“La preghiera. Dalle origini alla realtà contemporanea”, Idee, V, 10, 2015, pp. 137-50

Roberto Cipriani


LA PREGHIERA


Dalle origini alla realtà contemporanea


Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


ABSTRACT


Primeval ritual prayer was codified and handed down socially to become a deep-rooted feature of people’s cultural behaviour, so much so, that it may surface again several years later, in the face of death, danger, need, even in the case of relapse from faith and religious practice. Modes of prayer depend on religious experience, on relations between personal prayer and social action, between prayer and forgiveness, and between prayer and approaches to religions. Various forms of prayer exist, from the covert-hidden to the overt-manifest kind.


Premessa


Le origini della preghiera sono ancora oggetto di studio soprattutto da parte di storici, antropologi e sociologi. Qualche fondamento ha la tesi di Ernesto de Martino secondo il quale “nelle civiltà primitive e nel mondo antico una parte considerevole della coerenza tecnica dell’uomo non è impiegata nel dominio tecnico della natura (dove del resto trova di fatto applicazioni ancora limitate), ma nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo. Ora l’esigenza di questa protezione tecnica costituisce l’origine della vita religiosa come ordine mitico-rituale”[1]. I rischi per gli esseri umani del mondo antico erano ben individuati: animali feroci, territori ignoti, mancanza di acqua e cibo, fenomeni atmosferici, moria di bestiame, malattie. Oggi si è più attrezzati contro tali situazioni di pericolo ma rimane il rischio della morte propria o di un familiare. Una minaccia simile è comune a tutte le generazioni ed a tutte le popolazioni. C’è dunque una linea diacronica che attraversa i millenni e che nel mondo antico portava fra l’altro a manifestazioni come il lamento funebre[2].


Le radici antiche della preghiera


Per de Martino[3] il sacro è da intendersi come “tecnica mitico-rituale che protegge la presenza dal rischio di non esserci nella storia”. E del resto appunto il pianto rituale antico ha vari punti di contatto con la preghiera: può essere individuale ma anche collettivo, può avere una o più guide che si alternano, è accompagnato da gesti rituali, ha un suo ordine procedurale, ha forme responsoriali, prevede pure una partecipazione corale, segue un andamento periodico più o meno fisso, ha degli specialisti nell’esecuzione, può essere recitato e/o cantato, comporta talora il battersi il petto, prevede iterazioni di un medesimo passaggio, fa uso di ritornelli, può avere anche andamenti molto liberi oppure recitazioni alternate fra gruppi di persone, presenta un carattere che è insieme narrativo-valutativo-interpretativo, ha di solito una conclusione ritualmente risolutiva attraverso un gesto vistoso come lo strapparsi le vesti o il graffiarsi od il percuotersi (una sorta di amen conclusivo che in verità significa “poggiarsi su”, dunque “avere fiducia”, insomma credere che qualcosa sia in un certo modo, il che mal si concilia con atti di disperazione e di autopunizione, a meno che non si voglia in tal maniera esprimere una certa rassegnazione, insomma un arrendersi alla volontà superiore, riconoscendo implicitamente e congiuntamente l’inanità del proprio agire e la potenza divina: “così è perché così Tu vuoi”).


Il tema della morte resta comunque la chiave di volta che mette sullo stesso piano il pianto funebre e la preghiera: si tratta, in forma più o meno conscia, di dare una risposta a degli interrogativi laceranti: perché si interrompe la vita? Chi ne è il vero padrone? Perché il termine dell’esistenza tocca a taluni e non ad altri? Come affrontare il rischio letale? Oppure come renderlo, luhmannianamente[4], più sopportabile grazie alla mediazione religiosa? Ed in fondo non sono il lamento sul defunto e la preghiera in favore dell’estinto dettati entrambi da motivi di compensazione di uno squilibrio che si è venuto a creare in un corpo sociale per la dipartita di un suo membro? Lamento e preghiera sono anche forme di elaborazione del lutto o se si vuole del senso da dare sia alla vita che alla morte.


