Donne, religione e società italiana

Roberto Cipriani


Sommario


         Un significativo indicatore del rapporto intercorrente fra condizione femminile e contesto cristiano e cattolico è costituito dalla dinamica relativa al misticismo o meglio ai diversi misticismi che hanno attraversato tante generazioni di donne, assoggettate anche in questo campo al potere definitorio degli uomini (teologi, filosofi ed esponenti dell’apparato ecclesiastico).


Abstract


         A good indicator of relationship between women’s condition and Christian and Catholic context comes from dynamics concerning mysticism or different forms of mysticism that have gone through many generations of women, subjected to men’s power of definition (theologians, philosophers and people of ecclesiastical apparatus).


Donne, religione e società italiana


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


Gli indicatori più affidabili in merito alla presenza femminile nel nostro Paese si trovano nei risultati empirici delle ricerche sul campo.


Che cosa pensano, fra l’altro, delle donne consacrate alla vita religiosa gli italiani e le italiane? L’indagine nazionale su La religiosità in Italia (1), condotta nel periodo 1994-95, ha fornito risultati derivanti da un campione “ponderato” di 4500 soggetti. Essa può fornire qualche indicazione sul tema che qui ci interessa.


Le risposte alla domanda n. 274 (giudizio sulla clausura) del questionario somministrato sono state quanto mai significative. È vero che il quesito riguardava sia i religiosi che le religiose, ma si può ritenere che in buona misura i dati ottenuti siano applicabili in primo luogo alle religiose, non fosse per altro che per la loro maggiore numerosità sul territorio nazionale rispetto ai loro confratelli religiosi e dunque per la loro maggiore visibilità, che ne fa un parametro essenziale di riferimento per quanto concerne la percezione e l’immagine a livello diffuso.


Se si aggiunge poi che il connotato della clausura limitava ma anche sottolineava il carattere di separatezza e di diversità che riguarda più specificamente la condizione delle congregazioni religiose femminili si può concludere che i dati acquisiti attraverso l’inchiesta appaiono abbastanza probanti in termini di valutazione complessiva sulle monache operanti in Italia.


Appunto l’uso del sinonimo monache, rispetto al nome di suore, già segnala qualche differenza rilevante. Infatti il parlare di monache (al posto di suore) comporta di per sé – per situazione di fatto e di uso linguistico comune – un’accezione più valutativa ed in negativo per le donne votate alla professione religiosa. Ma ormai anche il termine suore, per affinità, è accompagnato da giudizi di valore non sempre neutrali, solo alcune volte positivi, generalmente sfavorevoli.


Invece in campo maschile il riferimento ai monaci, piuttosto che ai frati od ai religiosi, assume un orientamento più positivo, induce a maggior rispetto, quasi ad una separazione nel contesto delle organizzazioni religiose. Insomma i monaci sarebbero più credibili ed affidabili. Nel loro novero rientra però una miriade di profili concreti. Ed a loro vantaggio sembra prevalere comunque l’idea di persone tutte dedite al servizio divino, alla contemplazione, alla preghiera, ai lavori più umili.


Ma veniamo al contenuto preciso del quesito posto: “Qual è il suo giudizio sui religiosi e sulle religiose che vivono in clausura (cioè permanentemente chiusi in convento)?”. Era prevista una sola risposta possibile, fra quelle indicate dal questionario. Ha detto che “è la testimonianza religiosa più alta” il 16,9% degli intervistati. Il 20,4% ha ritenuto che “è una forma di testimonianza religiosa valida come le altre”. La maggioranza relativa, cioè il 44%, ha reputato che “è meglio che i religiosi vivano tra la gente”. Infine il 18,7% ha detto che “è una cosa senza senso” o ha espresso altri giudizi negativi. Solo 20 intervistati su 4500 non hanno dato alcuna risposta.


C’è dunque una chiara sollecitazione a vivere nel sociale, ad evitare l’isolamento entro ambiti ristretti. È quasi un invito a “sporcarsi le mani” con le questioni del mondo, della società, degli altri soggetti umani. Insomma la clausura ( e – si può immaginare – anche altre forme succedanee, simili o tendenzialmente affini, fra quelle relative alla vita conventuale) non sembra particolarmente apprezzata, anzi è vista come una segregazione volontaria rispetto alle questioni reali, stringenti, tipiche di chi vive nel quotidiano, cioè affrontando un’esperienza comune alla maggioranza degli individui sociali.


