Esiliati, profughi e stranieri immigrati

Roberto Cipriani


Esiliati, profughi e stranieri immigrati


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


La condizione di esiliato o profugo o straniero immigrato è di per sé già problematica, perché non volontaria o forse non del tutto volontaria in quanto frutto di costrizione esterna ed estrema. Se poi si aggiunge la difficoltà di essere accolti in quella che è la propria patria di origine immediata (giacché vi si è nati) o più o meno remota (giacché vi sono nati o domiciliati i propri genitori, parenti e/o progenitori) allora la situazione appare quanto mai al limite delle capacità di sopportazione: non si è ben accetti nel paese di residenza ma non si è accolti in quello che di per sé dovrebbe apparire il luogo di migliore auto-collocazione desiderabile.


         Chi ha vissuto sulla propria pelle tale stato di cose è un testimone “privilegiato” di prim’ordine perché in grado di narrare eventi e percezioni, emozioni e disagi, forme di solidarietà ma anche rigetti più o meno larvati e/o più meno garbati. I vissuti degli esiliati, dei profughi e degli stranieri immigrati sono quasi sempre traumatici, né possono presentarsi diversamente, per la rottura che rappresentano con il passato e per la difficoltà di trovare un’adeguata collocazione, almeno sopportabile e sopportata – se non supportata – nel paese eletto come destinazione, naturalmente immaginabile come il più promettente per ragioni sociali e linguistiche, culturali e politiche.


         L’esiliato, il profugo o lo straniero immigrato non cerca di solito altro che qualche quota di solidarietà, fosse pure parvente, non esplicita, non operativa. A lui forse basterebbe di non essere rifiutato. Eppure i comportamenti abituali non sembrano favorire forme di condivisione, di “caricamento” delle istanze altrui. Anzi, motivi di ogni genere sono messi in campo per negare anche forme minime di attenzione: la necessità di non esporsi politicamente, le resistenze in ambito familiare, i dubbi sulla onestà e sulla lealtà delle persone da ospitare.


         L’atteggiamento tendenziale di reiezione è così diffuso che neppure arriva a distinguere fra il cosiddetto extracomunitario ed il soggetto che di fatto può essere quasi un connazionale, fosse pure per ragioni varie. Certo non si qualifica di solito uno statunitense come se fosse un extra-comunitario ma in effetti lo si tratta troppo diversamente da un marocchino o da un tunisino o da un libico o da un egiziano o da un somalo o da un etiope o da un eritreo. Versi questi ultimi le riserve, le reticenze, le resistenze sono sottili, non esplicite, ma non per questo non operanti nelle modalità concrete di interazione.


         In realtà l’esiliato o il profugo o l’immigrato giunto in Italia risulta essere un vero e proprio “straniero”, dunque soggetto alla sindrome tipica individuata e descritta compiutamente da Georg Simmel poi ed Alfred Schütz poi (cfr. Alfred Schütz, Saggi sociologici, Utet, Torino, 1979, pp. 375-403). In effetti lo straniero è “un individuo adulto del  nostro tempo e della nostra civiltà che cerca di essere accettato permanentemente o per lo meno tollerato dal gruppo in cui entra” (p. 375). Ma d’altro canto “lo straniero comincia ad interpretare il suo nuovo ambiente sociale nei termini del suo solito modo di pensare” (p. 381). Il carattere di estraneità è poi ben specificato dal fatto che “geograficamente “patria” significa un certo spazio sulla superficie della terra. Il luogo in cui mi capita di essere temporaneamente è la mia “dimora”, il luogo in cui intendo abitare è la mia “residenza”, il luogo da cui provengo e al quale voglio ritornare è la mia “patria”” (pp. 391-392).


         La riflessione di Simmel (nel saggio del 1908 dal titolo Lo straniero), cronologicamente precedente quella di Schütz, sottolinea invece il carattere piuttosto innovatore della presenza e dell’azione dello straniero, che agisce collocandosi fra i due termini opposti della distanza e della prossimità: in fondo lo straniero è un elemento del gruppo “altro” da lui e lo è a titolo pieno perché egli aiuta il gruppo “altro” stesso a definire e rafforzare la sua identità. Simmel lo chiama “nemico interno”, così come lo è un povero od un altro soggetto connotato da una qualche diversità. La coppia interno-esterno ma anche l’opposizione (proposta da Sumner) fra in group ed out group ben si addicono alla condizione del soggetto che giunge in Italia spintovi da ragioni le più diverse fra loro. Nondimeno lo straniero-profugo-esiliato-immigrato rimane colui che fa breccia nella cultura di arrivo, rendendola disomogenea, differenziandola, frammentandola.


