FERRAROTTI OVVERO LA SOCIOLOGIA IN ITALIA

Roberto Cipriani

In Italia dire Ferrarotti significa anche dire sociologia. Così è stato a partire dagli anni sessanta e settanta. Poi molti altri hanno messo in piedi la sociologia italiana e l’hanno diffusa nelle università e nelle amministrazioni, in campo politico e sindacale, nel mondo del lavoro e del diritto, nei mass media e nei sistemi formativi, nei servizi territoriali e nelle strutture religiose. Dalla fondazione della prima facoltà di sociologia a Trento (cui Ferrarotti contribuì) fino ad oggi alcune decine di migliaia di studenti si sono laureati in sociologia nel nostro Paese, al ritmo di oltre mille ogni anno. Diversamente dagli psicologi e dagli assistenti sociali i sociologi non hanno un albo professionale, ma sono tre le loro associazioni di categoria che si contendono iscritti e presenze territoriali, con la costituzione di sezioni regionali e locali: l’AISP (Associazione Italiana di Sociologia Professionale), l’ANS (Associazione Nazionale Sociologi) e la SOIS (Società Italiana di Sociologia). I sociologi accademici hanno invece fondato, più di venti anni fa, l’AIS (Associazione Italiana di Sociologia), che conta quasi mille iscritti fra professori ordinari, associati, ricercatori, contrattisti, assegnisti, borsisti, dottori di ricerca, dottorandi.

Tutto questo è anche frutto della decisiva azione iniziale di Franco Ferrarotti (che oggi ha settantotto anni molto ben portati), un piemontese nato a Palazzolo Vercellese, ma la cui famiglia è originaria di Robella; giocando, come al solito, sul significato e sul suono delle parole Ferrarotti non si lascia sfuggire neppure questo particolare per trarne spunto ai fini di un’autodefinizione come soggetto un po’ ribelle, non facilmente addomesticabile a partiti e forme associative (per esempio non ha mai voluto aderire all’Associazione Italiana di Sociologia, nonostante l’insistenza premurosa di qualche collega che non riusciva ad immaginare un sodalizio professionale di sociologi universitari senza la sua presenza).

La lista delle sue pubblicazioni è lunghissima e comprende più di cinquemila titoli fra libri, saggi su riviste, recensioni, articoli ed interviste su periodici. Abbastanza frequente è anche la sua partecipazione a trasmissioni televisive e radiofoniche. Ma la sua creatura scientifica prediletta è la rivista trimestrale La Critica Sociologica, ora giunta al numero 148 e da lui pubblicata per la prima volta nella primavera del 1967 (dopo aver fondato nel 1951 con il filosofo Abbagnano anche i Quaderni di Sociologia).

Ma chi è veramente Franco Ferrarotti, al di là della facciata accademica e della sua faccia dalla mimica enfaticamente comunicativa? Per capire il personaggio ed il suo pensiero ci aiuta molto una recente pubblicazione curata dal sociologo italo-argentino Claudio Alberto Tognonato, docente nell’università Roma Tre: si tratta di una serie di interviste protrattesi nel corso di tredici anni, dal 1990 al 2002, ed emblematicamente raccolte sotto il titolo Tornando a casa. Conversazioni con Franco Ferrarotti (Edizioni Associate Editrice Internazionale, Roma, 2003, pp. 312, 20 euro).

Effeeffe, come lo chiamavano affettuosamente i suoi collaboratori dell’Istituto di Sociologia dell’Università di Roma, ha sempre gestito la sua vita e la sua attività scientifica in maniera del tutto autonoma. La sua formazione è quella tipica di un autodidatta. Non ha fatto parte di scuole accademiche e neppure ne ha create. Nondimeno sono numerosi quelli che si sono formati alla sociologia apprendendo da lui soprattutto un accentuato orientamento critico, quasi a voler sottolineare con questo che la sociologia o è critica o non ha ragione di essere. L’atteggiamento critico dei sociologi italiani ha giocato agli inizi qualche problema all’affermarsi della loro disciplina spesso scambiata per ideologia e sbrigativamente assimilata al marxismo ed al comunismo.

Nelle conversazioni trascritte da Tognonato emerge la figura di un pensatore travagliato da dubbi ed incertezze ma anche abbastanza sicuro di sé e delle sue scelte: ha rinunciato alla politica e si è messo a fare ricerca sul campo tra i baraccati romani di cui ha raccolto le storie di vita, ha avversato le nuove tecnologie ed ha combattuto le ovvietà di molti suoi colleghi, ha messo da parte la militanza ma ha sfoggiato pure straordinarie istanze utopiche, ha criticato i papi eppure ha sostenuto la tesi di una fede religiosa (ma senza dogmi).

Ad un certo punto del libro curato da Tognonato emerge un’altra dimensione, che Ferrarotti stesso enuncia – con termini non equivocabili – come “bisogno anche della solitudine a cui io mi sono fin da giovane abituato, e che mi è sempre piaciuto molto. Il mio ideale di vita sarebbe quello dell’eremita. Raramente sono più felice di quando mi trovo totalmente solo. Per esempio in un piccolo appartamento al trentesimo piano a New York, questa è la mia idea di solitudine” (pagina 45). Ecco dunque il paradosso apparente di un uomo tanto esposto al dibattito pubblico (cui peraltro non rinuncia volentieri) ma in pari tempo desideroso di isolarsi, di starsene per conto suo a riflettere, magari sul fatto che “i grattacieli non hanno foglie”, come suona il titolo di un suo volumetto non strettamente sociologico.

La parabola esistenziale di Ferrarotti è stata rapida e tutta in salita, a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, sino ad avere il suo culmine nel 1963. Infatti egli sostiene serenamente: “se io fossi morto nel ’63 sarebbe stato perfetto perché il mio necrologio sarebbe stato rettilineo, ad un certo punto avrebbe detto: ha lasciato l’industria, ha lasciato le sue esperienze politiche, la resistenza, la guerra ecc. e giovanissimo, nel ’51, andò in America, tornato nel ’53 si mise ad insegnare sociologia, fu chiamato dall’OCSE per dirigere delle ricerche sociologiche (quindi faceva il diplomatico, era il capo divisione), poi fu eletto nel parlamento e, guarda caso, la prima cattedra di sociologia che si fece in Italia a chi si poteva dare se non a lui. Quindi era sociologo, diplomatico, membro del parlamento ed organizzatore industriale. Alla fine della III legislatura è morto. Sarebbe stato un quadro perfetto” (pagine 55 e 56). Questa capacità tutta ferrarottiana di fare ricorso all’idea di una sua ipotetica morte più di quarant’anni fa è un artificio retorico che comprova chiaramente quanto sia stato celere il suo cursus honorum, tanto da poterlo considerare già chiuso a soli trentasette anni. In verità molto altro verrà dopo, con le contestazioni studentesche della fine degli anni sessanta e poi del settantasette, che lo videro anche vittima di attacchi da parte di extraparlamentari e di autonomi, cui seppe resistere con dignità. Ma soprattutto verranno le tante ricerche sul campo e le analisi serrate della società italiana, che quasi lo riportarono alla politica (ci fu un’ipotesi di sua candidatura a sindaco di Roma, ancor prima di quella dello storico dell’arte Giulio Carlo Argan, suo collega nell’Università di Roma).

Ora Franco Ferrarotti è in pensione ed ha il titolo di professore emerito, ma continua ad insegnare nell’Università Roma Tre e soprattutto a scrivere, non certo con minor lena e con minor entusiasmo di quando pubblicò il suo primo testo a soli diciannove anni, nel 1945.