“Sport, Corpi, Identità. Una rivisitazione alla vigilia delle Olimpiadi di Londra”, Orientamenti Sociali Sardi, gennaio-giugno, 2012, pp. 48-68

Corpi e identità

Non è assolutamente un caso il fatto che tutte le caratteristiche tipiche del gioco [Vigarello 2002b] teorizzate da Roger Caillois [1991] coinvolgano sia il corpo [Blacking 1977; Defrance 1978, Featherstone, Hepworth, Turner 1991; Frank 1991; Polhemus 1978; Schilling 1993; Turner 1984; Vigarello 2002a] che l’identità [Donnelly, Young 1988; Donnelly 2008; Dubar 1996; Hill, Williams 1996; King 2004; Remotti 1996; Stevenson 2007]. Infatti è dato verificare una tale connessione sia nella competizione come agon, sia nell’azzardo come alea, sia nel simulacro come mimicry, sia infine nella vertigine come ilinx. E dunque il carattere della competizione è presente in tanti sports di squadra ed individuali, quello dell’azzardo è basato sul rapporto fra attesa e risposta da dare (come nel caso del tiro al piattello), quello dell’imitazione si ritrova nelle gare di nuoto sincronizzato, infine quello del rischio [Baudry 1991] è peculiarmente rilevabile nell’alpinismo (dove la vertigine è emblematicamente ciò che si prova nel corso di una scalata, allorquando lo stordimento è sì dovuto al rarefarsi dell’aria che si respira ad alta quota ma è altresì l’effetto della percezione plurisensoriale di uno spazio sconfinato e quasi del tutto vergine perché non attinto che da pochissimi corpi).     

La predisposizione del corpo allo sport

            Da Paolo di Tarso (I sec d. C.) a Giovanni Cassiano (IV-V sec. d. C.), sin dai tempi antichi era nota e praticata la connessione fra corpo e sport ed in particolare la necessità di predisporre il corpo al fine di poter ben figurare nella competizione sportiva: “Ascolta quanto dice l’Apostolo: ‘Ognuno che combatte in una gara s’impone ogni sorta di privazioni’ (1 Cor 9, 25). Cerchiamo ora di indagare di quali privazioni, in senso largo, egli intenda parlare per poter così, attraverso un confronto materiale, conformarci al combattimento spirituale. Infatti coloro che si cimentano in queste lotte spettacolari secondo certe regole non hanno la facoltà di ricorrere a tutti i cibi suggeriti dalla voglia della gola, ma solo a quelli che sono indicati dalla disciplina degli stessi giorni. E non è soltanto necessario astenersi dai cibi ad essi vietati, dall’ubriachezza e da ogni eccesso, ma anche da ogni indolenza e ozio e inoperosità, allo scopo di poter accrescere il loro valore con esercizi quotidiani e una continuata concentrazione. E così essi si estraniano da ogni preoccupazione, dalla tristezza e dagli affanni secolari, e perfino dagli affetti e doveri coniugali, in modo da non attendere ad altro se non agli esercizi imposti dalla disciplina, senza lasciarsi implicare in nessuna cura mondana (cf. 2 Tm 2, 4): essi confidano di ottenere il necessario vitto quotidiano unicamente da chi presiede agli agoni, la corona della gloria e i premi convenienti al valore della loro vittoria. Si mantengono immuni da ogni relazione carnale a tal punto che, mentre si preparano al combattimento degli agoni, per timore che durante il sonno, per effetto di ingannevoli illusioni notturne, non abbiano a sminuire le energie conquistate in lungo tempo, coprono con lamine di piombo i loro fianchi proprio perché il freddo del metallo, applicato all’inguine, inibisca l’effusione degli umori impuri. Essi così sono convinti che senza dubbio sarebbero destinati alla sconfitta senza poter più condurre a termine la lotta programmata, qualora la falsa immagine di un piacere nocivo avesse intaccato la sicurezza procurata dall’astinenza” [Cassiano 2007: 191-192].

            Questo passo, che si colloca nell’ottica di una concezione cristiana volta ad evitare anche incontrollabili polluzioni notturne, sottolinea comunque lo stretto legame intercorrente fra preparazione fisica ed esito dell’agone, fra impegno personale e risultato conseguibile nella competizione. Ma soprattutto rimanda alla vexata quaestio della differenza fra l’io del soggetto e l’oggettività del corpo, che pure identifica la persona umana. A ciò si aggiunge il tema del controllo del corpo ovvero del suo possesso. In che modo l’uomo e la donna sentono proprio il loro corpo? È forse la stessa cosa dire che io sono un corpo o che io ho un corpo? Orbene se io sono il corpo la mia identificazione con esso non è discutibile e dunque ne sono responsabile in pieno. Ma se io intendo dire invece che ho un corpo allora creo una distanza fra me ed il mio corpo, lo rendo altro da me, non assoggettabile sempre e comunque alla mia volontà: “da qui si scorge facilmente l’origine della concezione dualistica dell’avere e del possedere: l’io che ha un corpo, non è il corpo. E non lo è neppure quando si giunga a affermare che l’io si trova a essere in un corpo, nel proprio corpo. Giacché anche in questo modo l’io e il corpo vengono intesi come due parti, due componenti eterogenee di un io, che si estende fino a comprendere se stesso, per un lato, come un io parziale e, inoltre, a comprendere, per l’altro lato, il proprio corpo come un’altra parte non riconducibile all’io parziale, diversa da esso. Ma allora la proposizione: io ho un corpo, sdoppia il significato dell’io in un io che è soggetto comprensivo e totale dell’io e del corpo, e in un io che è solo una sua parte, di cui si può dire che è posseduta, avuta, dall’io comprensivo e totale allo stesso modo in cui è posseduta, avuta, quella parte che denominiamo corpo” [Molinaro 2008: 10]. Le problematiche qui sollevate non sono di poco conto e sottendono la fitta rete di rapporti fra corpo, identità e sport. Metaforicamente si può fare riferimento in proposito al tiro con l’arco, per cui il corpo sarebbe lo stesso arco che debitamente piegato, assuefatto grazie alla tensione della corda che unisce e chiude formando una circolarità identitaria, viene poi teso agonisticamente fino al massimo della forza possibile per scoccare infine la freccia (emblema dello sport) che andrà a raggiungere il bersaglio, la meta, il traguardo, facendo segnare un certo punteggio.        