         Il fattore solidarietà infine rappresenta per molti un punto di convergenza interculturale. Si evita così il rischio di diventare capri espiatori di conflitti interpersonali e si cercano convergenze politico-sociali su obiettivi comuni a carattere valoriale: giustizia, democrazia, partecipazione, uguaglianza, fraternità. Si intensificano dunque gli scambi, le soluzioni contrattuali, le interconnessioni di ruoli e status; si consolidano le convenienze reciproche e si contrattano le modalità più confacenti ad un’acculturazione priva di ostilità e contrapposizione. Nascono così forme durkheimiane di solidarietà organica, cui partecipano individui dotati di specializzazione professionale e culturale. Ma soprattutto si implementa una “visione reciproca”, alla maniera di Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Axel Honneth, fondata sull’amore come fiducia in sé, cioè dedizione, sul diritto come rispetto di sé, cioè moralità, ed appunto sulla solidarietà come coscienza del proprio valore, dei propri compiti e delle proprie spettanze. In tale contesto si può inquadrare infine pure la prospettiva di attenzione al soggetto diverso inteso come “altro generalizzato”, suggerita da George H. Mead. In definitiva, per dirla con Paul Ricoeur (Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993), l’altro è come un sé.


La dinamica immigratoria


            Qualche decina di anni fa in Italia si scrivevano ancora molti saggi sull’emigrazione degli italiani all’estero. Oggi ormai non si contano più libri e ricerche sull’immigrazione in Italia: una bibliografia parziale e provvisoria in proposito già annovera oltre mille titoli.


Il fenomeno sociale più macroscopico che abbia interessato l’Italia nell’ultimo scorcio del secolo scorso ed all’inizio del nuovo millennio ‑ a partire dalla fine degli anni settanta ‑ è senz’altro il massiccio arrivo di molti stranieri. È un fatto del tutto nuovo che ha trasformato il nostro paese da area di emigrazione verso l’Europa e le Americhe a territorio di immigrazione dal Nord‑Africa ma anche ‑ in misura inferiore ‑ persino dagli Stati Uniti e  dalla Germania, per non dire – più di recente – delle regioni balcaniche.


           Già al 31 dicembre 1992, secondo i dati del Ministero degli Interni, risultavano registrati come “regolari” 925.172 stranieri con un aumento del 7% rispetto al 1991, che a sua volta aveva già registrato un aumento del 10,5% rispetto al 1990.


L’84% proveniva da paesi al di fuori dell’Europa, il 71% da paesi in via di sviluppo. 95.741 giungevano dal Marocco, 62.112 dagli Stati Uniti, 50.405 dalla Tunisia, 44.155 dalle Filippine, 39.425 dalla Germania e 39.020 dalla Jugoslavia. Meno di trentamila ma più di ventimila erano quelli che venivano – nell’ordine, per numero di immigrati ‑ dall’Albania, dalla Gran Bretagna, dal Senegal, dalla Francia, dall’Egitto.


         Al 31 dicembre 1998 gli stranieri soggiornanti registrati sarebbero stati – secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno – 1.033.235.


         Più di recente, al 31 dicembre 2009 la popolazione straniera residente in Italia sarebbe ammontata ufficialmente a 4.235.059 unità, dunque con un aumento superiore al 400% nel giro di due decenni. Le presenze più numerose riguardano Rumeni (21%), Albanesi (11%), Marocchini (10,2%), Cinesi della Repubblica Popolare (4,4%), Ucraini (4,1%), Filippini (2,9%), Indiani (2,5%), Polacchi (2,5%), Moldavi (2,5%), Tunisini (2,4%), Macedoni della ex Jugoslavia (2,2%), Peruviani (2,1%), Ecuadoregni (2%). Seguono nell’ordine, con percentuali via via decrescenti gli immigrati dall’Egitto, dallo Sri Lanka, dal Bangladesh, dal Senegal, dal Pakistan, dalla Serbia, dalla Nigeria, dalla Bulgaria, dal Ghana, dal Brasile, dalla Germania, dalla Francia, dalla Bosnia-Erzegovina, dal Regno Unito, dalla Federazione Russa, dall’Algeria, dalla Repubblica Dominicana.     


