guantela fuerza y el gustoEl guante significa la aceptación del desafío de organizar un jaripeola fuerza está relacionada a la posibilidad que tiene una persona de aceptar el desafío, ayudado quizás por los familiares y amigos, el gusto es el lazo con el toro que se desarrolla a través de la socialización primaria y segundaria lo que lleva a experimentar varios roles, de montador (andando sobre el lomo del animal), de jinete (desafiando a caballo el toro), de torero (que según modalidades casi afines a la corrida trata de distraer el toro, especialmente si el montador se ha caído) y de simple espectador. Hay que tener en cuenta que en algunos casos, como en Nahuatzen, hay una sobre posición entre el término jinete y aquel de montador ya que de hecho se trata del mismo rol.


Al rededor del mundo de los toros rotan varias figuras: vendedores de viandas, comerciantes, músicos (de instrumentos de viento), criadores, expertos en el uso de la cuerda para bloquear el animal por los cuernos o por las patas, diferentes colaboradores, miembros de la palomilla, es decir el grupo de secuaces de un montador profesional en calidad de toreros y voluntarios que tratan de evitar que el animal tumbe quien lo está montando. Las espuelas son fundamentales para poder mantenerse en el lomo del animal, por lo tanto es necesario saber colocarlos y usar bien. Muy importante es el braguero es decir la cuerda colocada al toro, donde se sujeta el montador. Es por esta razón el rol de quien pone el braguero al toro es fundamental.


Conclusiones


Entre la religiosidad oficial y aquella popular no hay una solución de continuidad, si bien la segunda se expresa de acuerdo con las normas que son diferentes a aquellas institucionales. Y por otro lado, la característica de espectacularidad se refiere a ambas fenomenologías, enriqueciendo de modo eficaz la totalidad de la celebración. Las fórmulas litúrgicas son codificadas por reglas escritas a partir de patrones establecidos, en cambio, las formas populares tienden a trascender los parámetros legitimados por la jerarquía eclesiástica y se basan en fuentes y prácticas no autorizadas oficialmente. Así es que en varias ocasiones la elección de la gente está a favor de formas alternativas, inclusive de oposición al establishment constituido.                                        


El carácter espectacular se presenta bastante obvio si está preparado por los ministros del culto, se vuelve más impredecible y dinámico en el caso de los eventos organizados directamente por los sectores populares. Lo que es consecuencia también de una mayor flexibilidad respecto a lo que permite la organización eclesiástica.


En otras palabras, el nivel popular también está caracterizado por una mayor participación e improvisación, por lo que no sigue una línea constante y predeterminada. De hecho, en la religiosidad popular es más difícil individuar y seguir roles establecidos a priori.


Al mismo tiempo, no es que esta última carezca por completo de una forma de organización para manejar momentos y funciones, personas y cosas. En principio se trata de personas responsables pero sin muchas barreras, que presiden y dirigen las celebraciones colocándose en el mismo nivel que los demás y compartiendo la misma experiencia.


En otras palabras, no hay, por ejemplo, en las formas de la religiosidad popular, un presbiterio, un lugar reservado a los clérigos que supervisan todos los aspectos de las ceremonias. En definitiva, la óptica es diferente ya que es compartida por la mayoría de los participantes. Cualquier persona puede intervenir de manera decisiva en la realización de un evento y darle una dirección diferente a lo que ha sido programado por los organizadores.


En la cultura religiosa popular prevalece la perspectiva del happening respecto a aquello de la estricta adherencia a un protocolo autorizado y reconocido como referencia única e inmodificable. Dentro de la misma espectacularidad religiosa-popular no es una casualidad que exista una capacidad de intercambio más pronunciado respecto los roles a desarrollar.


Por supuesto, también se dan situaciones en las que la fuerza de la tradición y el dominio de algunas familias impiden el acceso de los demás a la preparación y al contenido de una celebración festiva-espectacular. Pero incluso en este caso, la fuerza y el número de personas involucradas pueden llegar a ser decisivos para un cambio de rumbo, para una apropiación del poder y de las prerrogativas por parte de la gente. Esto ha ocurrido con frecuencia en el contexto de los creyentes comunes y/o ciudadanos que no forman parte de las esferas eclesiásticas.