Il corpo come identità

            Si potrebbe sostenere che in principio era il corpo ed il corpo si fece identità ed andò ad abitare fra gli sports [Magnane 1964; Ohl 2006; Parlebas 1986]. Credo che questa parafrasi renda bene il significato [Synnot, Howes 1992] della relazione che intercorre fra sport e identità, fra sport e corpo [Bancel, Gayman 2002; Nunziata 2008], fra identità e corpo [Salisci 2008: 150-153]. Ovviamente il punto di partenza resta pur sempre il corpo [Bromberger, Duret, Kaufmann, Le Breton, de Singly, Vigarello 2005; Le Breton 1990; 1993], senza del quale non è possibile l’identificazione: non a caso nel linguaggio corrente si dice appunto che un corpo è stato identificato, cioè è stato riconosciuto appartenere ad una singola persona, la cui identità (almeno anagrafica) è unica, presumibilmente irripetibile. Invece altre forme di identità, o meglio di identificazione, sono possibili ed anche praticabili, proprio come avviene nello sport. Va notato, comunque, che rispetto al passato ci sono state, in tempi recenti, variazioni significative. Se prima l’attore sociale sportivo era connotato quasi solo da un numero, apposto sul retro della maglia indossata, o fermato sul petto, o aggiunto al telaio della bicicletta o della moto o della canoa, ora invece sempre più spesso si ricorre all’indicazione (ben visibile) del cognome o talora del soprannome, cioè di una forma enfatizzata di identità riconosciuta come eccezionale, straordinaria.

Un tale cambiamento, mentre sembra ridurre la valenza collettiva in uno sport di squadra, privilegiando ed esaltando la dimensione individuale, in realtà sottolinea anche la responsabilità del singolo per il buon esito della prestazione di squadra. Né si può trascurare la creazione (e la diffusione) del flusso di identità e di conseguente identificazione che nasce ed intercorre fra un protagonista sportivo (un individuo o un team) e gli sportivi, i tifosi, gli aficionados, i fans, che manifestano la loro affezione, il loro attaccamento [Jamet 1991], la loro appartenenza [Poli 2005, Porro 2008: 76-79], attraverso una serie innumerevole di modalità: dall’indossare una maglia del medesimo colore (con tanto di nome su di essa) al dipingere parti visibili del corpo (specialmente volto e mani) con le medesime caratteristiche cromatiche del soggetto di riferimento.

Il processo di identificazione

Il processo di identificazione [Robinson 2008: 318] comporta essenzialmente un ravvicinamento somatico [Schlanger 1995], in qualche modo. Per questo si segue l’atleta o l’équipe in ogni momento, per quanto possibile, dalle fasi dell’allenamento alle trasferte, dal momento ludico (imprevedibile nei suoi sviluppi) alla vita quotidiana (più ripetitiva nel suo svolgersi).

            Uno degli obiettivi di questa continua sequela, di questo seguire quasi senza sosta, è verosimilmente il poter toccare con mano, personalmente, direttamente, l’oggetto-soggetto della propria ammirazione, della propria relazione, del proprio transfert psico-sociologico. Ecco dunque che la ricerca di un autografo (ovvero di uno firma originale ed identificativa), magari con dedica (elemento di congiunzione identitaria tra firmatario e destinatario), o il possesso di un indumento (elemento che consente di sentirsi quasi a contatto con la pelle di un altro) divengono un fattore di rafforzamento del processo identitario, che trova così una sua legittimazione concreta e visibile. C’è poi tutto un armamentario simbolico che in modo assolutamente peculiare accompagna ogni evento, ogni tempo della esperienza di interazione [Goffman 1961; 1967], la quale non investe – si badi bene – solo la persona dello sportivo-tifoso ma altresì quella dello sportivo-atleta che, a sua volta, cerca sostegno (e dunque identificazione) in quanti lo seguono da vicino, a costo di notevoli sacrifici (non solo economici ma anche fisici: si pensi alle lunghe ore di trasferimento per seguire un avvenimento sportivo, lontano dalla propria città di residenza).

Proprio la presenza di una simbologia, efficace ed eloquente di per sé, fa intendere quale sia la dinamica reale dei processi di identificazione. Il che risulta dal significato stesso di simbolo, le cui radici affondano nel verbo greco che gli dà origine: sumbάllw (“sumbállo”), che vuol dire “metto insieme”, “unisco”. Orbene per comprendere adeguatamente il senso di questa azione del “com-porre”, del “porre insieme”, del “congiungere”, conviene rifarsi ad una procedura, di derivazione appunto greca, relativa al sistema di votazione in uso nell’agorà, nell’assemblea pubblica (riservata ai cittadini maschi). Per il riconoscimento di quanti avessero diritto al voto si utilizzava uno strumento elementare consistente nel ricorso a frammenti di argilla derivanti da oggetti (vasi, per esempio) ridotti in pezzi. Com’è noto, le linee di frattura che si producono nello spezzare un oggetto fatto di argilla sono assai diverse fra loro, per cui ogni tentativo di ricomposizione riesce solo nelle misura in cui i frammenti combacino l’uno con l’altro, ricostituendo la forma originaria. Ciò è possibile se effettivamente i vari pezzi riaccostati fra loro riproducono quello che era l’affiancamento quando l’oggetto era intatto. Dunque una parte si unisce ad un’altra solo se era unita anche in precedenza. In tal modo il diritto di voto nell’agorà poteva essere esercitato verificando la possibilità di connessione fra i due frammenti usati per la procedura. In definitiva il “porre insieme”, il “com-porre”, permette l’identificazione e dunque il simbolo è una forma di identità ed è altresì una legittimazione del processo di identificazione.