Marocchini ed extracomunitari


         È da notare che il termine corrente ‑ nel linguaggio comune usato per indicare la maggior parte degli immigrati, specie se sono africani – è stato a lungo quello di “marocchini”. Ed in effetti questo corrispondeva in qualche misura alla realtà, ma accomunava troppo e non distingueva fra marocchini e tunisini, egiziani e senegalesi. Per di più vi era un sottile riferimento storico che non può sfuggire ai più anziani, testimoni dell’arrivo degli alleati in Italia ‑ nell’ultima fase della seconda guerra mondiale – accompagnati da truppe marocchine che vengono ricordate per atti di stupro specie nell’Italia meridionale e centrale. Ancor oggi rimane traccia di questo ricordo nel verbo marocchinare, che significa appunto violentare.


La dizione giuridica definisce inoltre extra‑comunitari coloro che non appartengono alle nazioni europee della Comunità Economica. Già questa condizione di essere extra, al di fuori, sembra legittimare in modo netto la differenziazione (e di fatto la superiorità dei cittadini nativi rispetto agli stranieri non appartenenti alla comunità definita implicitamente per eccellenza, quella europea). Questo eurocentrismo giuridico‑linguistico perdura e si rafforza col tempo sino ad entrare nel linguaggio comune.


Va comunque considerato che l’Italia è talora anche un paese di passaggio in attesa di trovare accoglienza altrove, specialmente in altri paesi europei o negli Stati Uniti, in Canada ed in Australia.


Per altri l’immigrazione è solo stagionale. È questo il caso dei nordafricani che raggiungono alcune zone italiane nei periodi in cui è maggiormente necessaria la manodopera per le attività agricole, specialmente per la raccolta dei prodotti nei campi.


Ad ogni buon conto bisogna tenere presente che le cifre fornite non sono che quelle ufficiali. La realtà dei fatti è molto più cospicua. Sono numerosi gli immigrati senza permesso di soggiorno o il cui permesso di soggiorno è scaduto da tempo o non è mai stato richiesto. Di conseguenza si può ipotizzare ‑ come molti specialisti propongono ‑ che la presenza straniera in Italia ammonti a ben oltre i 4.235.059 residenti (su un totale di 60.045.068, sempre al 31 dicembre 2009) ‑ con un aumento tendenziale annuo sempre più consistente (nel frattempo è molto più contenuto il movimento emigratorio degli italiani verso l’estero e dall’estero: ogni anno ne espatriano circa 50.000 ed un po’ meno rientrano, sicché si ha un sostanziale pareggio dei flussi in entrata ed uscita; peraltro è da notare che gli iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero erano, l’8 aprile 2010, 4.028.370, cioè quasi lo stesso numero degli stranieri immigrati in Italia alla data del 31 dicembre 2009).


Valori e credenze


           A parte alcune esperienze minori, territorialmente e cronologicamente circoscritte, è la prima volta che l’Italia affronta in misura così vasta ed in tempo di pace il problema socio‑antropologico dell’acculturazione, cioè dell’interazione fra culture e gruppi differenti, che però non si trovano in una condizione paritaria fra loro. In effetti la cultura del paese in cui si giunge come immigrati è sempre di fatto maggioritaria in termini numerici ed egemone a livello socio‑politico ed economico. Dunque mancherebbero i presupposti ideali di base relativi all’“agire comunicativo” prospettato da Jürgen Habermas.


La tendenza appare volta non solo al contatto fra le diverse culture ma pure alla scontro‑confronto ed al tentativo di affermare una certa superiorità di una cultura sulle altre. Un elemento emblematico è dato dall’appellativo che connota chi si trova in posizione di supposta inferiorità. Gli antichi greci e i romani chiamavano barbari gli stranieri, perché non si esprimevano correttamente e balbettavano in greco o in latino. L’arrivo a Napoli, nel 1943, delle truppe anglofone alleate portò alla diffusione, fra l’altro, dell’epiteto di “sciuscià” attribuito ai lustrascarpe, appunto shoe‑shine (boys), che si guadagnavano da vivere esercitando questo mestiere precario. Allo stesso titolo in Italia si sono chiamati per molti anni vu’ cumprà (letteralmente: vuoi comprare?) gli immigrati, specialmente nordafricani, dediti per strada alla vendita di tappeti ed accendini, fazzoletti di carta e fiori.


È evidente che lo stigma linguistico è un indicatore di tensione fra i gruppi coinvolti nella relazione sociale, che vede in questo caso una netta prevalenza della maggioranza residente sulle minoranze immigrate. Di ciò è prova anche il fatto che mentre gli italiani quasi nulla hanno preso dal vocabolario degli stranieri questi ultimi invece hanno accolto nel loro linguaggio comune diversi lemmi della lingua italiana.


