“La festa delle feste. Dicembre ad Haifa”, Studi storici e religiosi, IX, 1, gennaio-aprile 2017, pp. 75-111.

Roberto Cipriani


La festa delle feste: dicembre ad Haifa


di Roberto Cipriani


Premessa: il profilo storico


La nascita e lo sviluppo di una città (Weber 1968) dipendono da varie contingenze e convenienze, a partire dal luogo, che viene prescelto perché favorito da alcuni elementi ricorrenti: innanzitutto la presenza dell’acqua, base essenziale per la sopravvivenza ma anche strumento formidabile per ricavarne risorse fondamentali, nonché via di comunicazione primaria fin dai tempi più antichi. A parte l’acqua, la linfa fondamentale che crea le premesse e garantisce il prosieguo dell’esperienza urbana è senza dubbio la comunità che abita il luogo. Orbene, in linea di massima la storia mostra che alle origini ci sono di solito popolazioni tendenzialmente omogenee per cultura, lingua, religione, usi, riti. Ma non sempre si ha una simile fenomenologia.


Il caso di Haifa in Israele presenta una storia piuttosto travagliata. Presumibilmente sorta circa due millenni fa o poco più (ma vi sono tracce di antichissima presenza umana, il cosiddetto uomo preistorico del Carmelo,  nella zona del monte omonimo, che risalgono al periodo musteriano, cioè a 75.000-35.000 anni prima dell’era volgare).


La cultura locale fu quella cananea, israelitica (sono state scoperte abitazioni risalenti al IX secolo a. C.) e fenicia (quest’ultima fino al IX secolo prima dell’era volgare: una nave fenicia affondata nel golfo di Haifa e risalente al VII secolo a. C. è stata esplorata in immersione da Folco Quilici ed è ora conservata presso il locale Maritime National Museum (aperto nel 1954), dove si ricorda anche l’immigrazione clandestina ebraica). La dominazione assira prima (vi sono reperti di urbanizzazione databili al VII secolo a. C.) e quella babilonese (dal 586 a. C.), persiana (dal 539 a. C.), di Alessandro Magno (dal 333 a. C.). Fu probabilmente già porto nel quarto secolo prima di Cristo con il nome di Tel Abu Hawam, poi forse chiamata Hof Yafé (cioè costa bella) sul sito della zona oggi detta di Bat Gallim. Ci fu poi il dominio dei sovrani egiziani tolomei e di quelli siriani seleucidi che precedettero il periodo di autonomia ebraica dei Maccabei (dal 168 a. C. e fino all’avvento dei romani – nel 63 a. C. – sotto il cui dominio fu fondata Cesarea Marittima, a sud di Haifa).


Haifa fu certamente abitata (da contadini, come testimonia il Talmud) attorno al quarto secolo dell’era cosiddetta cristiana. Dopo i bizantini (subentrati ai romani nel 476),  gli arabi vi giunsero nel 637 (distruggendola forse), restandovi in seguito con i califfi ommiadi, abbasidi e fatimidi sino all’avvento dei turchi nel secolo XI ed alle crociate (dal 1097, per quasi due secoli: il normanno Tancredi d’Altavilla se ne impossessò dopo un assedio nel 1099, nel corso della prima crociata).


Citata con il nome greco di ‘’Ηφα, fu un importante punto di riferimento (con il nome di Caiffa e/o Carmelo) durante le crociate, in quanto porto di accesso a Tiberiade. Fu assediata e conquistata appunto dai crociati e divenne signoria alle dipendenze dell’arcivescovo di Nazaret. Fu distrutta nel 1187, nel corso della terza crociata, da Ṣalāḥ ad-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb (Saladino) – sultano sunnita di Egitto e Siria, però di origine curda, fondatore della dinastia degli ayyubidi -. Successivamente venne riconquistata da Riccardo Cuor di Leone nel 1191. Luigi IX re di Francia la fortificò nel 1250-51. Nel 1265 i mamelucchi (milizia musulmana egiziana di schiavi turchi ed indoeuropei) la occuparono. Seguì un lungo periodo di assenza di conflitti. Nel 1517 cominciò la lunga occupazione ottomana che durò quattro secoli fino al 1917, salvo qualche interruzione. Nel 1761 Ẓāhir al-ʿUmar al-Zaydānī, governatore della Galilea, la distrusse e poi ricostruì. Dal 1775 al 1918 tornò ancora sotto gli ottomani. Tuttavia nel 1799 fu in potere di Napoleone Bonaparte e dal 1831 al 1840 fu amministrata dall’egiziano (ma ottomano di origine) Ibrahim Pasha, che dopo aver preso Haifa nel 1839 dovette arrendersi ai turchi nel 1840, anche perché pressato da navi europee e principalmente inglesi. Qualche decennio dopo furono appunto i britannici che occuparono Haifa, nel 1918. 


Le ondate immigratorie


Già prima del 1882 (anno della prima Aliyah, ondata immigratoria sionista) vi era un insediamento di ebrei in Palestina: lo si indica come “vecchio Yishuv” (quasi 25.000 persone), che aveva un carattere piuttosto ortodosso in materia religiosa, vestiva anche in modo orientaleggiante, si esprimeva in arabo o ladino (spagnolo antico) nel caso dei sefarditi (di origine iberica, costretti alla diaspora nel 1492) ed in yiddish nel caso degli ashkenaziti (di origine germanica, emigrati in Polonia e negli Stati Uniti). Il “nuovo Yishuv” aveva iniziato a costruire case fuori delle mura della città vecchia di Gerusalemme sin dal 1860 ed aveva preso parte all’immigrazione del 1892, proveniente soprattutto dalla Russia in fuga dai pogrom, le persecuzioni in Russia contro le minoranze ebraiche tra il 1881 ed il 1921. Il governo ottomano era del tutto contrario agli insediamenti. Gli immigrati vivevano del sostegno economico che ricevevano dagli ebrei della diaspora. Ci fu una seconda ondata immigratoria dal 1903 al 1914 con l’arrivo di altri 35.000 ebrei soprattutto russi. Sorsero nuovi problemi per la conduzione dell’attività agricola: i sionisti chiedevano che la lavorazione fosse affidata solo ad ebrei, mentre di fatto i contadini arabi erano più esperti. Si obiettò che si stavano discriminando gli arabi così come si erano discriminati gli ebrei in Russia. Un primo conflitto con gli arabi nacque quando gli ebrei licenziarono i soldati circassi, musulmani sunniti, per sostituirli con ebrei, cui non era permesso di portare armi in territorio islamico. Nel 1908 fu fondato dai sionisti un Ufficio della Palestina e si ebbero scontri a Jaffa, ma successivamente anche altrove con angherie e violenze. Nacque Hashomer, un gruppo sionista di autodifesa, a protezione degli insediamenti degli immigrati. Nel corso della prima guerra mondiale una parte degli ebrei venne allontanata, un’altra fu arruolata nell’esercito ottomano. In pari tempo ci furono due battaglioni inglesi di ebrei denominati Zion Mule Corps, impegnati sul fronte palestinese contro l’impero ottomano.Con la fine della guerra e della dominazione ottomana gli ebrei ebbero poi a che fare con gli inglesi per quasi un trentennio. Nel frattempo la numerosità del vecchio Yishuv era divenuta minoritaria rispetto ai nuovi arrivati. In seguito al congresso politico fondativo di Basilea nel 1897, il movimento sionista (così denominato dall’antico nome di Gerusalemme, Sion), che propugnava la costituzione di uno stato ebraico, ottenne nel 1917 la dichiarazione di Balfour, ministro degli esteri inglese, che riconosceva il diritto degli ebrei ad avere un proprio territorio.


Ottomana fino al 1917, Haifa vide l’occupazione prima ed il mandato inglese dopo (dal 1922 al 1948) ed è stata una delle sedi principali della conflittualità arabo-ebraica.


Dal 1919 al 1924 si ebbe la terza ondata d’immigrazione ebraica. Ci furono soprattutto nel biennio 1920-21 sommosse degli arabi. Fu un periodo difficile per vari motivi: gli arabi non accettavano la dichiarazione di Balfour e rigettavano l’ipotesi di un’Agenzia unica per la Palestina che mettesse insieme ebrei ed arabi ed inglesi; gli ebrei non ricevevano più il sostegno economico dal mondo della diaspora; gli inglesi ostacolavano al massimo l’arrivo di nuove ondate di profughi.


Nel 1929 vi fu un altro arrivo massiccio di ebrei, la quarta Aliyah: 133 ebrei vennero a morte durante i moti suscitati dagli arabi. Un altro massiccio arrivo di immigrati ebrei si registrò negli anni Trenta e fu la quinta Aliyah. La popolazione ebrea in Palestina giunse a circa 400.000 soggetti.


Dal 1935 al 1939 ci fu la Grande Rivolta Araba, con uno sciopero generale di sette mesi nel 1936: un autobus di ebrei venne assalito da arabi; ne seguirono eccidi da una parte e dall’altra, con molti morti. L’Haganah, organizzazione paramilitare a protezione degli insediamenti ebraici, già sorta nel 1920, cercò di difendere l’Yishuv come poté. Esponenti di Irgun dal canto loro assalirono i campi arabo-palestinesi. Gli inglesi inoltre deportarono molti arabi.


Il 18 aprile 1938 ad Haifa per una bomba posta da Irgun su un treno morirono 2 arabi e 2 poliziotti britannici. Il 24 maggio del 1938 ebrei di Irgun spararono a 3 arabi, che morirono. Il 6 luglio 1938 ancora Irgun fece esplodere due bombe nel mercato del melone ad Haifa: vennero a morte 18 arabi e 5 ebrei ed oltre 60 furono i feriti. Il 25 luglio 1938 Irgun fece fuori 43 arabi che si trovavano nel mercato di Haifa. Il 27 febbraio 1939 fu Irgun a provocare la morte di 24 arabi nel mercato del quartiere Suk ad Haifa. Il 19 giugno 1939 infine gli ebrei di Irgun con esplosivo trasportato da un asino colpirono a morte 20 arabi nel mercato di Haifa.