L’appartenenza

Si capisce bene, da quanto già detto, quanto rilevante sia il ruolo del simbolo, che identifica una squadra sportiva, l’appartenenza di uno sportivo-atleta e di uno sportivo-tifoso.

Ed anzi proprio sul simbolo si gioca il conflitto fra appartenenze diverse. Si può addurre come caso emblematico il rapporto che si instaura rispetto alla bandiera di club o al blasone che lo rappresenta. L’una e l’altro hanno un posto di riguardo, sono venerati alla pari di un elemento sacro [Amara 2008], sono conservati con cura, non si lasciano in balia di chi ne possa fare un uso improprio, magari a dispetto. E gli allori conquistati si appuntano sull’una e/o sull’altro, per accrescerne il valore simbolico e la carica identificatoria. Né va trascurato il caso che vede un particolare individuo assumere un prestigio ed una stima così accentuati da indurre a considerarlo una vera e propria “bandiera”, un simbolo rappresentativo dell’intera squadra e di quanti, a vario titolo, la accompagnano, la sostengono e vi fanno capo.

Insomma la parte, cioè il simbolo, di fatto sostituisce il tutto, cioè il gruppo sportivo. In questo andirivieni fra rappresentanza e rappresentato si gioca – è giusto il caso di dire – gran parte dell’interazione psico-sociologica che implementa un’attività sportiva, la quale diventa immagine di un’intera città, di un popolo, di un quartiere, di un’etnia, di una comunanza di caratteri, di una classe sociale [Pociello 1995].

Arrivano ad essere così forti i legami tra un soggetto sportivo, agonisticamente impegnato, e la sua base organizzativa e di sostegno emotivo che raramente un atleta, un dirigente, un allenatore, un preparatore, un massaggiatore o un magazziniere sono in grado di prescindere da una frequentazione che è stata in vigore per anni. Andare via, abbandonare, cambiare squadra suonerebbe come un vero e proprio tradimento. In effetti i riferimenti di bandiera di solito non sono propensi a mutare contesto, città, affiliazione. Neppure l’attrattiva economica funziona più di tanto, perché si preferisce ricevere un compenso minore, rispetto ad altre offerte, pur di restare il point de repère di un’intera realtà sportiva. Il rapporto che si è venuto a creare è abbastanza profondo. E se anche, per varie ragioni, si è costretti a cambiare squadra, quando dovesse capitare di affrontare la squadra di ex appartenenza la professionalità sportiva porterebbe ad avere un comportamento agonistico ineccepibile ma altresì a tenere conto del passato e dunque a non gioire in modo vistoso in caso di propria vittoria: a livello inconscio, sotterraneo, carsico, resta pur sempre un filo rosso, un cordone ombelicale metaforico che riconduce alla matrice di provenienza. D’altra parte l’atleta che si trova in una nuova situazione sa bene che ha perduto tutto un retroterra (costruito e conquistato a fatica) e che lì dove si trova al momento deve ancora porre le basi per ottenere, se ci riesce, i medesimi risultati già raggiunti prima.