       L’interscambio tendenzialmente più paritetico si registra grazie alla celebrazione di matrimoni misti, che comportano una significativa convergenza di usi e costumi, cerimonie e credenze religiose. Si hanno allora conversioni dall’una all’altra fede oppure ogni coniuge mantiene il proprio credo, le proprie abitudini alimentari, i propri orientamenti e comportamenti abituali.


Dunque l’esercizio di una reciproca influenza fra due culture è possibile. Ma lo è ancor di più fra culture di immigrati giunti in un medesimo paese, pur con diversa provenienza. Un motivo unificante può essere la stessa fede religiosa. In tal caso è indubbiamente l’islam che in Italia trova maggiori possibilità di comunicazione interetnica ed interculturale, per esempio fra marocchini ed albanesi, fra turchi e pakistani. Ma gli esiti concreti non sembrano sviluppare al massimo tali potenzialità.


Va anche detto che le culture degli immigrati subiscono trasformazioni notevoli al loro interno ed in rapporto al paese di origine. Invece la cultura italiana si modifica assai meno, per quanto portata a tener conto delle nuove presenze. Forse il tratto più caratteristico consiste proprio in questo scarto, in un tale dislivello culturale, che non facilita la sintonia fra culture, specie se profondamente diverse. Tuttavia una certa incidenza dei fenomeni immigratori è in qualche modo rilevabile, in particolare attraverso la necessità di entrare nel villaggio globale delle culture per trovarvi un’adeguata collocazione, definire la propria identità personale e nazionale, interagire con gli altri in modo corretto ed efficace, senza gaffes dovute a carenza di informazione sugli elementi peculiari della cultura altrui. Di certo vi è un incremento dei ritmi di adattamento e di integrazione, anche perché i problemi legati alla diversità non sono teorici ma concreti, non generici e futuribili ma specifici e quotidiani. E tali questioni sono molteplici per natura e complesse per articolazione interna, dunque non facilmente omologabili fra loro, né a livello economico né a livello giuridico, né in campo politico né in quello religioso.


Le differenze di cultura


Lo scontro fra culture eterogenee può anche sfociare in un successivo incontro, con soluzioni sincretistiche di adattamento reciproco. La cultura araba di più antico insediamento in Italia è quella che ha interessato la Sicilia due secoli prima e due secoli dopo l’anno mille e che raggiunse una rimarchevole simbiosi con la cultura occidentale nel periodo della cosiddetta civiltà arabo‑normanna. Qualcosa di simile riguarda oggi l’acculturazione fra pescatori nordafricani e siciliani che nel Canale di Sicilia hanno come punto di aggregazione e cooperazione il porto di Mazara del Vallo (occupato dagli Arabi già nel 327 d.C.).


In fondo in Italia non si è mai registrato un atteggiamento di netta e diffusa chiusura nei riguardi degli “altri”. Prova ne sia il fatto che le stesse leggi razziali del 17 novembre 1938, introdotte dal regime fascista ad imitazione di quello nazista, ebbero solo una parziale applicazione.


Non va poi dimenticato che l’immigrazione attuale è legata in primo luogo a ragioni di natura economica, che creano disagio nei soggetti in cerca di occupazione. In effetti la Commissione d’indagine sulla povertà e l’emarginazione scriveva, già nel suo Secondo rapporto sulla povertà in Italia, che “gli immigrati dai paesi poveri costituiscono un fenomeno relativamente nuovo per l’Italia e si presentano ‑ nonostante l’avvio di una regolamentazione giuridica ‑ tuttora come un fenomeno “magmatico”, complesso e variegato sotto vari aspetti” (pag. 89). Le difficoltà derivano dalla condizione giuridica degli immigrati, spesso non regolarizzati o irregolari del tutto, e dalla loro varietà di lingua, cultura, disponibilità finanziaria, conoscenze tecnico‑pratiche, abilità professionali.


Fra gli immigrati che riescono a trovare un’occupazione sovente le qualificazioni possedute sono di gran lunga superiori a quelle richieste dalle mansioni che vanno a svolgere. In linea di massima circa un terzo degli immigrati non europei presenti in Italia risulta regolarmente occupato. Gli altri, specie se “irregolari”, sono alla mercé dei datori di lavoro nero e della sottoccupazione.


Il problema dell’alloggio è l’aspetto di più difficile soluzione. Sul piano sanitario sono numerosi i nodi giuridici ed informativi irrisolti. A livello affettivo la perdita del legame forte con la famiglia di appartenenza mette gli immigrati in una condizione di forte subalternità rispetto a chiunque. Se poi la loro situazione non è regolarizzata sono facile oggetto di ricatto; d’altra parte anche il diritto di associazione e quello alla previdenza sociale diventano per molti quasi impraticabili.