Invece del ricorso al suicidio dei sopravvissuti c’è il rimedio del rito (pianto od orazione che sia). Dunque “senza dubbio la misura rituale atta a risolvere l’impulso suicida in equivalenti attenuati e simbolici è da intendersi come misura drammatica, da instaurare di volta in volta nella vicenda concreta delle singole lamentazioni […] Del resto la mimica del planctus ritualizzato appare nel lamento antico orientata verso una progressiva attenuazione simbolica rispetto all’effettivo atto suicida della crisi in atto: dall’incidersi le carni secondo una certa misura si passa a forme di annientamento allusivo meno impegnative, come il percuotersi, lo strapparsi i capelli o la barba, l’imbrattarsi di polvere come se si fosse inumati, il cospargersi il capo di cenere come se si fosse cremati; il lasciarsi cadere per terra come se si fosse folgorati da morte, ed altri atti di avvilimento e di abiezione che raffigurano in forme relativamente più blande e attenuate il come se della volontà di morire”[5]. A questo punto si può pure ipotizzare che la stessa preghiera per un defunto sia una forma di attenuazione del cupio dissolvi, del desiderio di con-morire con la persona cara scomparsa. Ma in senso traslato anche la preghiera in generale, sebbene non dedicata ad un morto, ha tuttavia in sé un sottinteso latente che rimanda al momento ultimo dell’esistenza umana: si prega per ringraziare di uno scampato pericolo, si prega per superare un momento di forte rischio per la sopravvivenza, si prega con l’intenzione di una captatio benevolentiae cioè per ottenere un’attenzione speciale da parte dell’essere supremo, si prega per poter proseguire nel proprio itinerario esistenziale, si prega per lodare la divinità e la sua benevolenza, si prega per ottenere e vivere situazioni non conflittuali e dunque non foriere di rischi.


Un indicatore peculiare di quanto sostenuto sinora è fornito dall’uso, tuttora in corso, della benedizione dei campi. In effetti è dal buon andamento del raccolto che dipende il rimanere in vita dei singoli e di intere comunità. Nella benedizione delle terre si vuole scacciare la possibilità di una siccità, o di una rovina delle piantagioni e dei frutti. Poiché molto sembra aleatorio e non dipendente dalla volontà umana si invoca la protezione divina al fine di evitare il pericolo di morte. E l’atto precauzionale e preventivo della benedizione non è disgiunto da quello successivo dell’atto di ringraziamento (ormai formalizzato negli USA con la festa nazionale del Thanksgiving). L’uno e l’altro rimandano al referente principale che non è terreno ma divino ma soprattutto non escludono il rinvio ad istanze legate al rapporto fra vita e morte, fra abbondanza e carenza, fra protezione e pericolo, fra semina e raccolto, tra frutti della terra e frutti soprannaturali.  


Il legame della preghiera prevalentemente con situazioni difficili è comprovato a livello biblico dalle cosiddette Lamentazioni genericamente attribuite a Geremia (650-586 avanti Cristo) ma in realtà risalenti ad una comunità della Giudea che ricordava la distruzione di Gerusalemme nel 586 avanti Cristo. I cinque poemi delle Lamentazioni hanno un andamento affine al genere del rimpianto, del lamento funebre si direbbe per la fine della città santa di Gerusalemme. La loro recita è sia individuale che collettiva: si parla della città distrutta ma si invoca pure il Signore che è “giusto” (versetto 18) e vede “quanto grande è l’angoscia” (20). Così il lamento una volta di più diventa preghiera, richiesta di aiuto, perorazione (dal verbo per-orare), come si legge nei versetti finali della quinta ed ultima Lamentazione: “facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo, rinnova i nostri giorni come in antico! Poiché non ci rigetti definitivamente né sei sdegnato oltre misura contro di noi”.


Continuità e contiguità delle forme di preghiera


Come reperire i legami che uniscono le fenomenologie attuali a quelle più antiche? Lévi-Strauss[6], com’è noto, ha cercato tali connessioni studiando popolazioni non ancora toccate dai processi di modernizzazione. Nel nostro caso, con riferimento all’area euro-mediterranea del pianto funebre greco e romano, ci si può rifare alla cultura sarda delle attittadoras[7], le lamentatrici tuttora operanti in occasioni di eventi funebri e che presentano caratteri abbastanza affini a quelli delle lamentatrici sia egiziane, greche e rumene che lucane, calabresi e campane (queste ultime con la variante dei ritornelli asseverativi che in forma corale confermano quanto la lamentatrice principale va dicendo del defunto o con quella del riepito battuto cioè del lamento accompagnato dall’azione del percuotersi)[8]. Non dissimile è la lamentazione documentata da Koppers[9] presso la popolazione Yamana e ripresa da de Martino[10].


