QUALITA’ E QUANTITA’ NELLA RICERCA

Roberto Cipriani


Premessa


Il connubio tra qualità e quantità nella ricerca è inscindibile, come lo è quello fra attività investigativa ed attività formativa. Almeno in linea tendenziale questa appare la prospettiva più efficace e più efficiente.


Il probabilismo scientifico va dunque applicato in pieno anche a fronte di soluzioni che sulla carta sembrano vincenti di per sé. Detto altrimenti se nel passato pareva indefettibile il fondamento numerico come prova convincente ora si è puntato sulla qualità come chiave di lettura legittimante. Dunque sembrano non più vincenti le opzioni esclusivistiche, giacché l’approccio multimetodo pare offrire interpretazioni meno estemporanee, meno soggettivistiche, meno ideologicamente orientate.


L’argomento qui in discussione non è di poco conto. Esso è alla base di significativi sviluppi nel campo universitario della conoscenza scientifica, della formazione delle nuove generazioni e della preparazione di docenti, educatori ed operatori sociali.


In realtà non vi è soluzione di continuità fra chi è dedito allo studio ed all’indagine, nonché all’insegnamento, e chi invece si dedica ad un agire più concreto, più applicativo, più implementativo. Insomma il filosofo ed il facchino si trovano entrambi sullo stesso terreno, nella società cui appartengono.


Non è un caso che varie associazioni scientifiche a livello sia nazionale che internazionale annoverino fra i loro soci non solo gli scienziati di un particolare settore disciplinare ma anche i professionisti attivi sul territorio. In tal modo si instaura un circolo virtuoso fra pensiero ad azione, tra riflessione astratta ed applicazione pratica, fra approccio intellettuale ed agire fattuale.


Il ruolo delle associazioni scientifiche


Nel passato le associazioni scientifiche hanno assunto di necessità un carattere corporativo, difensivo delle peculiarità insite in una specifica materia. Soprattutto le scienze nuove, non tradizionalmente riconosciute, hanno fatto fatica ad affermarsi, fino ad ottenere la loro piena legittimazione con il loro ingresso nel novero degli insegnamenti accademici, con cattedre di ruolo e non più con insegnamenti solo facoltativi, provvisori, affidati con incarichi di breve durata, ad tempus.


L’impegno in tal senso è stato predominane, fino a mettere in subordine le questioni di maggior momento, quali gli aspetti metodologici, le problematiche procedurali, i paradigmi, i modelli, le scelte teoriche. Così sono state dedicate risorse importanti per difendere l’autonomia, l’indipendenza della propria collocazione accademica, trascurando pertanto altre finalità, fra cui le sfide sul piano dell’affidabilità, della correttezza, della fondatezza dei risultati acquisiti.


Ma soprattutto è mancato l’afflato del confronto libero, scevro da mere intenzionalità di conquista, colonizzazione e difesa delle postazioni raggiunte.


Risulta pertanto salutare un confronto a tutto campo come quello proposto della Società Italiana per la Ricerca Educativa e Formativa, che invita allo stesso tavolo pedagogisti e sociologi, fisici ed economisti, filosofi ed altri studiosi specialisti nell’ambito delle risorse umane.


Il dibattito si presenta non agevole, come tra soggetti che si incontrano per la prima volta e che non si conoscono ancora reciprocamente, con tutti i malintesi, i difetti di comunicazione, le imprecisioni di vocabolario, le inadeguatezze di un linguaggio comune ancora quasi tutto da costruire.


E nondimeno l’esperienza vale la pena di essere vissuta. In fondo, mantenendo la stessa metafora smithiana del filosofo e del facchino, è evidente che il filosofo resta tale se ha a che fare con Platone e con Kant ma, absit iniuria verbis, si trova ad essere un facchino se affronta temi per lui non abituali quali la gestione di sistemi complessi o l’analisi di dinamiche relative a macrosistemi economici. Ma ovviamente la posizione è reversibile e dunque applicabile anche nel caso in cui un fisico debba affrontare, per esempio, il significato del concetto di alétheia nei frammenti presocratici raccolti meritoriamente da Diels. Eppure sia nell’uno come nell’altro caso l’oggetto dell’analisi è quello, in fondo, della verità, o almeno della verosimiglianza.