I segni dell’appartenenza identitaria

Può anche darsi che il medesimo atleta abbia sul suo stesso corpo il segno visibile e tangibile della sua precedente affiliazione, per esempio un tatuaggio [Atkinson 2003; Caplan 2000; De Mello 2000; Featherstone 1999; Nunziata 2008; Steiner 1990; Tannebaum 1987] che evidenzia il legame identificativo con una squadra, con un club. Il tatuaggio non è cancellabile facilmente, come non lo è il passato di chi lo ha ben impresso su di sé. D’altra parte il recente diffondersi della moda del tatuaggio richiama di solito alla memoria le esperienze pregresse del soggetto, siano esse affettive o sportive, oppure le une e le altre insieme, in una simbiosi inscindibile. È opportuno rilevare che se una persona decide di portare con sé un marchio indelebile (o quasi) lo fa per ragioni non estemporanee, non passeggere. Egli sa bene che si tratta di qualcosa che è destinato a restare per sempre, o meglio per tutta la durata fisica del suo stesso soma. Solo la conclusione dell’esistenza darà inizio ad un processo di decomposizione, di desimbolizzazione, di disaffiliazione, di separazione tra il simbolo tatuato ed il corpo sul quale è inscritto. In altri termini il tatuaggio è una scelta sostanzialmente definitiva, non agevolmente cancellabile. Quando dunque uno sportivo-atleta o uno sportivo-tifoso decide di farsi tatuare il nome del proprio team o del proprio divo calcistico o rugbistico lo fa a ragion veduta. In fondo è un tipo di soluzione e di esperienza che ha affinità inconfutabili con altri andamenti, per esempio di natura religiosa. Le stimmate sono infatti una sorta di tatuaggio più cruento, una stampa sui generis dei connotati di un’entità superiore, diversa. Francesco d’Assisi e Padre Pio da Pietralcina, in ambito cattolico, costituiscono due casi emblematici di immedesimazione, di identificazione con il Cristo, di cui ripropongono in modo ostensibile (anche se tendenzialmente riservato) i segni della passione, cioè della sofferenza attraverso la quale il “dio fattosi uomo” si è incarnato fisicamente, cioè assumendo la corporeità degli altri esseri umani per rappresentarli. Tale rapporto ha poi un orientamento biunivoco, nei due sensi: dal divino all’umano e dall’umano al divino. Allo stesso modo ha luogo la transizione di identità [Barba 2007: 81-105] tra un atleta e la sua compagine di militanza sportiva, tra un tifoso ed il suo campione preferito, tra un allenatore ed il suo gruppo di azione addestrativa [Vigarello 2004]. Ma c’è da dire che avviene anche il contrario, perché la relazione è vissuta pure nell’altra direzione, cioè tra la squadra e il giocatore di riferimento, tra l’équipe ed il suo trainer (il cui corpo, in caso di vittoria, viene sopraelevato e messo in mostra dagli altri corpi di atleti e dirigenti, in un’apoteosi che simboleggia, al massimo grado, la convergenza fra sport [Coakley, Dunning 2000], corpo [Cortine, Courbin, Vigarello 2005-2006] e identità [Crossley 2001; Stevenson 2002]). Il contatto fra i corpi diviene necessario, anzi è visibilmente ritualizzato ed ostentato anche nell’abbraccio che il realizzatore di una meta, di un gol, di un punto, riceve da parte dei suoi compagni, il cui ammucchiarsi quasi orgiastico [Maffesoli 1985] denota chiaramente una compartecipazione, una condivisione, che va ben al di là del mero incontro fisico [Ulman 1993] ed ha piuttosto una valenza simbolica, che unifica annullando le differenze di ruolo e di carattere, tutte sciolte ed avvinghiate nel profilo di gruppo, in cui non si distinguono i corpi, le braccia, le gambe, le teste, perché sono parti di un puzzle che configura un momento di gioia condiviso, unico: ognuno diventa tessera di un mosaico che è possibile leggere attraverso uno sguardo d’insieme, un colpo d’occhio talmente significativo che spesso viene immortalato dalle macchine fotografiche o dalle telecamere, che ne restituiscono il messaggio fondamentale del tutti per uno e dell’uno per tutti. La forza di un simile messaggio è talmente cogente e coinvolgente che può rimanere valida per diverse generazioni ed essere riproposta senza soluzione di continuità nel tempo. In qualche caso diventa, a partire da una foto (anche se un po’ costruita), un vero e proprio monumento, come ben documenta il celebre esempio dei soldati statunitensi che insieme, l’uno appoggiato all’altro, issano la bandiera a stelle e strisce sul suolo di Iwo Jima, senza soluzione di continuità fra i corpi dei militari ed il simbolo della confederazione.

Gli strumenti di identificazione

Appunto la bandiera, sventolata dai fans, è un simbolo per eccellenza che unisce [Bairner 2003; Henry 2008] ed emoziona, suscita sentimenti di appartenenza e rafforza lo spirito di squadra. Alcuni la indossano, quasi fosse un abito [Giorcelli 2008] per il loro corpo. Certamente sono anche altre le soluzioni adottate da atleti e tifosi per sottolineare il loro intento comune: dal fare un corpo unico per stringere le loro mani al centro di un cerchio al gesto, assai diffuso, del “give me five” che facendo combaciare le cinque dita delle mani di due atleti richiama in maniera inequivocabile il concetto di “congiungere”, “com-porre”, cioè il già citato procedimento in uso nell’agorà greca, che riconosceva il diritto di voto, mediante l’accostamento di due cocci di argilla, cioè esattamente come si fa con l’avvicinamento di due mani nel “give me five”.

Altre formule unificatrici ed identitarie si basano sugli indumenti indossati, sia quelli di gioco che di allenamento od anche di viaggio, e/o di riposo. La condivisione dei valori, delle fogge e dei capi di abbigliamento è pervasiva e quindi connotativa, cioè performativa nel senso che trasforma un singolo individuo in qualcosa che almeno materialmente, a livello di vista, appare diverso dagli altri che non facciano parte del medesimo insieme. E così non solo gli atleti vestono allo stesso modo ma lo fanno anche dirigenti ed accompagnatori e chiunque abbia un ruolo funzionale per la squadra. Vi sono tenute e tute che, come indicano gli stessi lemmi adoperati, sottolineano l’intento palese, volto a tenere, mantenere, custodire, salvaguardare, assicurare l’adesione di tipo collettivo. Però il corpo è di solito rivestito e pertanto gli abiti [Steiner 1990] divengono essi pure un supporto per manifestare un’appartenenza, altrimenti non riconoscibile da parte degli altri. Per questo, non solo la tenuta sportiva, indossata nei tempi di pratica agonistica, ma altresì gli abiti del resto della giornata seguono un modo ormai ampiamente diffuso, cioè il rivestirsi con una foggia e con dei colori che richiamano quelli della società sportiva di cui si fa parte. E al limite può bastare un piccolo stemma sulla giacca o su un cappello per assolvere in pieno la funzione di esplicitazione di una membership.