Nella tradizione culturale sarda si incontrano le historiolae, già oggetto di studio da parte di de Martino[11] in Sud e magia. Si tratta di exempla, di esempi in forma di racconto che giustificano e rafforzano taluni comportamenti, ivi compreso il ricorso alla preghiera come soluzione efficace a fronte di situazioni problematiche.


Modalità abbastanza vicine alle preghieras sarde si rinvengono in altri territori italiani, per esempio in Lucania[12], con riferimento a Dio, alla Madonna ed ai santi, fra cui in particolare san Nicola[13].


Esiste poi una forma piuttosto singolare di preghiera, quella indossata-nascosta e quella esposta-manifesta. La prima è contenuta in qualche teca o medaglietta ed è celata alla vista altrui perché portata sotto un abito, la seconda è affissa ad una porta o ad una finestra della casa, oppure su un mezzo di trasporto, con funzione protettiva rispetto ad un male che può giungere dall’esterno.


La religione diffusa della preghiera


La pratica della preghiera, che secondo Marcel Mauss[14] – com’è noto – è insieme credenza e rito e dunque l’essenza della religione per Durkheim[15], è certamente l’azione più ricorrente e diffusa a livello di religioni universali, nell’espressione di Max Weber[16]. Le stesse ricerche empiriche, in misura costante e senza soluzione di continuità cronologica e territoriale, dimostrano che in effetti le preghiere sono il filo rosso conduttore di molti comportamenti religiosi[17] orientati verso se stessi e verso gli altri[18].


Non ultima, una vasta indagine condotta da Poloma e Gallup[19] ha mostrato come la preghiera sia importante nella vita degli statunitensi. L’inchiesta ha coinvolto 1030 soggetti ed ha chiaramente mostrato che l’uso della preghiera rappresenta una sorta di sfida alle chiese ed ha influenze decisive sulla vita politica, morale e sociale, specialmente in relazione alla capacità di perdonare ed alla soddisfazione per la vita.


Poloma e Gallup hanno operato segnatamente sulla tipologia, sull’esperienza religiosa, sul rapporto fra preghiera personale ed attivismo politico, fra preghiera e perdono, fra preghiera ed approccio religioso. Il dato più significativo emerso è che l’88% degli intervistati prega e che non si tratta essenzialmente di vecchi, neri, meridionali e donne poco istruite. Una riduzione minima, rispetto alla media generale, si ha per i più giovani: si va intorno all’80%.


I tipi di preghiera individuati sono quattro, nell’ordine (dal meno partecipativo al più partecipativo): “ritual”, “petitionary”, “meditative”, “conversational”. Dunque si prega attraverso una cerimonia, una richiesta, una meditazione, una conversazione. Ma è la preghiera-meditazione a manifestare un più diretto rapporto con la divinità. Anche le esperienze che derivano dalla tipologia sono diversificate, in cinque categorie, fra le quali prevale la sensazione di pace e benessere. Poloma e Gallup approfondiscono, fra l’altro, lo studio del rapporto fra preghiera e politica.


Un’ulteriore indagine, la Baylor Religion Survey, realizzata nel 2005 su 1721 casi, sempre negli Stati Uniti, mette in evidenza che le donne, gli afro-americani ed i soggetti a basso reddito pregano di più che non gli uomini, i bianchi ed i soggetti con alto reddito. La preghiera di richiesta (“petitionary”) è preferita da afro-americani e soggetti con basso livello di reddito ed educazione. Inoltre i soggetti con reddito inferiore orientano il loro pregare verso fini più direttamente spirituali, onde ottenere i favori divini[20].


Secondo i dati raccolti attraverso il “2004 General Social Survey” una percentuale dell’89,8% degli statunitensi prega almeno qualche volta[21]. E tre quarti della medesima popolazione prega almeno una volta ogni giorno; inoltre, fra quanti pregano, il 97% ritiene che le preghiere siano ascoltate ed il 95% che trovino una risposta[22].


Stando ad un’indagine di vari anni fa, la preghiera non sarebbe collegata con l’ansia per la morte[23] (Koenig 1988), ma c’è da chiedersi in che misura il campione utilizzato fornisca dati generalizzabili anche in altri contesti e se la modalità dello studio condotto abbia approfondito abbastanza la conoscenza delle dinamiche relazionali fra preghiera e timore di morire.