Nel frattempo con il White Paper del 23 maggio 1939 il governo di Londra aveva permesso un ingresso di 75.000 ebrei in cinque anni. Dopo iniziò un periodo di pace relativa. Ma cominciò pure una cospicua immigrazione clandestina, a causa dell’antisemitismo nazista e fascista. Oltre il già citato caso della nave Patria, si ebbero anche i tentativi della Struma e della Bulgaria.


Intanto la seconda guerra mondiale proseguiva. Non fosse stato per la sconfitta di Rommel ad el-Alamein, proprio nella zona del Carmelo ad Haifa si prevedeva di costituire un ultimo baluardo contro l’avanzata tedesca.


Con l’accrescersi della necessità di accogliere ebrei in Palestina, specialmente i sopravvissuti della Shoah, aumentarono le pressioni presso il governo britannico perché permettesse altri ingressi. Anche gli Stati Uniti fecero tutto il possibile in tal senso, ma gli inglesi temevano le reazioni degli arabi ed avevano già molti problemi con gli ebrei stessi. Cominciarono i sabotaggi degli ebrei militarizzati contro i britannici e si incrementò l’immigrazione clandestina. Esponenti dell’Haganah vennero arrestati. La risposta fu l’attentato il 22 luglio 1946 al King David Hotel di Gerusalemme, sede del comando militare britannico e della divisione britannica d’investigazione criminale: fra gli altri vi morirono 28 inglesi e 17 ebrei palestinesi.


Alla fine l’ONU decise per la costituzione di due stati separati: uno israeliano e l’altro arabo. A quel punto l’Arab Higher Committee, costituito negli anni Trenta, cominciò ad attaccare gli ebrei. Gerusalemme fu messa in stato di assedio senza che vi potessero entrare armi, cibo, acqua. Fu costruita una strada da Tel Aviv a Gerusalemme, il cui assedio alla fine cessò.


Dall’acutizzarsi del conflitto al Festival dei Festivals


Nel dicembre del 1947 ci furono scontri a fuoco ad Haifa fra arabi ed ebrei. Il 24 dicembre 1947 cecchini arabi spararono, uccidendoli, a 4 ebrei, mentre altrettanti arabi vennero a morte per rappresaglia da parte di ebrei. Il 30 dicembre ebbe luogo il massacro detto della raffineria di petrolio di Haifa: vennero colpiti a morte dagli arabi 39 ebrei e feriti 49, mentre in precedenza una bomba messa dagli ebrei di Irgun aveva ucciso 6 arabi. Il 1° gennaio 1948 gli ebrei di Palmach (forza regolare di Yishuv) tolsero la vita a 70 arabi ad Haifa (massacro di Balad al-Shaykh). Il 3 gennaio 1948 in Haifa gli arabi soppressero 4 ebrei. Il 14 gennaio 1948 persero la vita ad Haifa – per mano di arabi – 7 ebrei e 2 britannici.


Il mese di febbraio del 1948 fu un mese nero per Haifa: il 3 febbraio militanti arabi tolsero la vita a 6 ebrei su un autobus; il 7 febbraio gli arabi uccisero 3 ebrei e gli ebrei altrettanti arabi; il 19 febbraio ad opera di arabi trovarono la morte 4 ebrei che viaggiavano in bus; la risposta non si fece attendere ed il 21 febbraio furono 4 arabi che rimasero uccisi per mano di militanti ebrei. Il 31 marzo 1948 una bomba sul treno Cairo-Haifa uccise 40 arabi e ne ferì 60: il movimento militante ebraico Lehi se ne autoaccusò. Il 23 aprile 1948 sulla medesima tratta ferroviaria un’altra bomba diede la morte ad otto britannici, ferendone altresì 27, sempre ad opera di Lehi. 


In epoca più recente, il primo attentato ad Haifa avvenne alla stazione degli autobus il 5 settembre 1993, ma senza danni alle persone, con una rivendicazione da parte di Hamas. Il secondo attacco, suicida, fu al bus 16 il 2 dicembre 2001 con 15 ebrei morti: seguì la rivendicazione di Hamas. Qualche giorno dopo, il 9 dicembre, in località Check Post Junction, in direzione di Tel Hanan nell’area di Haifa, 39 persone vennero ferite da una bomba: la Jihad islamica palestinese dichiarò la sua responsabilità in merito. Il quarto episodio, suicida, avvenne il 31 marzo 2002 al ristorante Matza di Haifa, con 15 ebrei morti e successiva rivendicazione di Hamas. Il 5 marzo 2003 un attacco, ancora una volta suicida, sull’ autobus 37 uccise ad Haifa 17 ebrei e ne ferì 53: la vittima più giovane aveva 12 anni, la più anziana 54; l’attentatore era un ventenne arabo di Hebron. L’organizzazione palestinese di Hamas rivendicò l’attentato. Il ristorante Maxim di Haifa il 4 ottobre 2003 fu oggetto di un ulteriore attentato suicida che procurò 21 morti ebrei: lo rivendicò la Jihad islamica palestinese. Il calcolo finale delle vittime ad Haifa, prima e dopo la nascita dello stato d’Israele, è di 237 arabi e di 143 ebrei (comprese le tre vittime dell’abbordaggio alla nave Exodus 1947), cui vanno aggiunti 12 britannici.


Nel 2011 tre supposti ideatori del tragico evento del 5 marzo 2003 furono liberati dal carcere in occasione di uno scambio di prigionieri.


Appunto nei momenti di maggiore crisi, nei primi anni del 2000, cominciò a diffondersi una maggiore sensibilità volta a cercare soluzioni utili per un superamento dei contrasti: nacque così l’idea di sviluppare ancor più un’iniziativa comune del tutto pacifica, promossa dalla municipalità di Haifa sin dal 1914 con il sindaco Hassan Bey Shukri (in carica dal 1914 al 1920 e dal 1927 al 1940, arabo islamico che considerava fratelli gli ebrei, costretto, dopo un ennesimo attentato alla sua vita, a lasciare Haifa per fuggire a Beirut) (Cohen 2009: 15-17), ripresa nel 1994 ed ora rilanciata dall’attuale primo cittadino Yona Yahav (in carica dal 2003, già parlamentare laburista nella Knesset dal 1996 al 1999, poi passato al partito sionista secolare liberale Shinui, che vuol dire cambio, ed infine al Kadima dal 2009), con il titolo di The Holiday of Holidays Festival (in ebraico Hachag shel hachagim) ed organizzata ogni mese di dicembre dal centro culturale arabo-ebraico Beit-Hagefen, diretto da un board di sette ebrei e sette arabi.


Tale manifestazione si colloca in una struttura economica della città che è piuttosto solida e fondata su diverse risorse: c’è il porto (aperto nel 1933) che ha un carattere commerciale ed industriale ma pure turistico; c’è l’area dei grandi opifici; c’è una ragguardevole rete di luoghi d’incontro a carattere culturale ed artistico. Sul piano della stratificazione sociale si registra una variegata presenza di classi sociali, facilmente riconoscibili dalle condizioni abitative, dal linguaggio e dalla lingua, dall’istruzione e dai mezzi di trasporto usati. Il contesto agricolo non risulta molto evidente ma si notano abbastanza le differenze di legami che intercorrono in un quartiere od in un altro: Wadi Nisnas non a caso è stato scelto per la realizzazione del festival in quanto in esso la sociabilità è già una tradizione consolidata. I ritmi stessi di vita delle diverse zone della conurbazione di Haifa  sono visibilmente differenziati: sono più o meno frenetici secondo il tipo di lavoro svolto, la numerosità degli impegni quotidiani, il grado di personalizzazione dei rapporti intersoggettivi, il tasso di alienazione nella vita giornaliera, il livello della solidarietà comunitaria, la frequenza di atteggiamenti conflittuali, la propensione a forme di coesione, il tenore del vissuto intra-familiare ed extra-familiare, il genere di locali frequentati giornalmente, il contesto etnico-culturale (il quartiere ebraico collinare di Hadar HaCarmel risale al 1920). Un discorso a parte meritano l’Università di Haifa (fondata nel 1964) ed il Technion (istituto universitario di tecnologia fondato nel 1908 ed aperto nel 1924) immersi entrambi in vaste aree.


Come i sociologi urbani hanno spesso messo in evidenza l’industrializzazione e l’urbanizzazione sono stati i principali motori dei processi immigratori. Haifa non solo rientra appieno in questo ambito fenomenologico ma ne rappresenta l’acme e rimane un luogo dotato di un’intensa carica simbolica, che rimanda al rientro degli ebrei in patria dopo le drammatiche vicende del secondo conflitto mondiale.


Il contributo del cinema e della letteratura


Il film dal titolo Exodus di Otto Preminger del 1960, tratto dal romanzo omonimo di Leon Uris, narra il tentativo, messo in atto con una nave ribattezzata Exodus 1947 il 17 luglio 1947, di far giungere in Israele 4554 persone. Già da qualche anno, all’epoca, fra gli ebrei alcuni erano più favorevoli alla creazione di uno stato d’Israele secondo l’impostazione politico-diplomatica dell’Yishuv, Agenzia Ebraica per la Palestina (nata nel 1932), altri erano orientati verso forme di tipo più militante e dunque in favore dell’organizzazione chiamata Irgun Zvai Leumi, che si opponeva con la forza all’occupazione britannica (furono sei militanti dell’Irgun, travestiti da arabi, ad organizzare l’attentato al King David Hotel di Gerusalemme, provocando un centinaio di morti).