Orbene se è difficile contestare che la scienza, la conoscenza scientifica, si fonda su criteri comuni che presiedono ogni operazione analitica nondimeno il percorso verso una comune piattaforma di strumenti investigativi è ancora costellato di difficoltà non facilmente valicabili. Né va dimenticato il peso che peraltro esercita il riferimento personale dello scienziato a pregiudizi preesistenti, che talora impediscono un’adeguata disponibilità a tener conto di posizioni diverse dalla propria, magari facendo valere aspetti caratteriali, eventi interpersonali pregressi, motivazioni dovute a fattori extrascientifici, emotivi, derivanti da antipatie e simpatie consolidate.


La frequentazione di gruppi realmente interdisciplinari e ricettivi nei riguardi di proposte alternative favorisce certamente una sempre più accurata conoscenza reciproca, base preliminare per qualsiasi interazione effettivamente utile per il progresso della scienza. Ecco perché se è opportuno allargare l’orizzonte della prospettiva pluridisciplinare è anche da considerare la convenienza di una stabilizzazione del gruppo di interlocutori, sia per non dover ricominciare ogni volta ex novo sia per procedere in forma soddisfacente verso obiettivi comuni, tali da offrire a tutti i partecipanti un forte senso di appartenenza e dunque di condivisione delle operazioni messe in campo.


Ricerca e formazione


L’organizzazione dell’università italiana in facoltà e dipartimenti, con la sopravvivenza – per di più – dei vecchi istituti universitari, sta dando i suoi frutti ben visibili: uno spostamento sbilanciante, volto quasi tutto a favore della didattica ed a detrimento della ricerca. In tal maniera,  riducendo l’apporto degli esiti investigativi, gli stessi contenuti dell’attività formativa ne risentono perché rimangono al livello del già noto, pubblicato, risaputo. Vengono invece penalizzati i nuovo dati, le ulteriori conoscenze, le interpretazioni innovative. L’estensione dello spazio-tempo da dedicare alla didattica, da sessanta a centoventi ore annuali (ma, spesso, anche di più), comporta un dispendio di energie che vengono di fatto sottratte alla dimensione peculiare del lavoro empirico sul campo, degli approfondimenti in biblioteca, delle inchieste mirate. Insomma lo scienziato è spinto sempre più verso la prestazione d’opera a carattere divulgativo ma rischia in tal modo di esaurire le sue scorte conoscitive, costretto com’è a ripetersi su quanto già da lui posseduto in termini obsoleti. Non vi è chi non veda nelle prevaricazioni delle facoltà sui dipartimenti un chiaro segnale di ribaltamento del rapporto fra didattica e ricerca: ormai si tende a fare più didattica che ricerca, più esami che studi, più operazioni burocratiche che iniziative di lavoro scientifico. Anche la cooperazione di gruppo fra studiosi ne risente: le aggregazioni si creano ad hoc, su progetti provvisori, per finalità contingenti, senza programmazioni a lunga gittata. La precarietà del ruolo dell’intellettuale è anche la precarietà delle sue potenzialità umane, a livello di tempo e risorse. Va comunque tenuto presente che ci sono soggetti più portati a svolgere funzioni didattiche mentre altri preferirebbero svolgere solo ricerche. In Francia, per esempio, le due figure sono separate: si può far carriera nelle università, dunque immaginando che prevalga il ruolo di docente, oppure nel C.N.R.S., cioè nel Conseil National de la Recherche Scientifique, con impegno esclusivo nell’ambito dell’investigazione (il che però non impedisce di fornire anche prestazioni di insegnamento universitario).