LA ESTRUCTURA DE LA FIESTA



LOS SOLDADITOS


(San Luís)


Niños, danza del 24 al 27 de agosto: banda, caballos, carguero


LOS MOROS


(Santa Helena)


Jóvenes, danza del 24 al 27 de agosto: banda, caballos, carguero


EL CASTILLO


Forasteros, fuegos pirotécnicos del 24 al 25 de agosto: carguero


LOS TOROS


(Virgen del Cortijo)


Jóvenes jinetes y marichas, jaripeodel 26 al 28 de agosto: banda, toros, carguero


















Bibliografía


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2. Videos


– “Con el cielo en la planta de los pies” (1996), (La danza conchera queretana), Dirección y Guión Técnico: Rebeca Padilla, Guión Literario: Genaro Zalpa R., Cámara: Raúl Mendieta R., Asistente de Cámara: José Felipe Martínez, Edición: Eugenia Peregrina, Musicalización: Nicanor Altamira, Voz: José Dávila, Producción: Sergio Valdivia, La Casa del Mitote a. c. y El Fondo Nacional para la Cultura y las Artes, FONCA, 40 minutos.


– “Fiesta en la Meseta Purépecha” (1988), Dirección: Rebeca Padilla, Guión: Genaro Zalpa, Cámaras: Raúl Mendieta R., Nicanor Altamira, Edición: Geny Peregrina, Musicalización: Nicanor Altamira, Voz: Ángela Mejia, Producción: Sergio Valdivia, La Casa del Mitote a. c. y El Fondo Nacional para la Cultura y las Artes, FONCA, 25 minutos.


– “Gaban Weberei in Nahuatzen” (1994), IWF, Göttingen, 28 minutos y medio (también en 16 mm.).


– “Gigantes del Ruedo. Fiestas de San Luís Rey de Francia en Nahuatzen, Michoacán” (1995) (26 agosto, 11:00 am: Selección de la Sierra; 26 agosto: 4:00 pm: Nahuatzen versus Tiripetio; 27 agosto, 11:00 am: Cerro de Noriega; 27 agosto: 4:00 pm: Selección de la Sierra; 28 agosto, 11:00 am: Ganadería de Zuñiga; 28 de agosto: 4:00 pm: Selección Michoacana; 29 agosto, 11:00 am: Selección de la Sierra; 29 de agosto: 4:00 pm: Tiripetio de Joaquín Ballesteros), Video Filmaciones Medina, Morelia, Michoacán.


– “Las fiestas de San Luís” (1996), de Roberto Cipriani y Toni Occhiello, Roma, Università di Roma “La Sapienza”, 50 minutos (se encuentra en el sito: http://www.imdb.com/name/nm1698566/).


– “Purépechas, los que viven la vida” (1982), de Roy Roberto Meza, Instituto Nacional Indigenista, México, 35 minutos.


– “Venimos, Señor, a bailarte”, Cámaras: G. Zalpa Ramírez, Dirección: Rebeca Padilla de la Torre, Edición: Ma. Eugenia Peregrina, Foto Fija: Juan Carlos Escalera, Voz: Nicanor Altamira, Productor: Sergio Valdivia, Asesor de Producción: Raúl Mendieta, Apoyos Gráficos: Rubén González, Audio: Nicanor Altamira, Mario de Ávila, Videoproducción Docente, Universidad Autónoma de Aguascalientes, 25 minutos.


3. Films


– “Nahuatzen. Agosto 1982” (1982), film-investigación de Roberto Cipriani, sonoro, super8, 30 minutos.


– “Patamban, a village of potters. Daily life and work of a family” (Michoacán, México) (1997), de Beate Engelbrecht y Manfred Krüger, 88 minutos.