Navi della flotta britannica inseguirono ed abbordarono Exodus 1947 fin sulla costa della Palestina, nel porto di Haifa, dove la nave giunse il 18 luglio 1947. Lo Stato Maggiore britannico rinviò su tre navi 4399 ebrei in Francia (Port de Bouc, luogo di partenza il 10 luglio 1947 e di rientro il 29 luglio, con lo sbarco volontario di 130 persone solamente) e soprattutto in Germania (ad Amburgo). Qualcosa di simile era già avvenuto nel 1940 sempre ad Haifa: la nave Patria, con duemila profughi ebrei in fuga dall’Europa e dall’antisemitismo nazi-fascista, era stata bloccata dagli inglesi con l’intento di farla dirigere verso le isole Mauritius.


Il 29 novembre 1947 l’ONU approvò il Piano di partizione della Palestina. La fondazione dello stato d’Israele avvenne il 14 maggio 1948.


Nel cimitero di Haifa sono seppellite tre vittime ebree dell’abbordaggio inglese alla nave Exodus 1947, che, rimasta nel porto, venne destinata nel 1951 ad essere un museo. Ma tale operazione subì rinvii, per le ostilità allora in corso fra arabi ed israeliani. Nell’estate del 1952 il bastimento subì un incendio e venne rimorchiato al largo, dove affondò.


Haifa è largamente presente anche nell’immaginario sociologico di matrice araba. Emblematico a tal proposito è il contributo di uno scrittore palestinese, cantore delle due diaspore (quella palestinese e quella ebraica), nato nel 1939 a San Giovanni d’Acri, a nord di Haifa, e deceduto nel 1972 a Beirut insieme con la nipote a causa di un attentato da parte israeliana. Ghassan Kanafani è autore di Ritorno ad Haifa, un romanzo che affronta la problematica della Nabka, della catastrofe, cioè dell’altro esodo che ha riguardato le popolazioni palestinesi ed arabe a partire dal 15 maggio 1948, come conseguenza del citato Piano di partizione e della nascita dello stato d’Israele. Si calcola che nel 1951 711.000 persone abbiano lasciato il territorio assegnato agli ebrei. Dal 2010 esiste una legge israeliana che vieta la celebrazione pubblica della data del 15 maggio come ricorrenza della Nabka.


Il romanzo di Kanafani mette in evidenza le contraddizioni e le dinamiche complesse che derivano dall’intreccio inestricabile di sofferenza ed identità, cambiamento e rinnegamento, trasformazione culturale e rovesciamento di fronte, il tutto secondo un andamento di stretta e diretta corrispondenza quasi speculare, come nel caso del confronto fra un’anziana reduce dai campi di concentramento e due coniugi palestinesi che le hanno lasciato forzosamente la loro abitazione, nonché un loro figlio ancora infante. Tutti i personaggi del romanzo soffrono pesantemente le conseguenze del conflitto interculturale e dunque sono vittime dell’assenza assoluta di comunicazione e dialogo. Soprattutto è emblematico il comportamento del figlio educato secondo il modello culturale ebraico e che non riconosce più i suoi genitori naturali arabi (rientrati ad Haifa dopo 20 anni di esilio) in quanto si sente del tutto ebreo, avendo sposato in pieno la causa dello stato d’Israele. Egli non si rende conto delle ragioni che hanno indotto suo padre e sua madre a lasciarlo solo e quindi sostiene il punto di vista degli israeliani.


Un altro effetto inatteso, che deriva direttamente dalla nuova situazione creatasi il 14 maggio 1948, è anche la rinuncia dei palestinesi a rivendicare una propria identità, almeno da una certa parte della popolazione che non condivide più le ragioni della causa araba, come emerge chiaramente in un altro romanzo di Kanafani, dal titolo Uomini sotto il sole.


Invece trova uno sbocco positivo la vicenda presentata nel film Lemon Tree (Il giardino dei limoni, secondo il titolo della versione italiana) di Eran Riklis, uscito nel 2008. La trama parla di una donna rimasta vedova e senza neppure i figli, che si sono allontanati da lei. Ella difende il suo campo di limoni contro il tentativo di un suo vicino di casa, ministro israeliano, che vorrebbe abbattere il giardino dei limoni a motivo di una sua maggiore sicurezza personale. Singolarmente è la stessa moglie del ministro che prende le difese della vedova palestinese.


In un altro film del 2004, dal titolo Private, opera del regista Saverio Costanzo, il tema dello spazio conteso tra israeliani e palestinesi vede una soluzione ancora una volta pacifica e non violenta: la famiglia palestinese di Mohamed vede sequestrata la sua casa dagli israeliani per ragioni militari e si autosegrega nelle stanze del piano inferiore e vive con profondo disagio l’occupazione del proprio ambito privato. Ma intanto la vicinanza fra i due gruppi crea continue occasioni d’incontro, di contatti, che non sfociano in avversità, anzi danno luogo ad una maggiore comprensione reciproca.


Proprio all’Haifa International Film Festival è stato presentato un film di due registe europee, dal titolo Shout, che racconta l’avventura di due giovani palestinesi che vivono in un’area militarizzata israeliana di confine e decidono di emigrare in Siria, nella zona delle alture del Golan. Una volta attraversata la frontiera il rientro in Israele non è più possibile. I due amici però vogliono mantenere i contatti con i loro familiari, con i parenti, con i compagni. Si sentono siriani ma la loro casa è rimasta al di là del valico che hanno attraversato. Allora decidono di riprendere contatto con quanto hanno lasciato mettendosi letteralmente a gridare (shout), dall’alto di una collina, verso i loro conoscenti, rimasti in Israele, i quali a loro volta rispondono servendosi di un megafono. L’andirivieni di voci e richiami, di grida e repliche, è la metafora di un legame quasi ombelicale che non si vuole interrompere, a qualunque costo.


Tre casi esemplari: Kashua, Yehoshua e Michael   


Ancor più intrigante è il caso dello scrittore Sayed Kashua, arabo israeliano che vive con la sua famiglia in un quartiere ebraico di Gerusalemme e scrive in ebraico. Egli affronta la questione arabo-ebraica anche in forma umoristica, attraverso la stampa periodica e la televisione. Il suo più recente romanzo ha come titolo, in italiano, Due in uno (Neri Pozza, 2013) ma in inglese suona come Second Person Singular (2010). Le difficoltà di integrazione e di assimilazione interculturale sono il filo conduttore dell’opera di Kashua, che enfatizza la mancanza di adeguata conoscenza reciproca fra le due culture quale origine delle incomprensioni e delle conflittualità. Insomma da entrambe le parti in causa vi sarebbero pregiudizi e resistenze al cambiamento.


In Due in uno i protagonisti hanno a che fare con la complessa articolazione delle identità di appartenenza, cui a volte si rifanno strenuamente ma poi capiscono che la realtà può anche sconfessare le paure ed i sospetti, contribuendo a modificare quelle che sono le propensioni abituali, le precognizioni di fondo, i modelli culturali di riferimento prevalente. Qualcosa di simile era già prefigurato nel testo del 2002 dal titolo Arabi danzanti (Dancing Arabs), pubblicato in Italia da Guanda.


“Voglio essere uno come loro” è il Leitmotiv che accompagna la produzione artistico-culturale di Kashua e contraddistingue il fervente desiderio degli arabi protagonisti di diventare come gli ebrei, per non essere discriminati. Ma di fatto questo medesimo discorso si può ribaltare dalla parte degli ebrei, a loro volta a lungo emarginati nel corso dei secoli. E nel dire discriminati si rischia di usare un eufemismo, rispetto ad una realtà che è stata ancora più tragica. Del resto il rovesciamento può anche riprodursi ulteriormente a danno degli arabi, senza soluzione di continuità lungo l’arco della storia, più o meno recente. Parlare di richieste di documenti, di perquisizioni, di controlli, ha di fatto un valore ambivalente. Gli uni e gli altri ne hanno esperienza. Nel contempo gli uni e gli altri non conoscono a sufficienza la cultura altrui, la letteratura, la lingua, le canzoni, la storia, i poeti, gli attori. D’altro canto la carta blu di arabi con cittadinanza israeliana non è sufficiente per farsi accettare in pieno: occorre ben altro, cioè condividere esperienze, costumi, modi di vivere, cerimonie, stili e comportamenti. Non a caso il protagonista di Due in uno non ha un nome: è indicato solo come “avvocato”. Il che equivale a dire che si tratta di una situazione generalizzabile proprio perché comune a quasi tutti.


L’arabo dunque vuole fare parte degli ebrei, essere come loro in tutto e per tutto: disinvolto con le donne, dotato di ragguardevole cultura, possessore di beni vistosi, buongustaio, raffinato. Anche il deuteragonista del romanzo ha lo stesso obiettivo di fondo, pur di misere origini socio-economiche: per questo accetta di assistere un giovane ebreo in coma.


Gli esiti non sono quelli auspicati: l’avvocato arabo imita gli ebrei proprio in ciò che di loro a lui non è gradito, l’altro prende una decisione imprevedibile.


Kashua racconta la sua prima esperienza di viaggio in autobus: fu subito picchiato come arabo, un ragazzo che usciva per la prima volta dal suo villaggio, con abiti arabi, con sottili baffi arabi, e soprattutto l’aspetto timoroso di un arabo. Ed oggi è il più eminente scrittore arabo in Israele. Scrive in ebraico in modo sornione, allusivo, sottilmente furbesco. Non dà un nome al suo protagonista ma risulta evidente che molto si richiama a lui stesso. Il che gli riesce bene perché in fondo non fa che riferirsi a se stesso. Parlare di sé medesimo. Con una certa noncuranza tratta gli argomenti in modo piuttosto distaccato. Il suo personaggio principale è sempre in fondo un antieroe, anonimo ma piuttosto rappresentativo, anzi pure autobiografico. Viene accettato negli ambienti bene ma è abbandonato a vivere la sua duplice identità di arabo e di ebreo. La sua maturazione di persona adulta non risolve il dilemma dell’essere l’uno e/o l’altro. Si barcamena fra un nazionalismo arabo senza più vigore ed un vissuto annoiato in un mondo che non gli è consono e che non ha divinità in cui credere. Non è minaccioso, neppure violento, ma rimane onesto con se stesso, anche se deve cambiare continuamente d’abito per mascherarsi e cambiare più volte di ruolo ed aspetto. Si tratta di una verità sui generis, utile ad una sopravvivenza non inquieta. Kashua è molte cose insieme, è altro da sé come direbbe Ricoeur, appunto un tu per lui stesso, cioè una seconda persona singolare ovvero “due in uno”. Ma intanto nel suo secondo romanzo del 2006 Let it Be Morning (E fu mattina), che suona chiaramente come un richiamo alla potenza creatrice divina ricordata nella Genesi, il protagonista decide di far rientrare la sua famiglia al villaggio arabo di origine. Una contraddizione? No di certo. Solo un altro modo di essere nella sua travagliata dinamica fra due entità ed identità.