Da noi, in Italia, le due funzioni sono esercitabili insieme nel contesto accademico e in quello extraccademico. Il problema sorge nel trovare un corretto equilibrio fra i due momenti, senza che nessuno dei due ne scapiti. Non a caso è previsto l’anno sabbatico, da usare per ragioni esclusive di ricerca. Ma il ricorso a tale possibilità offerta dalla normativa vigente, pur essendo un diritto, non è frequente, anche perché il docente congedando deve indicare un suo sostituto, non sempre facilmente rinvenibile, per il periodo di assenza. Allora sono numerosi coloro che non hanno mai usufruito di un anno sabbatico per ogni sette anni di attività continua di insegnamento: il timore diffuso è, probabilmente, relativo al fatto che l’allontanamento dal posto di lavoro rappresenti anche una perdita di controllo dell’ambiente universitario, cioè con il rischio di lasciare campo libero ad altri colleghi di gestire risorse, decidere sulla programmazione, cogliere le occasioni di finanziamento, seguire da vicino le dinamiche politico-culturali degli schieramenti e delle condotte, specialmente in vista di scadenze strategiche legate ai rinnovi delle cariche più prestigiose (rettore, preside, direttore, presidente, ecc.). In pari tempo non si può trascurare il dato inequivocabile di una ripartizione di una risorsa scarsa come il tempo in gran misura eroso da incombenze di ordine vario, dai consigli alle commissioni, dagli esami ai ricevimenti, dalle immissioni di dati alla compilazione di schede e verbali.


Quale scenario per il futuro?


Alcuni segnali anticipatori di un possibile futuro anche italiano (ed europeo) provengono d’oltre Manica, dalla Gran Bretagna, dove sono in atto misure restrittive per i docenti e per la ricerca. Innanzitutto sono avvenuti licenziamenti dei professori universitari, a seguito della chiusura di alcune strutture. In altri casi gli stipendi sono stati ridotti (del 20% od anche più).


D’altra parte sin dal 2004 il governo Blair ha aumentato, a partire dall’anno accademico 2006-2007, le tasse annuali di iscrizione all’università, portandole da 1000 sterline a 3000 (od anche più per il prosieguo).


Nel frattempo il potere d’acquisto dei salari percepiti dagli accademici è diminuito del 40% a confronto di categorie professionali affini.


Un miglioramento degli stipendi è stato promesso in rapporto all’andamento delle iscrizioni universitarie. Se queste aumenteranno in misura adeguata un terzo dei proventi andrà a vantaggio dei docenti salariati, con un’offerta da parte dei rettori che raggiunge, in tre anni e mezzo, il 12%. Il  che nella sua consistenza copre appena l’entità della svalutazione in atto, attestata attorno al 3% annuo. Ed intanto permarrebbe la sperequazione fra lo stipendio rettorale, di circa 200.000 sterline annue, e quello professorale, di circa 35.000 sterline lorde annue.


Lo slittamento atteso per gli anni futuri è un sostanzioso aumento delle tasse universitarie, più che triplicate, con un adeguamento dei salari dei docenti neppure in grado di restare alla pari dell’inflazione, con una possibile riduzione della durata degli studi universitari (forse da tre a due anni per il titolo di laurea), con una attribuzione della facoltà di far parte delle commissioni di esami universitari anche a soggetti non in organico nelle università (dottorandi, borsisti, contrattisti, ecc.), ed infine con un ricorso a prove facilitate di esame (magari con voti “politici” e risultati positivi assicurati).


Ma quello che fa maggiormente problema è la propensione a separare la docenza dalla ricerca: si pensa ad un impegno docente a tempo completo. Di conseguenza è possibile svolgere ricerche solo in presenza di finanziamenti provenienti dall’esterno delle università. Con tali risorse è finanziabile indirettamente l’attività di studio del personale docente in organico, che risulterebbe sgravato, almeno parzialmente, del suo carico didattico, affidato invece a soggetti esterni, retribuiti con i fondi in realtà destinati a sovvenzionare la ricerca.


Ecco dunque che le sorti della scienza rimarrebbero affidate all’estemporaneità ad alla casualità dei contributi finanziari extrauniversitari. In caso poi di assenza totale (o quasi) di tali forme di supporto è immaginabile che nessun docente farà più ricerca e dunque si troverà a rendere sempre meno aggiornati i contenuti della propria didattica.


A soffrirne saranno soprattutto le discipline non foraggiate a livello extraccademico, in quanto non direttamente connesse ad operazioni profit oriented. Chi può avere infatti interesse economico a sostenere approfondimenti relativi alla filologia romanza o alla storia bizantina? E dunque queste e molte altre discipline dovrebbero scomparire del tutto e non avere più alcun cultore, una volta ritiratisi dall’insegnamento gli attuali docenti? E quali prospettive rimangono per gli attuali giovani studiosi di dette discipline?