Oltre i vestiti della quotidianità, sono anche e soprattutto le tute, piuttosto vivaci nei loro accostamenti cromatici, ad evidenziare la connotazione identitaria. Un tempo la presenza della tuta di squadra era limitata agli allenamenti, in particolare al periodo di permanenza sul campo di gara o negli immediati dintorni. Ora invece l’uso è esteso anche ai momenti di riposo, alle permanenze in albergo, in camera di letto, o al ristorante. Insomma pare che quasi non si voglia lasciare alcuno spazio ed alcun tempo in cui venga meno il carattere dell’affiliazione. Così l’atleta si sentirà sempre e comunque impegnato e coinvolto nel rendere onore ed omaggio al suo club. In definitiva, abiti di rappresentanza e tute sportive ricoprono e proteggono i corpi, ma in realtà salvaguardano altresì il sentimento di relazione con la propria comunità. Un po’ come per i componenti di un’orchestra, che vestono tutti allo stesso modo, gli atleti si sentono vicini fra di loro, accompagnati, grazie al semplice tegumento tessile che li avvolge e che li presenta alla considerazione altrui come un insieme non divisibile, piuttosto unito ed uniforme grazie all’uniforme. L’uniformità rispetto a qualcuno o a qualcosa passa peraltro attraverso modi che sono simili a quelli sperimentati in ambito religioso, come nel caso delle stimmate ad esempio, in cui l’immedesimazione tra il mistico e la sua figura d’imitazione (si pensi al celebre testo di Tommaso da Kemp dal titolo L’imitazione di Cristo) è così forte da imprimere le medesime piaghe di Gesù nel corpo del suo fedele seguace. E così se Francesco d’Assisi diviene alter Christus, un atleta dal suo canto è talmente un tutt’uno con il suo team da poterlo rappresentare in pieno, giacché ne è la figura-chiave, il simbolo per eccellenza. 

C’è però un’altra dimensione meritevole di considerazione: l’identità resta pur sempre una manifestazione del sé, che si rende possibile, percepibile e sperimentabile grazie appunto alla mediazione degli altri, per il semplice loro esistere indipendentemente dal sé. Quest’ultimo dunque presuppone gli altri, ma entrambi riconoscono di esistere proprio in quanto si contrappongono fra loro. Ecco perché l’identità non è riscontrabile come una realtà autonoma ma ha bisogno di riflettersi in qualcos’altro. La partnership dell’altro è fondamentale per l’avvio del processo di identificazione. Nello sport ciò ha luogo sulla base di una diversità di appartenenza fisica ed intersoggettiva che consente il confronto competitivo. Non è dunque fuori luogo il ribadire la propria identità di base prima dell’inizio di una gara, con il suono (ed il canto) degli inni nazionali o con gesti e grida che sono in pari tempo di autoincoraggiamento, di rafforzamento in forma di autosuggestione sulla propria capacità di vittoria e con qualche contenuto scaramantico. Le collettività sportive prediligono sottolineare più volte la loro identità, testimoniarla in modo vistoso, creando e ricreando di continuo una mappa della loro autocollocazione, costruita a propria immagine, con una proiezione che porta a vedere gli altri come diversi e come ostacoli al raggiungimento del risultato, del traguardo. In tal modo l’impazienza di raggiungere la meta comporta anche una certa fretta nel delineare il profilo altrui, trascurando il dato di fatto che anche dall’altra parte c’è una medesima ansia che impedisce una conoscenza adeguata dell’antagonista, dell’avversario sportivo.

In questo quadro d’insieme lo sport come il gioco appare quindi come una forma di socialità, anzi – meglio – di sociabilità alla maniera di Georg Simmel [1971: 127-140], che l’ha definita “forma ludica della socializzazione”, in base alla quale si registrano numerosi scambi simbolici, attraverso le interazioni messe in atto dagli attori sociali, che provano gusto nel loro intrattenersi reciproco, su una base contestuale di appartenenza e di differenziazione, di giochi di ruolo, di incontri e scontri, di avvicinamenti ed allontanamenti, di cambi di persona, luogo e tempo. In particolare la sociabilità, secondo Loy e Coakley [2007: 4647], si basa sulla reciprocità dell’interazione: mentre nella vita gli ostacoli si frappongono senza che gli attori sociali abbiano le risorse per superarli nello sport invece vengono forniti gli strumenti per affrontare le barriere appositamente create; poi i partecipanti ad una gara sportiva vengono spersonalizzati, per la presenza di maschere e costumi, riducendo perciò il coinvolgimento personale; inoltre nell’agone la collaborazione è necessaria, riducendo le istanze soggettive; infine tutti i partecipanti sono considerati alla stessa stregua, senza alcuna differenza di classe o di altra natura ed in pratica alla luce di una concezione democratica.  

In fondo l’individuo-atleta si esprime ma anche spiega e costruisce se stesso attraverso il suo linguaggio peculiare, che è quello di trastullarsi con le regole, ora rispettandole ora infrangendole, provando a rappresentare la sua stessa vita in questo interplay, che mira ad una sostanziale riappropriazione della realtà, ad un recupero del perduto, ad una ripresa del passato in vista della costruzione di un diverso futuro. Ed allora appunto attraverso lo sport l’io ed il corpo rendono manifesto il loro Dasein (esserci) nel tempo che vivono, in una prospettiva di matrice heideggeriana [1927].       

La sociabilità poi diventa socievolezza specialmente nel gioco e nello sport, ma diviene altresì aggressività, per cui socievolezza ed aggressività risultano essere parti di un medesimo gioco, la cui indeterminazione è dovuta all’incertezza del risultato finale e ne costituisce l’alea principale, la dose di rischio, l’imprevedibile. Ecco allora che il gioco da semplice mezzo si trasforma in fine e diventa sport, che però non è un ambito separato dalla realtà ma ne fa parte in pieno. La sua processualità dinamica non è prevedibile perché sono in gioco delle regole da rispettare ma anche da valutare da parte di chi tiene le redini del gioco e ne giudica la corretta osservanza. Detto altrimenti, mentre si gioca entro le regole si conduce pure una schermaglia con le regole, od anche ci si prende gioco delle regole stesse, ma l’esito di tutto ciò dipende anche dallo stare dell’altro al gioco, cioè dal suo comportamento, dalla sua reazione alle sfide che deve affrontare.