Grazie al suo reality televisivo intitolato Avoda Aravit (lavoro arabo) la lingua araba entra dal 2007 nella televisione israeliana, anche se non mancano reazioni e resistenze. La novità ha indubbiamente un suo impatto perché presenta un arabo non più come pericoloso nemico ma come un essere umano con tutte le sue debolezze ed anche con tutte le sue potenzialità in positivo. I soggetti della serie televisiva appaiono come una normale famiglia: il marito fa il giornalista per un quotidiano in lingua ebraica, la moglie è un’assistente sociale arabo-israeliana, i figli frequentano una scuola ebraica. Ma l’autore non manca di mettere in evidenza le ipocrisie, il conservatorismo. E spesso vi scherza sopra con il suo compagno di viaggio e di avventura cultural-letteraria, il regista israeliano Shai Capon suo dirimpettaio d’ufficio. Ma, attraverso i suoi personaggi, Kashua scherza anche su se stesso e sul mondo che lo circonda. E riesce così ad essere parte e non parte della cultura israeliana. Così come i personaggi sono pure antagonisti oltre che protagonisti. Esattamente secondo quanto avviene in Due in uno. Ed anche qui Kashua gioca: se l’avvocato è senza nome l’altro eroe/anti-eroe mostra tutto il suo essere ancipite in quanto porta un nome, Amir, che è sia arabo che ebraico. Per di più Amir si prende cura di un ebreo in coma, Yoanatan, che ha tentato di annientare la sua identità suicidandosi. La dinamica dio inclusione-esclusione prosegue senza soluzione di continuità. E Kashua si esprime con la massima libertà in tema di libertà, razza, religione, cultura, identità, lingua, appartenenza, pace, violenza, conflitto. E tutto diventa sempre più problematico (Bar-Tal 2013). Ma l’intellettuale ricorre anch’egli allo shout del film citato sopra: grida per farsi ascoltare, grida a modo suo ma si fa di fatto portavoce di un gruppo cospicuo di persone di ebrei israeliani o di israeliani ebrei.


Sulla stessa lunghezza d’onda culturale ma con qualche non lieve differenza si muove un altro noto intellettuale, che vive ad Haifa: Abraham Yehoshua. Di origine sefardita, è docente di letteratura all’università locale, dopo aver insegnato a Parigi. Dapprima ha scritto per il teatro e poi si è dato ai romanzi. Sua moglie è una psicanalista. Il suo tema principale è quello della diversità declinata a vari livelli, sia culturali che religiosi. Ben consapevole delle difficoltà nei rapporti intersoggettivi mette in evidenza le conseguenze negative dell’intolleranza e dei pregiudizi (cfr. Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare del 1996). Nel suo volume del 1997 Viaggio alla fine del millennio s’interessa proprio delle relazioni fra ebrei, arabi ed europei. Un medesimo approccio ritorna nell’opera del 1990 dal titolo Signor Mani. Con questi problemi s’intrecciano pure le situazioni familiari, esaminate molto approfonditamente da Yehoshua nelle loro fenomenologie complessificate ebraicamente (si potrebbe dire) da malintesi, scarso dialogo, reticenze, fraintendimenti, che si susseguono sulla scorta degli approcci di tipo affettivo, religioso, culturale, ideologico, politico, comportamentale, nel quadro peculiare della situazione d’Israele e del suo mondo, come emerge soprattutto nel lavoro del 2007 dal titolo Fuoco amico e da quello del 2009 Il labirinto dell’identità.


Non si può infine non citare un altro straordinario testimone e grande intellettuale, l’iracheno-israeliano Sami Michael, anch’egli di stanza ad Haifa, dopo essere vissuto in Iraq con altro nome (Salâh Menashe) ed essere fuggito dapprima in Iran e poi in Israele per evitare le minacce del regime iracheno nei suoi confronti. Comincia a scrivere in arabo sui giornali comunisti pubblicati in Israele. Ma poi comincia ad imparare l’ebraico. Nei suoi scritti sono sempre presente riflessioni sull’identità, sulla pace, sulla guerra, sulla convivenza, sui contrasti generazionali e di classe. Si batte per la collaborazione fra arabi, ebrei e cristiani. Il suo primo lavoro importante è del 1948: Uguali ed uguali di più. La diffusione delle sue opere è internazionale e giunge anche in Iraq ed Egitto. Oltre i romanzi ha scritto, come Yehoshua, opere teatrali. Risale al 2006 il romanzo dal titolo Una tromba nello uadi, ambientato nel quartiere arabo Wadi Nisnas di Haifa: racconta la storia tragica di due innamorati, ebreo lui, araba lei. La scena finale è ambientata nel cimitero di Haifa con la donna che piange il suo amato ucciso in un’azione militare. Più recente è l’opera Tempesta tra le palme del 2009. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti (si è parlato di lui come possibile candidato al Nobel).        


Il contributo rilevante degli autori sin qui citati non è affatto trascurabile. Grazie anche a loro si sta facendo strada in Israele una diversa idea di ciò che rappresenta l’arabo, con la sua cultura, lingua e religione. Non a caso nel 2013 lo Yad Vashem di Gerusalemme, il museo memoriale dell’olocausto, ha accolto il primo arabo come Giusto fra le nazioni: il medico egiziano Mohamed Helmy per aver nascosto e salvato quattro ebrei a Berlino. Prima di lui altri musulmani hanno avuto il medesimo riconoscimento ma non erano originari di un paese arabo.


Il conflitto urbano, interetnico ed interreligioso


Anche la peculiarità sociologica di Haifa merita di essere approfondita. La città non ha mantenuto a lungo una sua totale autonomia, una sua identità unica. Per diverse vicende storiche ed avvicendamenti continui di esercizio del potere essa è stata attraversata da molteplici esperienze, senza che nessuna di esse prevalesse e perdurasse come esclusiva cultura di riferimento.


La sua collocazione geografica presenta un ampio golfo, adatto per l’ormeggio dei mezzi di navigazione e, come tale, unico in tutto il litorale della Palestina. Non solo. Haifa si avvale di un importante corso d’acqua, già noto come Cison ed ora chiamato Nahr el-Muqaṭṭa‘, che attraversa la valle di Esdrelon e giunge al lago di Tiberiade, alla valle del Giordano ed alla Siria. In tal modo si crea un collegamento diretto fra il mare Mediterraneo e le acque interne.


La parte antistante il porto (che serve da punto di smistamento per il petrolio e per la frutta ma anche per i minerali provenienti via treno da Beersheba) è verosimilmente quella di più vecchio insediamento, almeno in epoca moderna, ed è caratterizzata da una prevalente presenza araba nel quartiere di Wadi Nisnas, mentre gli ebrei si sono insediati in larga misura (a partire dagli anni Venti del secolo scorso) nella zona dell’Esdrelon ed attorno al monte Carmelo, che sovrasta l’intera città e che fu il luogo della vittoria del profeta Elia sui profeti di Baal, come si legge nel biblico Primo Libro dei Re, capitolo 18, versetti 20-46, nonché residenza del profeta Eliseo, discepolo di Elia. Nell’antichità erano famosi i vini del Carmelo. Nel XII secolo sul Carmelo sorse un monastero carmelitano. Sempre nella zona del Carmelo sono insediati anche due villaggi drusi, dissidenti musulmani.


Verso sud-est c’è l’area industriale con le raffinerie di petrolio sorte tra il 1936 ed il 1939 come punto di arrivo dell’oleodotto proveniente da Kirkuk in Irak (disattivato nel 1948), la centrale termica, i cementifici, le fonderie, le vetrerie e varie altre industrie (soprattutto chimiche e di alta tecnologia), lungo la strada per Acco (San Giovanni d’Acri) e quella per Nazaret, con quattro villaggi. La forza lavoro è impiegata soprattutto nei servizi, assai meno nell’industria.


La situazione urbana odierna è in buona misura uno sviluppo delle potenzialità che Haifa aveva già in passato, pur nelle sue ridotte dimensioni rispetto all’espansione attuale del territorio municipale. ‘’Ηφα era una piccola entità, frutto della civiltà ebraica agli inizi dell’era volgare o comune. Era nata, come tanti altri agglomerati abitativi, per rispondere ad esigenze di varia natura che non trovavano soddisfacimento nel territorio circostante, in aperta campagna, dove potevano mancare vari servizi di prima necessità, reperibili invece nel centro urbanizzato. Ovviamente l’articolazione attuale di detti servizi è ben maggiore e risponde ad usi che si sono creati e sviluppati in seguito al macro-processo di industrializzazione che ha cominciato ad attraversare l’Europa e le aree mediterranee proprio nell’epoca in cui Haifa è risorta, nel XVIII secolo. Indubbiamente la crescita più significativa ha preso avvio nel successivo XIX secolo per poi proseguire in modo più rilevante nel XX secolo allorquando la città ha raggiunto i centomila abitanti (soprattutto arabi musulmani, insieme con arabi cristiani in misura minore ed ancor meno numerosi gli ebrei). La presenza ebraica in Haifa è poi andata crescendo notevolmente sino a pareggiare quella araba, dopo la seconda guerra mondiale. Il 23 aprile 1948 l’esercito d’Israele ha fatto evacuare circa ottantamila arabi.