Considerazioni più favorevoli, si direbbe a livello elogiativo, provengono da quasi il 17% degli intervistati. Si può presumere che questo gruppo di rispondenti sia molto legato a posizioni di religione-di-chiesa, cioè ad un’osservanza ed una pratica religiosa costanti, insomma ad una linea ortodossa e ad una militanza forte e consapevole. In fondo è facile ipotizzare che questo stesso sia il bacino di provenienza della maggior parte delle vocazioni religiose.


Favorevole ma meno appassionato è il giudizio di coloro che considerano la clausura come una modalità religiosa al pari di molte altre possibili. Questo orientamento interessa il 20,4% dei casi campionati. Insomma la particolare condizione di vita claustrale, per quanto rigorosa, non comporta un aumento degli atteggiamenti favorevoli.


Non va poi trascurato il 18,7% che si mostra particolarmente ostile, giudica senza senso il tutto, esprime opinioni piuttosto sfavorevoli. Va tenuto presente che questo sottouniverso non è costituito solo da soggetti non orientati religiosamente ma anche da credenti e praticanti (magari saltuari).


In definitiva la vita monastica in generale (fatte salve le dovute eccezioni) non trova molta comprensione nel più vasto ambito sociale. Certamente questo dato di fatto può anche dipendere da una scarsa conoscenza e frequentazione da parte di soggetti ad essa esterni e che hanno poca dimestichezza con lo spirito e le problematiche dell’esperienza religiosa comunitaria, improntata a regole ben definite. I consensi, più o meno differenziati, non mancano ma non provengono da una quota rilevante della popolazione italiana. Anche forzando l’interpretazione dei dati, non più di un italiano su tre appare favorevole alla soluzione cenobitica in senso stretto.


La scelta della vita religiosa


Illuminante, a complemento e completamento di quanto detto sinora, è il dato relativo agli ostacoli che si frappongono nella scelta della vita religiosa. Anche in questo caso valgono le osservazioni di carattere generale premesse all’interpretazione dei risultati considerati sopra.


Ebbene, la domanda del questionario era così formulata: “A suo giudizio, quali sono oggi i principali ostacoli alla scelta di una vita sacerdotale o religiosa (prete, suora, frate)?”. Si potevano dare non più di due risposte. Le alternative proposte erano le seguenti: “la solitudine legata a questo tipo di vita” (che ha raccolto il 20,2% di sì), “oggi ci sono altre possibilità per fare una scelta di impegno religioso” (che ha registrato il 21,5% di consensi), “bisogna rinunciare a troppe cose” (che ha ottenuto il 26,7% di pareri favorevoli), “non potersi sposare, avere figli” (che è giunto fino al 37,4% dell’universo campionato), “è una scelta che impegna per sempre” (che ha attinto il 23,8% di intervistati consenzienti), “è la mentalità corrente che ostacola questa scelta” (che ha trovato d’accordo il 13,9% del campione), “il peso della responsabilità che la scelta comporta” (che ha fatto registrare il 18% di risposte), “il vincolo eccessivo nei confronti dei superiori” (che si è attestato sul 3,1%), “è un modo di vita retrogrado” (che ha riguardato il 5,2% degli intervistati). Hanno espresso altri giudizi 2,5 intervistati ogni 100.


Il quadro complessivo che emerge è una conferma in larga misura di quanto osservato in precedenza. Le nove motivazioni formulate nella domanda in questione hanno visto numerose adesioni, più o meno consistenti su tutta la linea. In generale l’impedimento matrimoniale sembra essere la ragione considerata come più significativa di altre, ma anche quelle relative alla rinuncia piuttosto ampia ed alla scelta definitiva e irrevocabile sembrano rilevanti, per non parlare della solitudine e della possibilità di altre opzioni religiose.


Detto altrimenti, le motivazioni per la non scelta appaiono abbastanza concrete, decisive, consapevoli. Si può immaginare che gli intervistati non solo non hanno manifestato in proprio la preferenza a favore dell’ingresso in una congregazione religiosa ma sono anche indotti a ritenere che non esistono in genere delle ragioni che inducano altri ed altre a comportarsi diversamente, in quanto gli ostacoli non appaiono facilmente sormontabili e le limitazioni sono piuttosto cospicue. È in questione principalmente la rinuncia a metter su famiglia ed a quel che ne consegue. La scelta peraltro è per la vita, per la sua intera durata, senza possibilità – si direbbe – di ritorno.


I vincoli previsti risultano non facilmente sopportabili. Sono pesanti da sostenere, specie in un’epoca come quella contemporanea, caratterizzata da larghe libertà di comportamento e da possibilità plurime di impegno religioso e non. Qualcuno degli intervistati poi preferisce esprimersi in un linguaggio che non lascia adito ad alcuna ipotesi differenziata, visto che comunque si tratta di un “modo di vita retrogrado”.