Il gioco e lo sport si muovono in effetti fra innovazione continua e contrapposizione costante, per cui se appare necessaria la regola è presumibile che il giocatore tenda ad una sua eccentricità rispetto alla regola di riferimento. Da tali dinamiche derivano i capovolgimenti di fronte nelle gare, le oscillazioni comportamentali degli atleti, la loro resa incostante. Gran parte del gioco di confronto scaturisce dalle prefigurazioni delle mosse altrui, in una gara di pallacanestro o in una corsa ciclistica, in cui la combinazione di vari fattori produce di continuo situazioni inusitate. L’apparenza di una certa leggerezza non può ingannare: dentro si cela un agonismo di fondo, attento a cogliere l’attimo propizio per infliggere la stoccata vincente, l’affondo conclusivo, la verticalizzazione efficace della giocata.

Identità ed imitazione

In generale non vi è soluzione di continuità fra il singolo e la sua comunità, fra l’atleta ed il suo gruppo sportivo.

La tendenza all’imitazione poi esercita altri effetti di varia natura: emulazione, ma anche fedeltà a tutti i costi. Quando un arbitro o un giudice interviene per sanzionare un membro della squadra, l’insorgere degli altri è quasi scontato, dovuto, accentuato. Ci si sente lesi, come se la reprimenda riguardasse se stessi. L’intento dunque non è solo quello di preservare il proprio compagno da decisioni sfavorevoli, ma pure di non creare difficoltà a tutto il gruppo, facendo venire meno una collaborazione apprezzata comunque come importante.

Persino nel caso di doping [Brissonneau, Aubel, Ohl 2008] occorre tenere presente l’impatto del fattore d’imitazione, per cui se un leader, una persona solitamente piuttosto ascoltata e seguita, decide di tenere un comportamento deviante, non legittimo, che gli altri lo seguano è più una costante che un’eccezione. Ecco perché la rete di legami più o meno identitari è da ritenere essenzialmente come una variabile indipendente, che condiziona atteggiamenti e comportamenti di più soggetti, a partire da un capo più o meno carismatico, più o meno simbolo rappresentativo di un’intera squadra.

Il corpo e le sue modifiche

Fino ad un recente passato si riteneva che potessero praticare uno sport solo corpi adatti, escludendo dunque i fisici imperfetti perché troppo magri o troppo grassi od anche perché menomati. Oggi, a diversi livelli, un corpo considerato “diverso” dalla norma è in grado di affrontare quasi ogni genere di attività sportiva, magari con il ricorso a qualche supporto appositamente studiato e considerato legittimo per una competizione fra soggetti con le medesime difficoltà di movimento, o persino alla pari – senza necessità di ulteriori interventi – con sportivi-atleti cosiddetti normo-dotati.

L’esperienza delle paraolimpiadi segna certamente una nuova frontiera rispetto al passato, ma un tale evento rimane ancora marginale (ed emarginato) rispetto alle stesse olimpiadi. Eppure le risultanze sportive, agonistiche, competitive, sono alla fine dei conti della stessa qualità, dello stesso valore. Anzi, a ben considerare le condizioni di partenza, si potrebbe pure dire che soprattutto in alcuni casi la performance realizzata è di gran lunga superiore, tecnicamente e sportivamente, rispetto a quella degli atleti ritenuti “regolari”.

Il problema reale è piuttosto di carattere culturale, per la mancanza di abitudine complessiva nei riguardi dei portatori di handicap, dei diversamente abili, dei soggetti in difficoltà per qualche ragione (sia fisica che psichica). Anzi, invero, non è nemmeno corretto parlare di carenza, menomazione, in quanto si tratta più semplicemente di un profilo diverso, di una forma diversa, di un aspetto certamente diverso ma non per questo incomparabile. Detto altrimenti, se non fa problema il colore degli occhi o dei capelli o della pelle (ma non sempre è così perché forme di razzismo [Barba 2007: 81-105] si affacciano talora anche nello sport), lo stesso potrebbe avvenire, in un contesto culturale altrimenti predisposto, nei confronti di soggetti che presentino altre modalità, altre caratteristiche di natura corporea. Forse l’occasione più propizia e più ricorrente per abbattere talune barriere sia fisiche che culturali è data proprio da specifiche manifestazioni sportive aperte a tutti, come le maratone o minimaratone cittadine, dove nel novero dei concorrenti trova spazio chiunque, in qualunque modo, mediante una sorta di cittadinanza sportiva a tutto spiano, che diventa così utopia realizzata, perché ognuno ha la possibilità di esprimersi per quello che è, senza necessità di distinzioni previe (fatti salvi alcuni accorgimenti elementari, a salvaguardia degli stessi partecipanti).

Un corpo per così dire modificato non è inadatto a fare sport. Ogni pregiudizio in merito è stato più volte sfatato. Ma ancora si registrano resistenze, dovute – si dice – a ragioni di immagine. Ma in realtà non sarebbe forse altrettanto “vincente” e “di immagine” mostrare chiaramente e visibilmente le potenzialità che tutti hanno di vivere lo sport, di esprimersi con i corpi che hanno, di confrontarsi insieme con tutti gli altri, di cimentarsi mettendo alla prova se stessi?

Un altro discorso è poi quello di corpi modificati ad hoc, per raggiungere prestazioni fuori dell’ordinario. Qui però sorgono altre questioni, specialmente di natura etica e comportamentale. Entro quali limiti è opportuno ed accettabile procedere ad interventi modificativi del proprio soma, magari in maniera irreversibile, pur di raggiungere un traguardo, un risultato? Un conto è rafforzare un muscolo, un altro conto è “gonfiarlo” con sostanze non sempre innocue. Un conto è seguire diete calibrate, un altro conto è cambiare i propri connotati fisici (e non solo) in vista di un risultato sportivo. Anche su un piano puramente estetico un corpo “bonzaizzato”, costretto, legato, impedito, assoggettato, diviene di fatto qualcosa di altro da sé, dalla persona che lo incarna e che ne è titolare. Insomma il corpo-persona è un tutt’uno, per cui scindere il primo dalla seconda è in effetti una separazione, simile a quella che avviene tra sangue ed arterie, nonché foriera di esiti non sempre auspicabili. Anche in tal caso dunque può valere la regola del giusto mezzo, dell’equilibrio, delle giuste dosi, onde evitare scivolamenti inarrestabili e conseguenze anche letali. La pratica di alcuni sports cosiddetti estremi, per esempio, si connota di caratteristiche che rischiano di annullare l’identità tipica del soggetto.