E la proclamazione dello stato d’Israele è avvenuta il 15 maggio 1948.


Da quel giorno in poi Haifa è divenuta ancor di più il punto di approdo degli ebrei che desideravano entrare nel paese dei loro antenati. Il che è avvenuto in misura preponderante via mare e dunque attraverso Haifa, porta marittima d’Israele. Centinaia di migliaia sono stati i profughi e gli immigrati sbarcati nel porto della città, mentre il quadro politico non si era ancora rasserenato a seguito del rifiuto, da parte degli stati arabi confinanti, di accettare la nuova situazione decretata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1947. I contrasti sfociarono quindi nella guerra arabo-israeliana del 1948-49, che vide Haifa al centro di molti scontri per la presenza del porto e delle industrie. Gli arabi di Haifa si arresero il 22 aprile 1948. Molti di loro, che in precedenza erano quasi 50.000, abbandonarono la città. Gli abitanti arabi si ridussero a 3.000.  


Nel 1949 ci furono gli accordi armistiziali di Rodi, che riguardarono i rapporti di Israele rispettivamente con Libano, Siria, Transgiordania ed Egitto, per definire i confini tra i diversi stati in questione, che furono mantenuti fino al 1967, cioè allo scoppio della cosiddetta guerra dei sei giorni. L’accordo con il Libano fu sottoscritto il 23 marzo 1949 e fissò la “linea blu” di frontiera fra i due stati. Quello con la Cisgiordania venne firmato il 3 aprile 1949 e quello con la Siria il 20 luglio 1949. Quest’ultimo stabilì il ritiro dei siriani dalle zone occupate verso ovest, che vennero smilitarizzate. Quasi l’80% dei territori già sotto il mandato britannico furono dunque assegnati allo stato d’Israele. Ma si trattava di intese provvisorie ed a carattere militare (eccezion fatta per il Libano), in attesa di veri e propri trattati di pace.


Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni che vide Israele contro Siria, Giordania ed Egitto, gli israeliani vollero considerare definitive le linee di confine in atto. Però seguirono varie violazioni degli accordi, da entrambe le parti, con irruzioni in zone delle controparti. Per la regione di Haifa ci furono diverse azioni militari, con attacchi provenienti dalla Siria ed in particolare dalle alture del Golan.


Nel 1973 Siria ed Egitto violarono la tregua voluta dall’ONU ed iniziarono la guerra detta del Kippùr (ricorrenza ebraica di digiuno e pentimento, nel decimo giorno del mese di tishrî – tra settembre ed ottobre -). Mentre con l’Egitto lo stato d’Israele giunse agli accordi di Camp David nel 1978 ed alla pace di Washington nel 1979, più problematica si presentò invece la situazione al nord e segnatamente nella regione circostante Haifa, con azioni di guerriglia e colpi di artiglieria. Truppe israeliane invasero poi il sud del Libano dal 1982 al 1985. E nel 1987 ebbe inizio la rivolta (intifada) palestinese, specialmente con il ricorso al lancio di pietre.


La vittoria laburista in Israele nel 1992 diede avvio con il primo ministro Rabin, laburista, ad un periodo di pace relativa, che portò pure al riconoscimento dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ad un trattato di pace con la Giordania e ad intese con la Siria. Anche Haifa ovviamente si giovò del nuovo clima socio-politico e vide un allentamento delle tensioni in atto.


Ma l’assassinio del leader laburista Rabin interruppe la dinamica pacificatrice in corso.


Le vicende successive furono condizionate dalle politiche governative messe in atto dal conservatore Netanyahu prima (dal 1996 al 1999), dal laburista Barak (dal 1999 al 2000) che tentò una ripresa degli accordi con i palestinesi e fece ritirare l’esercito israeliano dal sud del Libano, da Sharon (dal 2001 al 2006) della coalizione di centro-destra del Likud che vide una recrudescenza dell’intifada e degli attacchi terroristici, con eventi tragici che colpirono in modo ripetuto e sempre più tragico proprio Haifa, che vide varie centinaia di morti da entrambe le parti in contesa, fino al 2003.


Nel 2004 morì il leader palestinese Arafat, cui subentrò Abu Mazen, esponente moderato di al-Fatah (fondata dallo stesso Arafat). Nel novembre 2005 Sharon creò una nuova forza politica centrista denominata Kadima, che vuol dire “avanti”, e nel 2006, ammalatosi, venne sostituito da Olmert (fino al 2009), nuovo leader di Kadima.


Nel frattempo il movimento fondamentalista islamico palestinese di Hamas (“ardore”) aveva ottenuto la maggioranza nel parlamento palestinese sconfiggendo al-Fatah (“giovane”), la parte più orientata verso soluzioni meno conflittuali. Ed in effetti le conseguenze si videro subito, con la cattura di soldati israeliani ad opera di miliziani di Hezbollah (“partito di Dio”, sciita fondamentalista libanese) e la risposta israeliana di rivalsa sul Libano. Anche in questo caso, come pure tutte le volte che ci furono situazioni critiche anche con il confine siriano, la regione di Haifa entrò in fibrillazione.


Nel 2009 Netanyahu, capo del Likud, è tornato ad essere primo ministro d’Israele, riconfermato poi nel 2013, alla guida di una coalizione che ha escluso gli ultra-ortodossi e compreso anche i partiti di centro Yesh Atid (“c’è un futuro”) e Hatnuah (“il movimento”), quello conservatore di HaBayit HaYehudi (“la casa ebraica”) ed il partito della destra sionista laica Israel Beitenu (“Israele, nostra casa”).


Il nuovo governo di Netanyahu ha dato l’avvio alla liberazione, in quattro fasi, di 104 palestinesi incarcerati per fatti sanguinosi. I primi 26 sono stati liberati il 14 agosto 2013, pur tra le proteste. Nondimeno si sono create, così, le premesse per una ripresa delle trattative israelo-palestinesi. Ma la morte di due sergenti israeliani, verso la fine di settembre, per mano di palestinesi, ha provocato una petizione di ministri e parlamentari israeliani per una sospensione del rilascio degli altri detenuti. Ancora una volta il processo di pacificazione ha dovuto subire un rallentamento.           


La Colonia tedesca e lo sviluppo della città


Oggi Haifa, nella sua articolazione topografica di città bassa, media ed alta, conta più di 270.000 abitanti (ma erano solo 24.634 nel 1922 e 229.000 nel 1979), ora in larga maggioranza ebrei (di cui circa il 25% di origine russa), insieme con tre minoranze per così dire principali, rispettivamente, nell’ordine di grandezza numerica, di arabi cristiani (che si avvicinano ad un totale di 20.000 persone, di cui quasi 6.000 sono greco-ortodosse), di arabi musulmani (poco meno di 10.000 individui) e di drusi (che, considerando però l’intera area metropolitana, assommano a circa 40.000,  musulmani sciiti ismaeliti di cultura agro-pastorale e patriarcale) che vivono nei dintorni di Haifa e soprattutto a Daliyat el-Carmel, Isfiya e Shfar’am.


Ad Haifa sono presenti università e centri culturali, teatri e sale cinematografiche (da segnalare l’importante Film Festival Internazionale a cadenza annuale), insieme con varie altre realtà religiose come quella dei Baha’i, i melchiti, i maroniti (circa 2.000 persone), gli arabo-cristiani, gli ahmadiyya (musulmani sunniti che sono giunti dal Pakistan nel 1925, vantano ora una grande moschea e quasi 2.000 aderenti), i protestanti (un migliaio). Vanno ricordati anche gli hashemiti (di origine giordana), che appartengono, per discendenza diretta, alla famiglia di Maometto, il cui bisnonno si chiamava Hāshim.


Per ricostruire lo sviluppo urbano della città di Haifa può fare da filo conduttore anche la breve storia della cosiddetta Colonia tedesca, un insediamento sui generis, a carattere religioso ed economico, avvenuto nel 1869, su un’area allora spopolata e prospiciente la spiaggia di Haifa, ad opera di un gruppo protestante germanico denominato templari (ma non si tratta dei più famosi cavalieri templari, istituiti nel 1119 per difendere i luoghi santi della Palestina). All’epoca dell’arrivo dei protestanti tedeschi (ormai quasi un secolo e mezzo fa), la piana retrostante la costa, dove oggi si trova il porto turistico e commerciale di Haifa (completato nel 1934), appariva quasi del tutto spopolata: c’era solo un piccolo villaggio di pescatori. Le prime abitazioni della Deutsche Kolonie furono perciò l’incipit di un insediamento urbano che si sarebbe a poco a poco allargato, confermando ancora una volta che i posti di mare sono facilmente vocati ad essere urbanizzati se solo qualche altra condizione permetta una vita comunitaria non particolarmente disagiata.


I sociologi urbani hanno più volte sottolineato che la stessa presenza di una ferrovia e magari di un nodo ferroviario (come nel caso di Chicago nell’Illinois) rappresentano un volano rilevante per la promozione di un incremento abitativo e di un collegato sviluppo in campo lavorativo. Da questo punto di vista la lezione della cosiddetta Scuola di Chicago (Short 1971) rimane esemplare ed illuminante: la città ebbe a svilupparsi da un nucleo inziale sorto attorno alla stazione ferroviaria, ancor oggi punto nevralgico della metropoli statunitense.


Nel caso di Haifa la ferrovia venne costruita tra 1900 ed il 1905 e completata nel 1919 (quarant’anni dopo sarebbe stata aperta la metropolitana, nel 1959, collegando la parte alta e quella bassa della città): la tratta ferroviaria che da Tel Aviv giunge lungo la costa sino al porto di Haifa per poi proseguire verso San Giovanni d’Acri ha contribuito indubbiamente a favorire lo sviluppo della città e delle sue attività commerciali di import-export. Haifa Center HaShmona, Haifa Bat Gallim, Haifa Hof HaKarmel (Razi`el) sono oggi le tre stazioni della città, nell’ordine, procedendo lungo il percorso da san Giovanni d’Acri verso Tel Aviv. La stazione centrale è proprio sulla rada, a contatto con la zona portuale e l’entroterra abitativo. Va anche segnalato che un oleodotto porta ad Haifa il petrolio, che arriva dal Mar Rosso per essere raffinato sul posto.   