Altre motivazioni sull’uso della preghiera come soluzione che rende più accettabile una condizione di per sé difficile sono fornite a più riprese dai risultati di diverse inchieste. Lo stesso dicasi per la richiesta di un favore divino nei propri confronti, magari in connessione con l’ammissione delle proprie colpe, dei propri peccati.


Secondo Baker[24] è ben più interessante ed utile guardare al contenuto della preghiera (e non tanto alla sua frequenza): per la sicurezza finanziaria, per la salute, per la confessione ed il perdono dei peccati, per la relazione spirituale con Dio. Fra quanti pregano, in base a quanto risulta dal “2005 Baylor Religion Survey”, l’89,4% prega per la famiglia, il 75,3% per un conoscente, il 66,2% per una relazione con Dio, il 62.2% per quanto concerne il mondo, il 61.2% per la confessione dei peccati, il 57,1% per la salute, il 49,4% per una forma di adorazione (dal verbo ad-orare), il 46,8% per chi non si conosce e il 33% per la sicurezza finanziaria. Intanto questi soli dati sommari spiegano che al calo delle confessioni sacramentali non corrisponde un venir meno della consapevolezza delle colpe commesse. E comunque tutto l’insieme ha una configurazione che sembra prescindere dall’appartenenza di chiesa, anche se a completamento del discorso va precisato che la sensibilizzazione all’azione del pregare deriva presuntivamente dai contenuti della socializzazione religiosa avvenuta in ambito ecclesiale e nella comunità familiare e sociale, in cui la preghiera è divenuta una sorta di impronta permanente.


Infine va considerato che l’analisi di Baker non concerne la preghiera rituale, né quella di gruppo e neppure quella dei servizi liturgici. In altri termini la preghiera personale ed estemporanea è così ricorrente da divenire abbastanza dominante rispetto alle forme più standardizzate e gestite istituzionalmente. Un altro punto importante riguarda la limitazione delle interpretazioni fornite da Baker al solo quadro cristiano d’insieme, trascurando pertanto le modalità proprie di altre forme religiose.


Dello studio di Baker, dopo numerose analisi statistico-quantitative sulla funzione della preghiera, va sottolineato il passaggio finale: “qualitative data on prayer content would also be an important advancement to the current understanding of prayer. Content analysis of individual prayer, assessing why people choose to pray about specific topics, and gathering extensive information about prayer habits are but a small glimpse into the issue that could be covered by qualitative research. When dealing with a topic as intensely personal and varied as prayer, certainly this approach deserves exploration”[25]. Anche un’esplorazione filosofica approfondita come quella di D. Z. Phillips[26] può aprire strade nuove per intendere la preghiera come conversazione, come dialogo con qualcuno che non comprende, come dipendenza, come superstizione, come voce divina, come fatto comunitario.


Verso una sociologia della preghiera


Le diverse maniere di pregare offrono il destro al sociologo per un’analisi non consueta, basata su indicatori minimi, su dettagli ridottissimi. Come indagare, per esempio, l’orazione mentale? A quali segnali porre attenzione per individuarla? Certamente è lo stesso attore sociale che ne possiede la conoscenza diretta. Lui e solo lui può renderla accessibile agli altri, comunicandone motivi e contenuti.


Vi sono però ben altri modi di pregare con i cinque sensi, che in forma straordinariamente ricca e documentata cinque teologhe spagnole, di cui due suore cattoliche, aiutano ad indagare, ponendo attenzione ad una dimensione corporea dell’orazione altrimenti trascurata nell’approccio scientifico-conoscitivo abituale[27] l’assunto di base è che “‘senso’ significa strada. L’essere umano ha cinque sensi, cinque accessi o strade verso la realtà. Strade verso l’esterno, verso il mondo e verso l’altro, e strade verso l’interno, partendo dall’essere umano e dalla realtà. La diversità di queste strade non è indifferente di fronte alla realtà percepita. Anche se nella vita spirituale tutto risiede nell’intelletto, la tipicità dei sensi nella configurazione del mondo spirituale è importante”.