Il genere del corpo

Un’identità particolarmente significativa è quella di genere [Armour, Kirk 2008: 269-270; Kay, Jeans 2008: 146-148]. Orbene la divisione fra sport al maschile e al femminile è ormai consolidata e difficilmente potrà essere abolita. Ma intanto alcune riflessioni possono essere proposte. È vero che le prestazioni maschili, misurabili e comparabili, manifestano una netta propensione degli uomini a raggiungere esiti migliori. Tuttavia è anche vero che taluni risultati ottenuti da donne sono superiori a quelli fatti registrare da tanti altri soggetti di genere maschile. Il che vuol dire che non sempre e comunque sia il maschio ad eccellere rispetto alla donna. A ciò va aggiunto il fattore, non secondario e di matrice culturale, che vede una più larga e consolidata (da più tempo [Mewett 2003: 331-332]) partecipazione maschile alla pratica sportiva, invece non favorita e talora anche proibita – per ragioni diverse (anche religiose) – nel caso della partecipazione femminile.

Più larga dunque è la base, più è probabile che emergano soggetti in grado di fornire prestazioni di più alto livello. Non si tratta di negare le peculiarità che certamente rendono più agevole il compito degli uomini, ma c’è da chiedersi se a lungo andare e con un eventuale mutamento di rotta in ambito culturale non sia dato verificare un trend innovativo rispetto al passato.

Del resto, è ben noto che gli intervalli di misura (tempo, altezza, lunghezza, forza, peso, ecc.) si sono ridotti nel corso degli anni, facendo sì che il divario fra records maschili e femminili sia sempre meno consistente. Se peraltro si passa ad analizzare la situazione negli sports di squadra il confronto non tiene più. Probabilmente una squadra maschile di pallavolo avrà tendenzialmente la meglio su quella femminile eventualmente contrapposta. Ma non tutte le squadre maschili di pallavolo sono destinate eo ipso a prevalere su quelle femminili. In termini sperimentali sarebbe interessante verificare a lungo andare che tipo di andamento del gioco si potrebbe registrare nel caso di squadre miste, composte per metà di uomini e per metà di donne, od anche – in forma meno vincolante – con uomini e donne in gioco di volta in volta, secondo le necessità tattiche o le doti caratteristiche di ogni atleta. Qualcosa di simile intanto è già avvenuto, almeno a livello di dirigenti e/o di personale tecnico: non mancano donne che dirigono o allenano squadre maschili (il contrario è da lungo tempo una prassi più che consolidata). Anche in campo arbitrale o tra i giudici di gara la differenza di genere non è più marcata e separatista, come in precedenza. Dunque la strada è aperta e probabilmente il futuro riserva importanti novità.

Lo stadio e la sede sociale come fattori d’identità

Sul piano dei fattori identitari sta prendendo piede sempre più una propensione, da parte dei clubs con maggiori risorse economiche, a disporre in proprio – appunto come proprietari – della struttura in cui si svolgono le gare di casa, nel corso del campionato. Parlare di casa significa in concreto riferirsi a qualcosa cui si tiene in massimo grado, come alla propria famiglia di appartenenza. Ecco perché le società aspirano a costruire od acquisire stadi [Houlihan 2008: 40-46], palestre, ginnasi, i luoghi cioè della loro pratica sportiva quotidiana, che poi settimanalmente assume un carattere ufficiale, attraverso l’incontro non solo con una squadra avversaria, ma in primo luogo con il proprio pubblico, con il quale si rinnova un patto di alleanza, una solidarietà solitamente a prova di ogni sconfitta sportiva, un’intesa a lunga gittata, destinata a divenire pure una forma di socializzazione intra-familiare, che perpetua nel tempo una fidelizzazione intergenerazionale, difficilmente scalfibile in quanto iniziata e consolidata in un periodo decisivo e di fatto fortemente condizionante rispetto al resto dell’esperienza esistenziale di ciascun individuo.

Di conseguenza disporre del proprio stadio come della propria casa è un fattore che indubbiamente fa da supporto ad una scelta che il tifoso-sportivo ha compiuto ad un certo punto della sua vita, forse a seguito dell’input di un familiare di riferimento, particolarmente influente. Ed  allora andare allo stadio è come andare o tornare a casa. Ed andarci con uno o più membri della famiglia diventa motivo di coesione e di legame, che consolida l’appartenenza sia sportiva che familiare.

In questo contesto non è da trascurare neppure la stessa sede ufficiale di un team, quasi sacralizzata (a Roma, fino a non molti anni fa, l’edificio in cui era la sede della locale squadra di calcio, l’Associazione Sportiva Roma, era indicato – con una certa dose di ambiguità mista ad ironia – come la Santa Sede). Dunque la stessa sede sociale di una compagine sportiva diviene oggetto di interesse e di attaccamento, perché è lì che la squadra si incontra nei momenti liberi dagli allenamenti e dalle gare ed è lì che si familiarizza ampiamente tra atleti e tifosi, in una sorta di crogiuolo intersoggettivo che, pur lasciando distinti i ruoli, consente una dimestichezza non sperimentabile altrove. Anzi la familiarità raggiunge punte tanto elevate da consentire pure ad atleti e simpatizzanti di una squadra di cimentarsi in confronti diretti, magari parasportivi o sportivi tout court, come nel caso di una partita a biliardo o di un gioco-sport da tavolo.