Ancora oggi, ad Haifa lungo i due lati dell’attuale viale Ben Gurion, che inizia a mezza strada tra il vecchio cimitero di Haifa e la stazione Haifa Center HaShmona, si possono riconoscere quelle che furono un tempo le abitazioni della già citata Colonia tedesca, che, fautrice di piccole iniziative imprenditoriali a carattere familiare o poco più, favorì lo sviluppo dei trasporti, specialmente dal mare verso l’interno (Nazaret in particolare) ma altresì lungo la costa fino a san Giovanni d’Acri (o Acco) a nord e Giaffa a sud, oltre Tel Aviv.   


Classica espressione dello spirito protestante connotato da un forte impegno nel lavoro e nella professione, secondo la prospettiva teorico-sociologica suggerita da Max Weber (1965), i templari nel giro di qualche decennio videro migliorare le proprie capacità produttive ed acquisitive. Qualche complicazione si ebbe solo allorquando nel 1874 si registrò un dissenso all’interno della comunità, che si divise al suo interno in quanto una parte di essa pensò di aderire alla chiesa protestate prussiana. Quest’ultima aiutò molto i nuovi adepti operanti ad Haifa, che alla fine ebbero il sopravvento sui loro correligionari di un tempo, restati fedeli al movimento della fondazione e nondimeno qualificati come settari dai loro compatrioti ed ormai avversari religiosi. Il conflitto si acuì fino a far crescere la sfiducia reciproca, con continui contrasti ed affronti. Fu così che nel 1886 si costituì ad Haifa una congregazione protestante tedesca chiamata Kirchler, con oltre 50 membri.


Per di più nel 1891 gli aderenti alla chiesa di Prussia ottennero un rilevante supporto attraverso l’organizzazione denominata Jerusalemverein per gli aiuti ai cristiani di Palestina. Anche altre colonie tedesche sorte in Terrasanta ebbero sostegni ed apparvero prosperose ma non superarono mai, messe insieme, fino al 1914, il numero totale di 2.500 membri. Perciò la loro forza politica ed economica andò esaurendosi, nonostante l’invio di un insegnante nel 1890 per aprire una scuola tedesca in terra palestinese.


A ben poco era valso anche il tentativo messo in atto da Otto Fischer, un evangelico di Haifa, di offrire anche un luogo di culto per la comunità tedesca: il mecenate donò un terreno, su cui una chiesa venne costruita nel giro di un anno tra il 1892 ed il 1893, anno in cui vi giunse un pastore inviato dal Jerusalemverein.


Ma la comunità tedesca di Haifa non si estese di molto e toccò al massimo il numero di circa 400 membri, più o meno stabili a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel corso degli anni, invero, l’assestamento comunitario, dovuto sia a ragioni religiose attraverso la regolarizzazione dell’appartenenza religiosa, sia a motivi economici a seguito di una sostanziale tenuta della prosperità economica, attutì le stesse differenze intra-confessionali che avevano dato luogo a divergenze negli anni precedenti. Nel 1907 la comunità evangelica tedesca Kirchler di Haifa riuscì peraltro a realizzare un nuovo insediamento intitolato Waldheim (Allonei Abba).


Nondimeno la sorte della Colonia tedesca era ormai segnata, con l’arrivo della prima guerra mondiale e dei conseguenti disagi di natura bellica, nonché con l’occupazione da parte degli inglesi quali nuovi padroni della Palestina. Nel 1937 venne nominato dal Jerusalemverein il nuovo pastore di Haifa, Christian Berg, in sostituzione di Detwig von Oertzen andato in pensione. Ma in quel medesimo anno i britannici scoprirono che circa un terzo della comunità tedesca era iscritto al partito nazista tedesco per cui i protestanti templari furono osteggiati ancor più ed infine deportati in campi di internamento. Dopo quasi un secolo era irrimediabilmente finita l’esperienza della Colonia tedesca di Haifa.


Haifa tra comunità e società


La città di Haifa presenta alcune marcate caratteristiche che porterebbero a verificare l’idea di Tönnies (1963) relativa alla dicotomia fra comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft). In effetti in luoghi e tempi diversi della vita cittadina si evidenziano ora aspetti tipici della comunità ora elementi caratteristici della società. A livello residenziale vi sono quartieri in cui le abitazioni così come sono costruite non consentono facilmente l’interazione fra attori sociali mentre altrove l’intersoggettività è talmente favorita da apparire quasi scontata. Un conto è infatti risiedere in grandi edifici a conduzione condominiale ben altro è vivere in case basse che permettono un incrocio continuo e persino speculare di sguardi, voci, interazioni comportamentali. Ma vi sono anche situazioni in cui il dato di fatto contestuale è annullato dalla volontà dei singoli che si ritrovano per momenti conviviali, incontri di festa, ritualità religiose, svaghi in comune. Ciò vale per gli ebrei come per gli arabi, per i melchiti come per i maroniti, per gli ahmadyya come per i Baha’i, per i cattolici o i protestanti. Sotto questo profilo è ben evidente il ruolo strategico che riveste un’occasione come quella del Festival dei Festivals che si volge ogni anno nel mese di dicembre.


Nella stessa quotidianità di Haifa si assiste ad una sequenza di interazioni che interessano gli individui in ogni loro dimensione, con un coinvolgimento che si direbbe totale. Questo si constata sia a livello di vicinato, di condominio, di quartiere, sia a livello cittadino, secondo contingenze del momento, situazioni socio-politiche locali e regionali o nazionali, condizionamenti esterni anche di natura internazionale, conflitti manifesti o latenti in atto.


In base ai diversi tassi di integrazione intra-familiare ed intra-etnico-religiosa si registra una propensione più o meno accentuata verso la dimensione comunitaria, cioè del rapporto tendenzialmente sereno a faccia a faccia.


C’è però da chiedersi se sia possibile applicare la duplice categoria di tradizionale e moderno al caso specifico della città di Haifa. Innanzitutto andrebbe chiarito in quale misura si possa parlare di tradizione. Se è vero che la storia del luogo ha conosciuto tante ed alterne vicende se ne deduce che sarebbe mancata una sostanziale continuità che solitamente consente la costruzione di un forte impianto culturale, capace di resistere a lungo nel tempo, superando ostacoli ed attacchi di ogni sorta.


Nel confronto con la città di Gerusalemme, per esempio, Haifa presenta molte discontinuità: abitata e poi abbandonata, distrutta e ricostruita, ridotta a poco più di un villaggio e poi cresciuta in modo esponenziale nel corso degli anni più recenti. Dunque si può notare che manca un radicamento costante, senza soluzioni nel tempo. Da un punto di vista storico-sociologico questo significa che Haifa sembra difettare di una propria identità e dunque permette più agevolmente l’innervamento di tante altre identità, culturali, nazionali, linguistiche, religiose. Insomma quella che parrebbe una sua debolezza si trasforma in forza in quanto apre ad altri inserimenti, ad ulteriori innesti, senza opporre una particolare resistenza.


Invero i problemi non mancano. Si pensi al cospicuo arrivo ad Haifa di immigrati provenienti dall’ex Unione Sovietica: trovano un’accoglienza adeguata e per quanto possibile vengono collocati a svolgere un’attività lavorativa in città. Da parte della comunità araba in particolare si obietta che tali nuove presenze diventano evidentemente concorrenziali nell’ambito di un mercato del lavoro che non è certo florido e facilmente accessibile, specialmente in questo momento storico di grave crisi occupazionale a livello internazionale.