Si apre altresì la strada verso una sociologia più avvertita della preghiera, cui contribuisce con grande cura ed ampie prospettive Michele Colafato[28], che attraverso vari specialisti aiuta a scoprire e capire l’esperienza dell’orazione nel cristianesimo ortodosso, la prospettiva individuale e collettiva della salat cioè della preghiera islamica, la preghiera cattolica, quella buddista in particolare nel Sūtra del Loto e quella ebraica (in cui riemerge la questione dei sensi: “il gusto: ogni volta che gustiamo qualcosa, abbiamo l’obbligo di dire una benedizione”, “l’olfatto: esistono benedizioni particolari per le erbe aromatiche come salvia e rosmarino”, “l’udito: l’ascolto di una qualsiasi notizia, brutta o buona che sia, necessita di una benedizione”, “la vista: nel momento in cui incontriamo un re, un contadino, o vediamo il mare, degli alberi in fiore… dobbiamo pronunciare una specifica benedizione”, “il tatto: lo strumento attraverso cui il corpo entra in contatto e percepisce ciò che lo circonda. Particolarmente rilevante nella religione ebraica è il precetto che riguarda la donna: di immergersi completamente in un bagno purificatore, nel quale percepisca fortemente il contatto del corpo con l’acqua”)[29].


Quest’apertura amplia pure il campo di una sociologia della religione che diviene sociologia della spiritualità[30]. Non è un caso che alcune ricerche mostrino come ci sia una preferenza da parte degli intervistati nel definirsi soggetti spirituali piuttosto che religiosi. Kirsi Tirri in proposito richiama il contributo fondamentale di William James[31] sulla varietà delle esperienze religiose e scrive che “today some writers use the terms ‘religion’ and ‘spirituality’ interchangeable to add linguistic variety to their terminology. However, many researchers define spirituality in contrast to religion. In these definitions, religion is usually defined as organisational, the ritual, and the ideological. The spiritual then refers to the personal, the affective, the experiential, and the thoughtful. The reminder that an individual can be spiritual without being religious or religious without being spiritual, has become a standard part of many papers on spirituality. It seems clear that spirituality must be seen as a wider concept than religion. This kind of understanding about these concepts indicates that religion and spirituality share some common areas but they also have their own areas of interests”[32].


Tirri però colloca la preghiera fra i rituali religiosi[33]. Si potrebbe invece sostenere che essa sia non solo il punto di giunzione fra religiosità e spiritualità ma anche lo strumento attraverso cui le religioni storiche universali riescono a mantenere una funzione socializzatrice nella trasmissione di contenuti e forme culturali e cultuali da una generazione ad un’altra, secondo la prospettiva della teoria della religione diffusa che fa perno appunto sulla socializzazione primaria e secondaria attraverso le famiglie e le organizzazioni religiose.


Ancora una volta rifacendosi ad un classico, questa volta contemporaneo[34], Tirri[35] insiste sul carattere sociale della spiritualità, che si aggiunge come quarto a quelli proposti da Hay[36] concernenti la consapevolezza di prestare attenzione a ciò che avviene, la capacità di trascendere l’esperienza quotidiana attraverso il riferimento al mistero e la rilevanza dei sentimenti come misura di ciò che si apprezza in termini di valori.


Tra i giovani finlandesi il 69% si considera orientato spiritualmente ed il 45% religiosamente (e dunque vi sono anche coloro che si percepiscono sia come religiosi che come spirituali). Anche fra quanti si considerano appartenenti ad una chiesa prevale la dimensione della spiritualità (64%) rispetto alla religiosità (46%). Tra i giovani adulti l’8% si definisce religioso non spirituale, il 34% spirituale non religioso, il 21% non spirituale e non religioso[37].


Infine appaiono di particolare interesse i risultati di un’indagine su 500 giovani adulti di un’area di Helsinki, in qualche modo rappresentativi dei giovani adulti urbani finlandesi. Nell’inchiesta è stata usata una scala di Likert da 1 (completamente in disaccordo) a 5 (completamente d’accordo). Nella scala di sensibilità spirituale ottengono i maggiori consensi, nell’ordine, le seguenti espressioni: 1) I admire the beauty of nature, for example, the sunset; 2) I rejoice in the beauty of life; 3) I want to advance peace with my own actions; 4) there are many things in life to wonder; 5) I am searching for goodness in life, 6) I want to help those people who are in the need; 7) in midst of busy everyday life I find it important to contemplate, 8) I reflect on the meaning of life; 9) I try to listen to my body when I study and work, 10) narratives and symbols are important things for me in life; 11) I want to find a community where I can grow spiritually; 12) it is important to me to share a quiet moment with others[38]. La maggior parte di queste esperienze hanno a che fare con quanto si percepisce al momento della preghiera e quindi possono rientrare appieno nel novero delle caratteristiche del pregare. Ma ci sono altri aspetti intriganti nei risultati dell’inchiesta finnica: la sensibilità spirituale è importante anche per chi non è religioso; gli appartenenti ad una chiesa sono più orientati verso una spiritualità praticata in comunità; anche chi non appartiene ad una chiesa apprezza i valori mistici; lo sviluppo spirituale avviene in un processo che dura tutta una vita e può essere favorito sia all’interno che all’esterno di una chiesa. Nondimeno c’è da chiedersi se la sensibilità spirituale sia anche il frutto di una pregressa socializzazione religiosa o almeno di una contestualizzazione capace di diffondere contenuti religiosi anche fra i non appartenenti ad una confessione religiosa.