Tale vicinanza a faccia a faccia migliora la conoscenza reciproca e pone le basi di una complicità quasi scontata, nell’interesse comune della squadra cui si appartiene e con la quale ci si identifica.

Sponsor e identità

Fa leva esattamente sul medesimo tipo di legame la stessa sponsorizzazione a carattere pubblicitario che investe l’immagine pubblica di un atleta, per un investimento sulla forza trainante e sul richiamo del suo volto, della sua bravura sportiva, del suo carattere di personaggio pubblico. Ciò comporta un’alta responsabilità per il protagonista sportivo di una tale operazione di evidente commercializzazione di un’affidabilità, di un credito, che si trasferisce dall’ambito meramente agonistico a quello dei beni di consumo o comunque delle spese da effettuare. Molta parte dell’efficacia del messaggio pubblicitario dipende dalla tenuta del singolo atleta di riferimento. Ogni sua frase, ogni suo comportamento, più o meno corretto, può influire decisamente sulla vendita di un oggetto, sulla credibilità di un’azienda, sulla “verità” di un comunicato commerciale. La scelta di un campione “sbagliato”, che non conferma la sua statura di sportivo a tutto tondo, bravo e leale, può avere conseguenze non sempre prevedibili anche in chiave di danno economico per un’impresa, per la distribuzione di un prodotto, per la potenzialità attrattiva di un marchio, sovente mostrato dagli atleti sulle loro maglie, a chiara testimonianza di un legame con uno sponsor palese e riproposto più volte sul campo di gara, nelle immagini televisive, nelle foto di un quotidiano o di una rivista: ritraendo un momento di esultanza per un gol o una meta o un canestro o un punto od anche una situazione più drammatica come nel corso di un’ammonizione o di un’espulsione. In ogni caso il nome dello sponsor è strettamente connesso a quello dello sportivo-atleta, il quale indossa un indumento che oltre il nome del giocatore mette in evidenza quello dello sponsor, attraverso il logo che lo rappresenta. Anche in questo frangente la simbiosi è assoluta: l’atleta non è più solo se stesso ma rappresenta la squadra, un marchio, i suoi fans, la città del suo team, i valori insiti nella storia sportiva del suo club. Nel bene e nel male, dunque, l’identità di un atleta va ben oltre la sua persona.

Conclusione

            Sulla scorta di quanto detto sinora appare evidente che la corrente dell’interazionismo simbolico, di marca blumeriana [Blumer 1969], rappresenti tuttora una delle soluzioni teorico-metodologiche più efficaci nel campo della sociologia dello sport, largamente costellata di simboli, significati, messaggi, relazioni interpersonali, che si estrinsecano negli atti che gli attori sociali compiono, dando loro un senso, creando rapporti interattivi ed interpretando e modificando i propri e gli altrui gesti, tipicamente espressi attraverso la fisicità del corpo, la manualità ed il linguaggio nelle sue diverse forme. Ed in effetti nell’interazionismo simbolico hanno rilevanza la processualità (che presuppone un’attività continua), l’emergenza (che si riferisce all’insorgenza di eventi diversi ed imprevedibili), l’agency (ovvero la capacità umana di agire in forma consapevole, costruttiva, trasformativa ed orientata alla gestione del sé e del proprio contesto circostante), l’esistenza di condizioni già date (cui adattarsi per reagirvi od anche cambiarle), la dialettica (che va ben oltre la classica distinzione fra corpo e mente, ragione ed emozione). Dunque processualità, emergenza, agency, condizionalità costruita e dialettica sono i cinque elementi caratteristici dell’interazionismo simbolico, che appaiono particolarmente utili nello studio sociologico dello sport perché corrispondono in pieno a gran parte di quanto ha rilevanza in ogni tipo di attività sportiva.

            Sul piano metodologico, inoltre, gli sviluppi più recenti hanno offerto nuovi strumenti specialmente a livello di analisi qualitativa, secondo le varianti della cosiddetta etnografia, delle interviste in profondità, della raccolta di storie di vita. Ormai non si ricorre quasi più ad esperimenti in laboratorio ma si considera la stessa scena della realtà sociale un laboratorio di prim’ordine senza condizionamenti di natura tecnico-investigativa. Anche l’approccio della sociologia visuale sta compiendo progressi rilevanti. Infine per l’analisi di documenti sia testuali sia iconici sono disponibili programmi informatici sempre più perfezionati. Fra questi va segnalato in modo precipuo l’ultima versione di un software già di largo successo ed ora implementabile pure per l’analisi delle immagini: si tratta di NVivo 8, da poco reso disponibile come prodotto di QSR International ed orientato a sviluppare l’approccio della Grounded Theory di Glaser e Strauss [1967], che com’è noto evita di postulare ipotesi di lavoro e mira a costruire la teoria a partire dai dati empirici, attraverso un’indagine dapprima aperta, poi assiale (basata sulle correlazioni) ed infine selettiva. Ma invero è la triangolazione fra approcci quantitativi e qualitativi che è destinata a garantire esiti più soddisfacenti di quelli tradizionali (per qualche esempio di questi ultimi si vedano i saggi di Brenda Farnell [2004: 30-55] e di Pauline Turner Strong [2004: 79-87] sull’uso razziale delle mascots sportive).

            Peraltro cercando di immaginare quali possano essere gli sviluppi futuri della sociologia dello sport Peter Donnelly [2008: 27] parla in primo luogo proprio di: “the globalisation of sport, including its relationship to local and regional sport practices, and to issues of identity”. Dunque il tema dell’identità sembrerebbe essere strategico per gli anni a venire, con l’avanzare dei processi di globalizzazione e con i tentativi di resistenza a livello locale.     

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