Va anche detto però che la coesione socio-economica di alcune aree cittadine riesce a far fronte all’impatto dei nuovi arrivati, che dunque si ritrovano a dover cercare soluzioni lavorative altrove, nel medesimo tessuto urbano o al di fuori di esso. In questo senso vige ed ha la meglio un certo senso di appartenenza che connota peculiarmente proprio le comunità “i cui membri condividono un’area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere” (Parsons 1965: 97). Hadra HaCarmel, quartiere ebraico per eccellenza, e Wadi Nisnas, quartiere arabo per eccellenza, sono a loro modo singolare due comunità, più o meno coese, più o meno integrate, più o meno accoglienti. In primo luogo non si può parlare di un’assoluta omogeneità al loro interno. Detto altrimenti non risultano essere realtà esclusive ed esclusiviste. Ed allora si creerebbe in tale quadro urbano d’insieme quella che Talcott Parsons chiamerebbe forse una comunità societaria, cioè contraddistinta da due sottosistemi (ebraico l’uno ed arabo l’altro, si direbbe) in cui esistono almeno in modo orientativo “obblighi di lealtà nei confronti della collettività societaria, sia per il complesso dei suoi membri, che per le varie categorie, diversificate per il loro status e ruolo, che si ritrovano all’interno della società” (Parsons 1973: 28). Tale lealtà non è necessariamente sempre chiara, visibile, percepibile. Rimane un tratto di fondo. Appare sottintesa. Ma, come nella teoria dei giochi di von Neumann e Morgenstern (1944) o meglio nel noto dilemma del prigioniero (Poundstone 1992), essa è frutto di una prima intenzione di collaborazione, di fiducia, almeno fino a prova contraria. Si potrebbe anche parlare di una sorta di sfiducia ben riposta (Mutti 1998; 2006). In situazioni conflittuali, con aspri scontri, con azioni forti, possono essere accusati di slealtà coloro che propendono per soluzioni più miti, meno violente, non vendicative, non assolutistiche, magari di compromesso. Orbene proprio il compromesso è sovente considerato un accomodamento poco efficace, non duraturo, rinunciatario. Eppure esso rappresenta in molti casi la via di uscita da un’impasse altrimenti senza soluzione, da un vicolo cieco entro il quale l’assenza di vie di fuga costringe i contendenti a misurarsi in uno spazio ristretto, che non offre alternative se non lo scontro diretto con danni reciproci. Il compromesso è in effetti una forma di mediazione, faticosa da realizzare e basata sulla speranza di reperire una formula adatta ad affrontare una situazione di crisi. Quando due interlocutori, singoli o collettivi, si cimentano su una questione da risolvere, su una decisione da prendere, i rispettivi punti di partenza rispondono tendenzialmente e principalmente a prospettive univoche, interessate, piuttosto ideologiche. Solo nel dibattito e nella dialogicità si scoprono le esigenze e le attese altrui, non sempre ed immediatamente percepibili da un angolo di visuale diverso e persino opposto. Ecco dunque che diviene necessaria una modalità di attenzione all’altro per coglierne le intenzioni ed il bisogno reale di riconoscimento. Perciò diventa imprescindibile un’offerta di disponibilità, di apertura alla comprensione ed alla compartecipazione. L’atteggiamento dell’attesa e della sospensione del giudizio ovvero del pregiudizio risponde ad una scelta operativa ben fondata: conoscere per capire, comprendere ancora prima di agire, procedere con cautela evitando attacchi diretti, frontali, dichiaratamente ostili. Ovviamente non sarebbe produttivo un atteggiamento di resa incondizionata alle proposte altrui: non si renderebbe un buon servizio nemmeno a chi sta dall’altra parte, perché lo si rafforzerebbe nella sua convinzione di avere sempre e comunque ragione. E ciò d’altro canto non sarebbe giusto e corretto neanche nei riguardi di chi offrendosi del tutto alla colonizzazione ideologica dell’altro rinuncia per ciò stesso alla propria matrice di provenienza. Detto altrimenti, il permissivismo o l’eccesso di tolleranza (termine piuttosto ambiguo) di cui si parla in generale a proposito di soggetti che muovono da un’ispirazione religiosa, o di altra derivazione, non può significare solo un annientamento della propria identità quanto piuttosto un consapevole modo di interagire nella forma più opportuna, cioè ipotizzando in linea di principio una disponibilità anche del proprio interlocutore a voler trovare una convergenza consensuale. Di solito serve appunto una sfiducia ben riposta, già citata sopra. In altre parole l’epoché, come sospensione del giudizio, è espressione in pari tempo di fiducia ma anche di sfiducia ben riposta, cioè contemporaneamente di prudenza e saggezza. Si offre il destro ma si evita di lasciarsi colpire. Si porge l’altra guancia, ma – si direbbe – non ve n’è una terza che darebbe all’altro il diritto di offendere all’infinito, con suo stesso detrimento (oltre che altrui). La propensione al dialogo interculturale ed interreligioso  in definitiva non sembra una formula perdente se viene esercitata con accortezza e senza rinunzie significative ai valori che ad essa danno luogo e sostegno. Ancora una volta risulta valida la metafora del dilemma del prigioniero che non sa decidere se collaborare o meno. In genere la risoluzione di avvio è quella della fiducia e del rispetto. Ma se a lungo andare tutto ciò non servisse occorre poi passare ad un atteggiamento che faccia capire ancora meglio che non si è inconsapevoli vittime della coartazione altrui ma solo latori di una volontà di comunicazione dialogica a due vie, cioè in modo circolare, senza che l’uno prevarichi l’altro.    


Il Festival dei Festivals come solidarietà spontanea


L’esperienza che i cittadini di Haifa ripetono ogni anno con il loro Festival dei Festivals assume i connotati di una solidarietà spontanea che il clima della festa suscita, la municipalità promuove, gli abitanti stessi condividono in buona misura anche se non totalmente. D’altro canto appunto il carattere festivo stimola la percezione di una comune appartenenza alla città, anche al di là delle rispettive culture etnico-linguistiche-religiose di provenienza. Molto si mescola in termini di arte e spettacolo, musica e teatro, adulti e giovani, anziani e fanciulli. Avviene così che in termini toenniesiani “ogni convivenza confidenziale, intima, esclusiva […] viene intesa come vita in comunità; la società è invece il pubblico, è il mondo. In comunità con i suoi una persona si trova dalla nascita, legata a essi nel bene e nel male, mentre si va in società come in terra straniera” (Tönnies 1963: 45-46).


Le attività decembrine segnano dunque un discrimine, uno spartiacque nel corso dell’anno: le diverse comunità di Haifa si incontrano, stanno insieme, provano che la convivenza pacifica è realizzabile. La differenza con il resto dell’anno è evidente ma, almeno nelle intenzioni, sembra essere sempre meno evidente e dunque più sfumata, nonostante le barriere pluricentenarie ed in qualche caso plurimillenarie che hanno separato le comunità fra loro ed impedito di avere un costume comune, una condivisione duratura, un destino compartito.


In effetti andare da Wadi Nisnas ad Hadar HaCarmel è quasi come andare in terra straniera e lo stesso dicasi per coloro che da Wadi Nisnas si dovessero recare nel quartiere di Hadar HaCarmel. Eppure il territorio comunale non ha soluzioni di continuità nello spazio ed entrambi i quartieri sono reciprocamente visibili a gittata d’occhio. Le case basse di Wadi Nisnas consentono una relazionalità che si sviluppa in senso più orizzontale che verticale, al contrario di quanto potenzialmente avviene nel quartiere a prevalenza ebraica, dove la conoscenza interpersonale è piuttosto interna al medesimo edificio.


Da una parte è più facile lo sviluppo di un rapporto intersoggettivo “come vita reale e organica” (Tönnies 1963: 47), dall’altra forse il carattere solidale si presenta come un “aggregato”. Ma in entrambi i casi il vissuto intra-familiare ripercorre le stesse dinamiche comuni: uomo-donna, genitori-figli, fratelli-sorelle, grandi-piccoli. La condivisione del luogo di esistenza per periodi prolungati non può non produrre senso di affiliazione, un sentire compartecipato. Per cerchi concentrici, si può dire che la sociabilità simmeliana (Simmel 1997) si estenda dalla famiglia alla parentela e poi al vicinato ed alle reti amicali, ora sempre più fondate su mediazioni elettroniche (twitterfacebookskype, ecc.) che travalicano i confini dei quartieri e delle città, delle nazioni e dei continenti.


I legami più significativi, al di là della famiglia, si riscontrano specie fra gli amici, cioè fra soggetti che non sono dati per default di collocazione topografica (come nel caso del vicinato) o di nessi di consanguineità (come per quanto concerne il parentado) ma vengono prescelti a ragion e convenienza vedute come pure sulla base di spinte emozionali. L’amicizia come Erlebnis, come esperienza di un vissuto, ha molto a che vedere con il carattere comunitario, in quanto contiene “un modo di sentire comune e reciproco, associativo” (Tönnies 1963: 62), affine a quello della comunità. Ebbene le forme di partecipazione e di responsabilità rinvenibili nell’organizzazione e nella realizzazione del Festival dei Festivals si spiegano anche con la sensibilità agli scopi e con la spontaneità della collaborazione, entrambe non sempre soggette a formule economiche e contrattualistiche.


Ovviamente non manca l’indispensabile impianto d’assieme che comporta un notevole impegno economico, affrontato principalmente dall’amministrazione comunale, in misura equivalente a circa un milione di euro per ogni anno. Ma un tale esborso non garantisce di per sé l’esito delle diverse manifestazioni del dicembre di Haifa. Sono ben altre le forze e le volontà necessarie per condurre in porto tante iniziative di ogni genere e durata. Pertanto solo condizioni di base particolarmente favorevoli in chiave di disponibilità dell’offerta collaborativa garantiscono che per un mese ogni aspetto sia ben predisposto, non abbiano luogo incidenti, ogni spettacolo funzioni al meglio.


Ad Haifa, specialmente nelle zone in cui il Festival si snoda con le sue diverse offerte culturali, è quasi palpabile un’aura, un’atmosfera speciale di intensa cooperazione e di intesa coscienziosa. Si cerca comunque di evitare qualsiasi ostacolo al buon andamento dei vari momenti festivalieri programmati. Una sapiente regia, quella di Asaf Ron, prepara e segue le diverse dinamiche di The Holiday of Holidays, una serie di eventi a 360 gradi per varietà di forme, linguaggi ed espressioni.


Vi partecipano generazioni di ogni età, individui di ogni lingua e religione presenti in città (ma con arrivi anche da fuori), senza particolari distinzioni, quasi una sorta di metafora della non soluzione di continuità fra comunità e società, fra dimensione locale e prospettiva globale. In effetti è illuminante in proposito quanto scrive Tönnies (1963: 83): “la teoria della società muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono ed abitano pacificamente l’uno accanto all’altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante tutte le separazioni. Di conseguenza, qui non si svolgono attività che possano derivare da un’unità a priori esistente necessariamente, e che quindi esprimano anche la volontà e lo spirito di questa unità nell’individuo, in quanto compiute per mezzo suo, realizzandosi tanto per gli associati con l’individuo quanto per l’individuo stesso. Piuttosto, in questo ambito ognuno sta per conto proprio e in uno stato di tensione con tutti gli altri”.


Applicando ad Haifa ed al suo Festival la proposta toenniesiana di lettura del rapporto tra comunità e società ne scaturisce un quadro d’insieme secondo cui l’intera città avrebbe le caratteristiche della società mentre le realtà dei singoli quartieri, con la loro diversa matrice socio-culturale, costituirebbero altrettante comunità che, confluendo nel momento del Festival, propongono un mix comunitario e societario allo stesso tempo, che ben rappresenta la peculiarità di Haifa quale risposta esemplare alle tendenze conflittuali eventualmente in atto.