Conclusione


Il filone carsico plurimillenario che ha fatto giungere fino a noi la tradizione della preghiera ha avuto probabilmente origine in congiunzione con crisi esistenziali primordiali, con l’esperienza della morte altrui e poi con il timore ed il rischio di quella propria.


La presenza del lamento funebre volto a superare la crisi di presenza instauratasi al momento dell’esito letale ha innescato presumibilmente meccanismi di narrazione che poi sono divenuti anche di riflessione più matura sul significato della vita e quindi della morte.


A questo punto si sarebbe innestato il problema di una presenza altra rispetto a quella umana. Con tale alterità è iniziato allora un tentativo di colloquio, in forma di richiesta di sostegno, poi divenuta insieme di lode e ringraziamento, ma anche molto altro: richiesta di un intervento straordinario (la grazia del miracolo che poi comporta il rendere grazie per il favore ricevuto), invocazione, pentimento, atto pubblico, azione cerimoniale, espressione di fiducia, dialogo privato, orazione mentale, testo sacro ed altro ancora, in forme originali e diversificate secondo le varie religioni ma abbastanza convergenti nelle funzioni esercitate in ambito culturale.


La diffusione della preghiera è essenzialmente frutto dell’azione socializzatrice svolta dalle confessioni religiose con le loro strutture educative e legittimatrici, che perpetuano forme e contenuti della preghiera, lasciando spazio anche ad innovazioni che lungi dall’erodere il patrimonio esistente ne rimotivano e ne riadattano le proposte, a tutto vantaggio di una religione diffusa che si fa forte dell’apporto di intere generazioni del passato le quali hanno conservato nel tempo le testimonianze pregresse.


Non è fuor di luogo potere immaginare che anche le resistenze da parte dei giovani ad usare il capitale culturale pre-esistente risponda – alla lunga – ad un’esigenza di conservazione non garantibile dalle sole strutture operative già in atto. Del resto se anche si prescinde da formule consolidate e da soluzioni già disponibili nondimeno un afflato religioso e spirituale insieme pare mantenere in essere una “abitudine del cuore”, per dirla ancora con Rousseau e Bellah[39], dura a morire perché correlata alla morte stessa, con cui si confronta continuamente, attraverso lo schermo-copertura della figura sacra che funge da interlocutore utile, anche se ritenuto fittizio.


In che misura tutto ciò possa trovare conferma anche nel futuro non è facile stabilire a priori, ma date le sue vetuste e solide radici non avverrà all’improvviso una sua scomparsa. Se così fosse vorrebbe dire avere già risolto il problema della morte ed aver trovato il cammino verso una vita senza fine.



[1] E. de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1975, p. 37.


[2] R. Cipriani, La nenia ovvero la lamentazione funebre come strumento di comunicazione e di gestione di una crisi esistenziale massima, in R. Frasca (a cura di), La multimedialità della comunicazione educativa in Grecia e a Roma. Scenario – Percorsi, Dedalo, Bari 1996, pp. 89-92.


[3] de Martino, Morte e pianto rituale, p. 38.


[4] N. Luhmann, Funzione della religione, Morcelliana, Brescia 1991; ed. or., Funktion der Religion, Frankfurt: Suhrkamp, Frankfurt 1977.


[5] de Martino, Morte e pianto rituale, p. 205.


[6] R. Cipriani, Claude Lévi-Strauss. Una introduzione, Armando, Roma 1988a.


[7] R. Cipriani, V. Cotesta, A. De Spirito, S. Di Riso, J. Fraser, M. Mansi, , La lunga catena. Comunità e conflitto in Barbagia, Angeli, Milano 19963.