          È raro trovare qualche specialista che si interessi di questioni mediche a carattere trans-culturale (dalla tipologia delle malattie peculiari di alcuni territori da cui provengono gli immigrati alle terapie già sperimentate nelle stesse sedi di origine e maggior diffusione delle patologie).


Magari si organizzano corsi per l’apprendimento della lingua italiana al fine di far ottenere un riconoscimento giuridico ma quasi nulla si fa per promuovere le culture degli stessi immigrati. Per non dire della mancanza di conoscenza ‑ da parte degli italiani ‑ dei fondamenti della cultura araba o di quella indiana.


Per di più ‑ come è stato scritto già più di venti anni fa al termine di un’indagine di Bonifazi (Gli italiani e l’immigrazione straniera: caratteri del fenomeno ed opinioni, Istituto di Ricerche sulla Popolazione, 1990) ‑ “Non si tratta … semplicemente di accogliere persone disposte ed interessate ad integrarsi nella società di arrivo facendone propri comportamenti e valori; si tratta, invece, di un confronto ‑ e di uno scontro ‑ con culture anche molto diverse in cui mettere in discussione anche aspetti molto radicati della nostra società” (pag. 49). Il che non è facile.


Conclusione: conflitto od assimilazione?


La Comunità Europea ha proposto provvedimenti atti a debellare alcune spinte razziste che sono emerse di recente nel vecchio continente. Qualche episodio si è verificato anche in Italia. Non è però solo con un decreto legislativo che si possa prevedere di superare i problemi connessi con la crescente immigrazione e con la conseguente interazione tra culture.


Le esperienze del passato, con i loro fallimenti, hanno mostrato che non funziona l’idea del melting pot (mescolamento generale delle culture) e che neppure può riuscire risolutiva quella più recente del salad bowl (mescolamento che però lascia separate le singole culture).


Non è discutendo a tavolino che si supera l’impasse in cui si trovano le problematiche immigratorie. È invece necessaria una vasta e prolungata fase di ricerca sul campo, per conoscere approfonditamente gli insiemi ed i dettagli delle culture coinvolte nelle dinamiche immigratorie di ciascun contesto particolare. La soggettività umana è altamente imprevedibile; lo è ancora di più quando essa si ritrova in gruppi, folle, masse. Va dunque esaminata ed attentamente considerata la situazione caso per caso ed in modo graduale.


Il multiculturalismo, fosse anche il programma di un governo assolutistico, è destinato a produrre risultati grami, senza una programmazione oculata ed a lunga gittata, ma soprattutto realmente condivisa e partecipata a livello di base, cioè degli stessi individui e gruppi interessati dagli interventi di politica sociale sulle immigrazioni.


D’altra parte il monoculturalismo non è progetto che abbia già trovato completa e perfetta implementazione, nemmeno a livello iniziale, in alcuna nazione. La realtà sociologica della nostra epoca è talmente innervata e costruita sugli scambi interculturali che la presunta autarchia monoculturale di un paese non rientra nelle ipotesi degne di attenzione scientifica.


Una cultura non può essere tenuta a freno. Essa ha una sua dinamica pervasiva che esula anche dalla volontà dei singoli. Neppure uno stato totalitario riesce a spegnere del tutto credenze e linguaggi, valori e modelli comportamentali. La storia di questo secolo ne fornisce prove lampanti.


Prima ancora di pensare a risolvere i conflitti sociali con qualche marchingegno legislativo è bene riproporre la questione del ruolo sociale del conflitto. Questo non va demonizzato. Anzi è da considerare un segnale fondamentale dell’esistenza di problemi irrisolti. E dunque va preso come un elemento persino positivo nella misura in cui aiuta a formulare diagnosi sui trends in atto e sui bisogni di una società messa alla prova da eventi nuovi e straordinari quali quelli di una immigrazione in massa.


Se sintesi culturali vi saranno queste nasceranno dagli stessi protagonisti dell’acculturazione. Pertanto il problema strategico è ancora una volta legato ai rapporti di forza fra potere e democrazia reale (o al meglio possibile). La storia, quella recentissima e quella del passato, dimostra appieno che il contrasto fra le culture è enfatizzato ed esasperato segnatamente laddove i cittadini non hanno il controllo pieno della res publica o non hanno avuto la possibilità di gestirla. È allora che i conflitti di cultura si trasformano in conflitti armati fra nazioni, talvolta anche all’interno di una medesima appartenenza etnica o religiosa.