Si profila così una fenomenologia di low cost anche per le università. Infatti è già stata coniata l’espressione Ryanair universities per indicare gli atenei in cui tutto è ridotto all’indispensabile, la ricerca è bandita, i docenti si limitano ad insegnare, magari on line, a distanza, senza mai incontrare i loro allievi, ricorrendo a formule tipo powerpoint dove tutto è reso omogeneo, non individualizzato, generico, pronto all’uso (e getta…), sin troppo essenziale. In definitiva l’azione del professore si ridurrebbe a quella di esaminatore veloce, persino con letture ottiche di questionari somministrati a tappeto e senza tenere conto delle diverse esigenze degli allievi.


Didattica senza ricerca?


L’avvio di una procedura nazionale per la valutazione della ricerca scientifica è senza dubbio un significativo passo in avanti rispetto al passato, anche se molti aspetti sono suscettibili di cambiamenti migliorativi. In effetti il processo avviato dal Comitato d’Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (C.I.V.R.) è un incipit meritevole di grande attenzione. Ma proprio per questo qualche ulteriore precauzione è necessaria.


Non si può presumere che un docente produca ogni anno un lavoro degno e meritevole. È vero che il CIVR opera attraverso una selezione dei prodotti migliori già operata in ogni ateneo. Ma l’effetto, neppure molto indiretto, è che ogni professore universitario è sottoposto a verifica per la sua produttività scientifica annuale. Orbene in alcuni settori, per talune materie, l’indagine arriva a prolungarsi per anni prima di giungere ad esiti pubblicabili, sottoponibili al giudizio della comunità scientifica (si pensi ad esempio ad uno scavo archeologico che arriva a durare decenni prima di approdare a ritrovamenti rilevanti). E c’è poi il caso, non infrequente, di una indagine che non porta alcun risultato, anzi il cui esito reale è appunto l’assenza di novità. La ricerca pura è soggetta a questo genere di conclusioni non innovative, che nulla aggiungono al know how esistente. C’è forse da condannare un tentativo scientifico non riuscito? La ricerca, del resto, non può non essere libera ed indirizzata in tutte le direzioni possibili.


Che dire poi di ostacoli obiettivi che impediscono ad un accademico di pensare in misura primaria alle operazioni di studio e ricerca? Egli può trovarsi a dirigere una struttura universitaria, a presiedere un’associazione scientifica, a svolgere una intensa attività di fund raising, a cercare interazioni indispensabili con gli enti territoriali pubblici e privati. Come può nel contempo svolgere altresì indagini sul campo o in laboratorio? Del resto non vi è neanche l’esonero dall’insegnamento, in quanto le figure che ricoprono ruoli istituzionali sono tenute ad adempiere in pieno ai loro compiti didattici, senza subappaltarli ad altri.


L’obiettivo non può non essere dunque quello di una integrazione completa fra insegnamento e studio, fra attività formativa e ricerca. Vanno dunque reperite le risorse almeno di base per consentire a tutti gli accademici di assolvere ed onorare in pieno il loro insieme di diritti e doveri.


È vero che il privato non sostiene abbastanza nel nostro paese la ricerca effettuata a livello universitario, ma è altresì vero che neppure lo stato onora il suo impegno a tal proposito più volte conclamato. In effetti da oltre un decennio non si registra in Italia alcuna crescita del tasso percentuale di investimento sulla ricerca rispetto al totale del Prodotto Interno Lordo. Si è fermi da tempo attorno alla percentuale dell’1%, mentre in Germania si registra il 2,5%.


In definitiva per la formazione del capitale umano un’adeguata azione nel campo della ricerca è irrinunciabile, pena l’inefficacia della formazione, l’obsolescenza del sapere, l’impossibilità per le future generazioni di disporre di conoscenze aggiornate, di saperi utili, di capacità critiche, di potenziali analitici debitamente problematici ed orientati piuttosto verso l’innovazione che non verso la mera conservazione e ripetizione dell’esistente. Ne va del futuro del nostro paese. La knowledge society richiede capacità sempre più raffinate e consapevoli, per evitare tracolli collettivi ed individuali, addebitabili ad insipienza programmatica ed a carenze previsionali di fondo.