[8] de Martino, Morte e pianto rituale, pp. 360-364.


[9] W. Koppers, La religione dell’uomo primitivo, Vita e pensiero, Milano 1947; ed. or., Primitive Man and His World Picture, Sheed and Ward, London 1952, pp. 129-131.


[10] de Martino, Morte e pianto rituale, pp. 368-371.


[11] E. de Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1960.


[12] R. Cipriani, La religione quotidiana. Documenti dell’espressione popolare a Picerno, Euroma-La Goliardica, Roma 1988b, in collaborazione con G. Bianchini Caivano.


[13] R. Cipriani, Dall’agiografia ai canti narrativi. Un’indagine in Lucania su testi religiosi popolari e in particolare su san Nicola, “Parola e Storia”, 4, 2008, pp. 187-221; R. Cipriani, Dall’agiografia ai canti narrativi. Un’indagine in Lucania su testi religiosi popolari, “Nicolaus”, XXIII, 44-45, fasc. 1-2, 2012, pp. 353-384.


[14] M. Mauss, La prière, in Oeuvres, Editions de Minuit, Paris 1968, vol. I (Les fonctions sociales du sacré), pp. 357-478.


[15] É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris 1912; tr. it., Le forme elementari della vita religiosa. Il totemismo in Australia, Meltemi, Roma 2005.


[16] M. Weber, Sociologia delle religioni, UTET, Torino 1976.


[17] R. Cipriani, Diffused Religion and Prayer, “Religions”, 2, 2011, pp. 198-215.


[18] K. L. Ladd, B. Spilka, Inward, Outward, And Upward. Cognitive Aspects of Prayer, “Journal for the Scientific Study of Religion”41, 2002, pp. 475-484.


[19] M. M. Poloma, G. H. Gallup, Varieties of Prayer. A Survey Report, Trinity Press International, Philadelphia 1991.


[20] J. O. Baker, An Investigation of the Sociological Patterns of Prayer Frequency and Content, “Sociology of Religion”, 69: 2, 2008, pp. 169-185.


[21] Op. cit., p. 170.


[22] G. H. Gallup, D. M. Lindsay, Surveying the Religious Landscape. Trends in U.S, Beliefs, Morehouse Publishing, Harrisburg 1999.


[23] H. G. Koenig, Religious Behaviors and Death Anxiety in Later Life, “The Hospice Journal”, 4, 1988, pp. 3-24.


[24] Baker, An Investigation, p. 171.


[25] Op. cit. , p. 183.


[26] D. Z. Phillips, The Concept of Prayer, Routledge and Kegan Paul, London 1965.


[27] I. Gómez-Acebo, A. Fuertes Tuya, M. Zubía Guinea, M. Navarro Puerto, T. León Martin, Pregare con i sensi. L’esperienza di cinque teologhe, Paoline, Milano 2000, pp. 17-18.


[28] M. Colafato, Io che sono polvere. Preghiera e Sociologia della Preghiera, Silvio Zamorani editore, Torino 2007.


[29] Op. cit., p. 89.


[30] P. Heelas, Paul, L. Woodhead, (eds.), The Spiritual Revolution. Why Religion is Giving Way to Spirituality, Blackwell, Oxford 2005; K. Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, in H. G. Ziebertz, U. Riegel, (eds.), Europe: Secular or Post-secular?, Lit Verlag, Berlin 2008, pp. 155-166.


[31] W. James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature, Longmans, New York 1902; Signet Classic, New York 2003; tr. it., Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla natura umana, Morcelliana, Brescia 1998.


[32] Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, pp. 155-156.


[33] Op. cit., p. 166.


[34] H. Gardner, (ed.), Intelligence Reframed. Multiple Intelligences, Basic Books, New York 1999.


[35] Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, p. 157.


[36] D. Hay, (ed.), The Spirit of the Child, Fount, London 1998.


[37] T. Mikkola, K. Niemelä, J. Petterson, The Questioning Mind. Faith and Values of New Generation, Church Research Institute, Tampere 2007, pp. 112-116.


[38] Tirri, Spirituality as Expression of Post-secular Religiosity, p. 162.


[39] R. N. Bellah, R. Madsen, W. M. Sullivan, A. Swidler, S. M. Tipton, Habits of the Heart. Individualism and Commitment in American Life, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1985; tr.it., Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, Armando, Roma 1996.