In riferimento al ruolo delle donne (e di conseguenza delle religiose) all’interno della chiesa il campione degli intervistati pensa che esse dovrebbero “contare di più” (lo dice il 47,95) o almeno “contare come oggi” (secondo il 49,3%), mentre appena il 2,7% propende per l’item “contare di meno”. E 61 intervistati non si esprimono affatto. In pratica se si tiene conto che l’universo di ricerca è composto per metà da uomini e per l’altra metà da donne è attribuibile piuttosto alle intervistate la richiesta di maggior attenzione per loro nella chiesa cattolica, mentre saranno stati in maggioranza gli uomini a ritenere che le donne dovrebbero contare come oggi.


Intrigante è da ultimo il risultato relativo al “giudizio sulla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio”. Evidentemente questa proposta concerne primariamente le religiose, che potrebbero ambire ad un ruolo pieno come ministre di Dio al servizio dei fedeli.


Intanto il 34,8% vede in modo positivo l’accesso femminile alla funzione sacerdotale. È vero che il 28,9% appare perplesso, ma ciò è forse dovuto più alla novità della proposta ed al suo carattere modificativo della realtà esistente od anche, magari, ad una mancanza di informazioni e motivazioni sufficienti per esprimere un punto di vista consapevole. D’altra parte l’atteggiamento negativo non è particolarmente diffuso, visto che arriva a non più del 31,5%, in effetti appena un intervistato su tre.


In definitiva l’inchiesta nazionale su La religiosità in Italia mette in evidenza luci ed ombre della situazione attinente alla vita religiosa, declinata essenzialmente al femminile. Nel complesso la valutazione non è del tutto positiva, salvo alcuni settori di maggiore ortodossia di chiesa. Del resto, però, la stessa ostilità dichiarata è minoritaria. Prevale invece l’atteggiamento intermedio: si può inferire che non si disprezza ma neppure si apprezza più di tanto il contributo delle donne che operano nell’ambito delle congregazioni religiose. Forse gioca in senso negativo una mancanza di comunicazione fra mondo monacale e realtà mondana, fra vita cenobitica ed esperienza sociale in senso lato.


Dunque ad alcune chiusure che provengono dal mondo religioso femminile corrispondono altrettante, se non più massicce resistenze che costellano gli orientamenti di fondo dell’universo sociale extra-monastico. Insomma c’è un corto circuito. A volte si tenta di ripararlo ma rischiando di procurare danni maggiori.


Conclusione: nascita e sviluppo del misticismo femminile


         Un significativo indicatore del rapporto intercorrente fra condizione femminile e contesto cristiano e cattolico è costituito dalla dinamica relativa al misticismo o meglio ai diversi misticismi che hanno attraversato tante generazioni di donne (2), assoggettate anche in questo campo al potere definitorio degli uomini (teologi, filosofi ed esponenti dell’apparato ecclesiastico).


         Una prima verifica si può avere a partire dalla lettura dell’opera di Egeria, scritta nel IV secolo come diario di viaggio in Terrasanta. L’autrice non si era permessa di cimentarsi in ipotesi e suggestioni relative a testi biblici: questo era compito riservato ai vescovi, ai sapienti, comunque a degli uomini. Già il suo viaggio ai luoghi santi era stato un azzardo. Non avrebbe dovuto andare  oltre, con commenti e riflessioni personali (3).


         In pratica «quelle forme di misticismo che erano compatibili con le prospettive ecclesiastiche dominanti vennero lasciate fiorire, e quelle che non lo erano vennero eliminate» (4).     


Insomma potere e conoscenza sono sempre in stretta relazione. Ed il genere fa spesso da spartiacque nell’esercizio del potere stesso anche in campo religioso e spirituale, indipendentemente dalle buone intenzioni dei soggetti coinvolti. Di conseguenza la costruzione storico-sociale del misticismo è un’operazione di tipo patriarcale, di cui le donne diffidano. Di fatto sarebbe avvenuta un’appropriazione indebita da parte degli ecclesiastici e degli accademici i quali si sarebbero impossessati strumentalmente della mistica e della spiritualità «conservando ad esse il potere ma assoggettandole ad un tornaconto maschile, oppure privandole del potere e perciò addomesticandole e femminilizzandole» (5). In tal modo tutto resta tranquillo, senza cambiamenti in campo pubblico, nella politica, cioè dove si esercita il potere reale.


Il definitiva il misticismo femminile è frutto delle contingenze storiche legate ai rapporti di genere e di potere e quindi rimane il precipitato ultimo di una costruzione sociale che va smontata punto per punto al fine di ricostruire, consapevolmente, i vari passaggi che hanno portato alla situazione presente. Per Grace M. Jantzen, in fondo, proprio il decostruire il misticismo è oggi «il compito mistico» per eccellenza (6).