Inoltre i residenti ad Haifa “vivono ed abitano pacificamente l’uno accanto all’altro” ma rimangono separati fra loro per motivi storico-sociologici di varia natura. Senonché sarebbe esattamente l’immergersi nella folla quasi indistinta delle celebrazioni festive che provocherebbe una transizione di fatto dalla società cittadina alle comunità cittadine, grazie proprio alle comunità di quartiere che compongono la medesima città di Haifa.


Detto altrimenti la forza delle comunità, separate fra loro, se congiunta virtuosamente nel Festival produce effetti superiori a quelli che ci si potrebbe attendere da un semplice sommarsi di interventi, apporti, consensi. Si può pertanto parlare di un volano (a dismisura), di un potenziatore (all’ennesima potenza) e di un diffusore (in ogni direzione) che adducono conseguenze visibili nell’immediato della festa ma altresì latenti, carsiche, nel corso dell’anno.


In fondo, nella città il fatto stesso di insistere su un territorio comunque contiguo mentre separa i diversi “isolati” fra loro nondimeno li unisce nella cittadinanza collettiva. D’altra parte le comunità dei quartieri tendono a conservare comunque i loro legami residenziali, nonostante le diversità inerenti le singole famiglie, le religioni avite, le lingue materne. Quando poi tutto ciò confluisce nella dimensione di The Holiday of Holidays allora riesce persino arduo discernere fra gli uni e gli altri, fra ebrei ed arabi, fra drusi e maroniti, e così via. Si realizza in tal modo un trapasso dalla prospettiva solo individuale e familiare a quella più allargata, più incurante delle differenze, più disponibile a mescolarsi con gli altri (conosciuti o meno), più aperta verso il nuovo o il poco noto. Si passa così dalle tensioni intercomunitarie alla normalità della dimensione societaria, più aggregante ed aggregata, come esemplarmente mostra la folla festiva. Ma è altresì dato verificare che l’esperienza societaria è un terreno di coltura delle contrapposizioni, delle ostilità, delle rotture. Non è che un simile contrasto non alberghi anche nelle realtà comunitarie. Invero il tenore dell’appartenenza mitiga in parte alcune asprezze che invece emergono chiaramente in ambito societario.


Appartenere ad una comunità si accompagna poi a tutta una serie di condizionamenti che influenzano atteggiamenti e comportamenti dei soggetti che ne sono membri. Weber (Weber 1961: 38) peraltro rende esplicita la situazione tipica della comunità fondata sulla relazione sociale, “se, e nella misura in cui, la disposizione dell’agire sociale poggia […] su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) dagli individui che ad essa partecipano”. Ed inoltre (Weber 1961: 39) “una comunità può riposare su ogni specie di fondamento affettivo o emotivo, o anche tradizionale – per esempio una confraternita ispirata, una relazione erotica, un rapporto di reverenza, una comunità ‘nazionale’, una truppa tenuta insieme da legami di cameratismo”.


La comunità invero è una forma sociale ancipite, ambigua: condiziona ed ispira, costringe e spinge, insomma fa l’una e l’altra cosa insieme. Ciò detto, è evidente che il vissuto comunitario presenta aspetti problematici, che non lasciano facilmente presagire ciò che seguirà dopo.


Orbene se il Festival dei Festivals fa leva sulla comunità araba di Wadi Nisnas e sul centro culturale arabo-ebraico Beit HaGefen tale scelta appare fondata e razionale, nell’ottica di una modernizzazione delle proposte culturali che facciano tesoro delle potenzialità insite nel medesimo territorio di riferimento. Gli ostacoli tuttavia non mancano, perché vi sono radici profonde che risalgono molto addietro nel tempo e non possono essere facilmente rimosse. La permanenza delle culture pregresse è una costante che si presenta ad ogni tentativo di innovazione volto a mutare il profilo originario.


Il ricorso a forme di solidarietà organica (Durkheim 1962), nel corso delle attività del Festival,diventa una soluzione particolarmente efficace (anche ai fini di una maggiore coesione sociale), in quanto le diverse funzioni (organizzative, gestionali, performative) rispondono a criteri di massima professionalità, evitando di lasciare solamente al caso il buonesito degli eventi messi in cantiere. Un siffatto modo di procedere diventa pure un parametro di riferimento per segnalare in modo forte e chiaro che anche le situazioni più complesse, articolate e contraddittorie sono governabili grazie a corrette intenzioni ed opportune provvidenze. Valga per tutti l’esempio delle modalità preventive relative alla sicurezza sia del pubblico che dei performers: un discreto ma attento servizio di sorveglianza controlla gli accessi agli spazi della festa. Presumibilmente anche altre azioni vengono predisposte ed un servizio centralizzato coordina tutti gli addetti a questo particolare compito finalizzato ad evitare incidenti. Questi ultimi potrebbero rendere vani una volta per sempre tutti gli sforzi sinora condotti per mantenere in piedi quella che è stata definita “La risposta di Haifa”, dal titolo del film girato nel dicembre 2011 e presentato nel dicembre successivo presso il centro Beit HaGefen.


A ben vedere la sfida posta in essere si basa su una sostanziale fiducia verso gli altri, aspettandosi che questi ultimi a loro volta rispondano in modo coerente ed adeguato rispetto all’apertura di credito offerta loro. Viene di fatto rispettato il requisito di un’identità irrinunciabile. Si invoca inoltre il principio della reciprocità.


Orbene l’identità rimane un’ancora di salvezza in situazioni assai problematiche e controverse. A fronte dell’incertezza si chiede quindi almeno una base certa di appoggio della propria concezione della vita, onde tenerla ben salda a fronte di una possibile perdita dell’orientamento di fondo. La questione travalica però il semplice punto di vista personale e tocca il tema dell’integrazione, delle relazioni all’interno della collettività, dei modi di essere in pubblico, dei simboli-guida, delle definizioni delle situazioni (Thomas, Thomas 1928: 571-572) che si presentano di volta in volta.


Anche la reciprocità gioca un ruolo strategico sia nella cerchia comunitaria che in quella societaria. Di solito nell’ambito più ristretto essa si esercita abbastanza liberamente e quasi senza limite alcuno, per cui la regola del do ut des non vige affatto: nessuno pensa in genere a calcolare il dare e l’avere. Il che, al contrario, è piuttosto frequente nel contesto della società più vasta dove anche il minimo calcolo è di prassi, per stabilire ciò che ci si aspetta in risposta a quanto si è prestato.


In altre parole la scommessa dei promotori del Festival dei Festivals si fonda sulla fiducia che a lungo termine l’investimento (non solo economico) produca qualche effetto concreto in termini di riappacificazione, di comprensione, di solidarietà, di orientamento al bene pubblico, cioè a vantaggio di tutte le componenti cittadine.


In definitiva il modello della festa di dicembre tende a divenire un dato di fatto continuo per la città di Haifa, attraverso soluzioni di amicizia e fedeltà che contrastino quelle conflittuali e destabilizzanti.


Conclusione


I processi di urbanizzazione ed industrializzazione hanno fatto di Haifa una città particolarmente attraente per i flussi migratori sia dall’estero che dall’interno. Non si tratta solo di cercare lavoro in un’area potenzialmente più ricca di altre. Va aggiunto un altro fattore importante che contraddistingue Haifa: essa sta sperimentando più e meglio di altre città alcune formule di tipo meno conflittuale, tese comunque a rasserenare una cittadinanza che fino a non molto tempo fa aveva affrontato momenti assai difficili, per il continuo susseguirsi di attentati che colpivano persone inermi di diversa estrazione. La municipalità sta escogitando anche forme nuove di raccolta del consenso, che vanno oltre i riferimenti tradizionali, a livello di partiti. La scelta a favore di coalizioni politico-amministrative fra più parti è divenuta anche un esempio per la cittadinanza e per il suo agire quotidiano.


La presenza plurima di confessioni religiose di varia provenienza testimonia che in città è possibile praticare culti diversi, senza che questo crei particolari problemi. Anzi non mancano occasioni nelle quali vi è una convergenza contestuale fra gli esponenti principali dei gruppi religiosi operanti in città. In tal senso il Festival dei Festivals rappresenta un’occasione privilegiata.


Diversamente dal passato, Haifa non parrebbe correre oggi molti rischi. La sua stessa situazione socio-economica risulta salda, comparativamente, nel quadro d’insieme dello stato d’Israele. Semmai un problema è dato dall’ingente tasso di immigrazioni, specialmente dalla Russia. La città da sola non riesce ad assorbire tutti i nuovi arrivati, che vengono un po’ per volta indirizzati verso altre destinazioni nel Paese.


Sarebbe infine da considerare con una certa attenzione il carattere policentrico dell’area urbana: dal Carmelo a tutta la zona industriale ed ai vari poli abitativi che la circondano, quasi satelliti attorno ad un pianeta. Gli insediamenti sparsi lungo tutta la ripartizione comunale suggeriscono la presenza di altrettante stratificazioni economiche e culturali, di portata non trascurabile.


Per certi aspetti Haifa può essere considerata una sorta di città globale, perché al suo interno si ritrovano tante rappresentanze sia multietniche che multireligiose. Dunque anche per questo essa può assurgere ad essere un caso esemplare, a cui guardare anche da parte di altre città (non solo d’Israele), più o meno divise da motivi di conflitto e più o meno impegnate nel risolvere i problemi di una difficile coesistenza fra popolazioni eterogenee.


L’esemplarità di Haifa non è casuale. Le deriva da ragioni molteplici che prendono l’abbrivo dalla sua posizione marittima e che si rafforzano con talune esperienze storiche di resistenza ad invasori, ad occupanti, a mandatari, a colonizzatori. Può anche sembrare che i cittadini attuali di Haifa non abbiano una specifica consapevolezza di tutto l’itinerario che ha portato alla situazione urbana attuale. Nondimeno, essi nel momento stesso di scegliere di abitarla hanno manifestato di nutrire fiducia sul suo futuro.


Intanto per ora sta diventando sempre più un caso da studiare, al fine di comprendere se la risposta che essa sta tentando di dare è destinata o meno a rappresentare una best practice da imitare.                                          


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