Per secoli la donna ha subito mortificazioni di natura spirituale e corporale. In qualche modo le è stata negata la possibilità di esprimersi al meglio delle sue potenzialità senza sottostare a limiti imposti dall’altro e dall’alto. Ora si assiste anche ad una singolare «rivincita»: proprio le donne, a lungo tenute lontane dall’altare e dalle decisioni più importanti, si stanno riappropriando di uno spazio che è loro dovuto nella Chiesa. Ed ecco che sposando inaspettatamente anima e corpo propongono una mirabile simbiosi fra spirituale e materiale giusto in un ambito non facilmente soggetto a restrizioni di sorta, quello della preghiera. Appare dunque singolare e straordinaria insieme la «provocazione» di cinque teologhe spagnole che hanno scritto altrettanti saggi sulle possibilità offerte dal pregare con i cinque sensi del corpo, cioè udito, vista, tatto, olfatto e gusto. La felice coniugazione di elementi ascetico-contemplativi e fisico-corporali praticabili dall’orante attraverso orecchi, occhi, dita, naso e palato rende più partecipata, unica, non ripetitiva l’esperienza della preghiera. Così l’udito serve per ascoltare la parola di Dio, ma anche se stessi; l’olfatto converte la preghiera in sensazione divina e dà l’idea del profumo di Cristo nell’esistenza umana (Mt 26, 7 e Mc 14, 3); la vista richiama alla mente il valore dello sguardo femminile, di quello divino e della stessa Maria; il gusto si accompagna al vissuto della convivialità eucaristica; il tatto mette in campo le medesime sensazioni provate dalla figlia di Giario (presa per mano da Gesù ed alzatasi dal letto di morte) e dall’emorroissa che aveva toccato il Figlio dell’uomo con viva fede – dopo essere rimasta a lungo senza sperimentare alcun contatto umano, reietta com’era per il suo stato di impurità – (7).


Come si vede non solo sono delle teologhe a scrivere di questo ma anche le fenomenologie esemplarmente citate hanno come protagoniste delle donne, che dunque recuperano in pieno la loro dignità (8) e restano degne di memoria (9), sulla scorta di quanto avvenuto alla donna di Betania che infranse un vaso prezioso per versarne il profumo sul corpo del Signore, il quale nonostante lo sdegno di taluni così testimoniò il suo apprezzamento verso di lei: «in verità vi dico: ovunque sarà predicato il Vangelo nel mondo intero, si parlerà pure di quello che ella ha fatto, in memoria di lei» (Mc 14, 9).


Note


1 – Cf AA. VV., La religiosità in Italia, Mondadori, Milano 1995.


2 – Cf AA. VV., “Le donne di Dio”, Religioni e Società, XX (gennaio-aprile 2005), 6-77.


3 – Cf G. M. JANTZEN, op. cit., 76.


4 – G. M. JANTZEN, op. cit., 341.


5 – G. M. JANTZEN, op. cit., 347.


6 – G. M. JANTZEN, op. cit., 353.


7 – Cf I. GÓMEZ-ACEBO (a cura di), A. FUERTES TUYA, M. ZUBÍA GUINEA, M. NAVARRO PUERTO, T. LEÓN MARTÍN, Pregare con i sensi. L’esperienza di cinque teologhe, Paoline, Milano 2000; ed. or., Desclée de Brouwer, 1997.


8 – Cf R. SENNETT, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, il Mulino, Bologna 2009.


9 – Cf L. SCARAFFIA, G. ZARRI (a cura di), Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Laterza, Roma-Bari 2009, in particolare G. BARONE, “Società e religiosità femminile (750-1450)”, 61-113; D. RIGAUX, “La donna, la fede, l’immagine negli ultimi secoli del Medioevo”, 157-176; G. ZARRI, “Dalla profezia alla disciplina (1450-1650)”, 177-225; M. CAFFIERO, “Dall’esplosione mistica tardo-barocca all’apostolato sociale (1650-1850)”, 327-373; K. BARZMAN, “Immagini sacre e vita religiosa delle donne (1650-1850)”, 419-440; L. SCARAFFIA, “‘Il cristianesimo l’ha fatta libera, collocandola nella famiglia accanto all’uomo’ (dal 1850 alla «Mulieris Dignitatem»)”, 441-493. Cf pure C. MILITELLO, “Primavere ed inverni del femminile nella Chiesa”, in «Presbyteri», n. 8 (2009), 583-594.