IL CONTRIBUTO DI S. S. ACQUAVIVA ALLA SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

Roberto Cipriani


 1. Premessa


            Sabino Acquaviva si avvicina alla soglia degli ottant’anni con una vivacità intellettuale ed una vigoria fisica che paiono immarcescibili, quasi senza soluzione di continuità nel tempo, sin da quando agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso lo incontrai per la prima volta attraverso la lettura della sua opera più nota, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale (Acquaviva 1961) – segnalatami dagli antropologi Armando Catemario, Gualtiero Harrison e Matilde Callari Galli durante un seminario all’Università di Roma -; poi di persona per collaborare con lui, dal 1970, ad una ricerca sulla secolarizzazione in Veneto ed Abruzzo e Molise (Cipriani 1978), con la partecipazione di Antonio Grumelli, Giuseppe Bolino ed Eide Spedicato, per l’Università di Chieti, ed Italo de Sandre, Gustavo Guizzardi, Mario Santuccio e Renzo Scortegagna, per l’Università di Padova, con la preziosa consulenza di Rocco Caporale, Thomas Luckmann e Bryan Wilson; infine, ancora presso l’Università di Padova, in occasione di un concorso, la cui commissione era presieduta da Acquaviva ed in cui conseguii l’idoneità di assistente ordinario.


            Il libro sulla scomparsa del sacro divenne subito non solo un best seller ma anche un classico, insomma un punto di riferimento essenziale per ogni studio sociologico sul fenomeno religioso (e non solo in Italia). Ancora oggi vi si fa riferimento. Anzi l’espressione “eclissi del sacro” è entrata a far parte del linguaggio comune (come dimostra facilmente qualunque tipo di ricerca su Internet). E l’impact index del volume, nelle sue diverse edizioni, supera ormai le mille citazioni. Ne avevo contate 989 agli inizi del 2003.


            Nel panorama italiano alcuni dati quantitativi sui riferimenti ai sociologi italiani contemporanei lo fanno annoverare fra i tre più importanti. Del resto sin dagli inizi Acquaviva si era mostrato prolifico in fatto di pubblicazioni, tanto che Gabriel Le Bras nella sua presentazione a L’eclissi apprezzava il fatto che in un solo lustro il sociologo italiano della religione avesse già pubblicato 2 libri e 15 articoli e lo definiva senza mezzi termini filosofo e matematico, metodologo e tecnico, il cui “merito principale … è di rompere le barriere delle discipline”, combinando insieme protostoria, psicanalisi, statistica, filosofia, psicologia e storia (Acquaviva 1971a, 10).


 2. Le dinamiche de L’eclissi


             A seguito del successo della sua opera Acquaviva ebbe modo di entrare in contatto con studiosi di spicco nel campo delle scienze sociali della religione e con le sedi accademiche più prestigiose a livello internazionale: con Mircea Eliade che lo aveva invitato ad insegnare a Chicago (Fiocco 1998, 165-166), con François Houtart a Bruxelles, con Bryan Wilson ad Oxford (dove fu Visiting Fellow, nel 1975 e nel 1976, presso l’All Souls College), ma anche con Aix-en-Provence, Dublino, Bonn, Madrid, Oslo, Berlino, Zurigo.


            Tali contatti sono stati utilissimi e si sono aggiunti alla frequentazione acquaviviana del professor Agostino Faggiotto (1951-52) – uno studioso specialista del fenomeno religioso e docente a Padova nel corso di perfezionamento in Storia delle religioni (Acquaviva 1971, 247) – e della fornitissima biblioteca dell’abbazia di Praglia, a pochi chilometri da Padova. Ancora una volta dunque una biblioteca a carattere religioso, come nel caso di Franco Ferrarotti (Cipriani, Macioti 1988, 15), rappresenta un importante punto di partenza per l’approfondimento di conoscenze a valenza sociologica.


            Ma non si comprende sino in fondo il carattere dello studioso e della sua opera se prima non ci si rende conto che per Acquaviva, in realtà nient’affatto uno scientista, l’esperienza condotta (e da condurre ancora) è in primo luogo più umana che scientifica. Altrimenti non si capirebbero i suoi disparati interessi che vanno sino al cimento letterario del romanzo, alla condivisione quasi della causa corsa (Acquaviva 1987) – raro oggetto di studi sociologici italiani -, all’impegno personale e socio-politico in senso lato (oltre che scientifico) profuso nel cercare di capire gli eventi della contestazione studentesca. Egli corse peraltro grossi rischi a livello istituzionale come preside di facoltà ed a livello individuale come persona a contatto diretto con i gruppi estremisti. Non mancò peraltro chi ebbe a nutrire gravi, ma infondati sospetti (nella ricerca del “grande vecchio” ispiratore di azioni rivoluzionarie) su sue possibili connivenze, persino presumibili in base al possesso da parte sua di documenti prodotti dai contestatori e da lui raccolti per ragioni di studio. Ma in modo rocambolesco (grazie ad un giaccone dalle ampie tasche) e tipicamente acquaviviano, durante un periodo di occupazione dell’Università di Padova da parte della sinistra extraparlamentare, egli riuscì ad evitare ogni sgradita conseguenza per la sua coraggiosa presenza nella sede accademica, dove si recava anche per condurre attività empirica campo.


            Un ulteriore elemento che aiuta a capire meglio la personalità dell’intellettuale Acquaviva è la sua modalità di scrittura sociologica, non aliena da ripensamenti, autocritiche, aggiustamenti di tiro, chiarimenti successivi. Già nella seconda edizione della sua opera maggiore (Acquaviva 1966) compaiono importanti modifiche rispetto alla prima versione (Acquaviva 1961). E comunque il suo discutere sul sacro non è mai un’operazione conclusa. La sua è una riflessione aperta, mai definitiva. Anzi traspare in lui la consapevolezza che il tema è di tale portata da non potersi esaurire nell’arco di una sola vita, per quanto intensamente vissuta fra ricerche, elaborazioni statistiche ed analisi.


            Il sociologo dell’Università di Padova ha una straordinaria conoscenza della letteratura del settore, prende in esame numerose indagini, utilizza una grande varietà di dati, mette in campo una ricca documentazione di tabelle, percentuali ed incroci. Fa citazioni per nulla casuali, risale a studi locali ma significativi, come nel caso di un’indagine di Jacques Verscheure (dal 1969 al 1985 segretario generale della Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa) sulla diocesi di Lilla in Francia, i cui risultati appaiono nel 1951 sulla rivista Lumen vitae (Acquaviva 1971, 119). Poderosa è la mole di riferimenti statistici sulla religiosità nei vari paesi del mondo, ivi compresi quelli arabi per i quali cita l’opera di Jacques Berque, pubblicata nel 1960 presso Seuil a Parigi col titolo Les Arabes d’hier à demain (Acquaviva 1971, 143). E non trascura neanche le tesi di laurea, come nel caso di Paolo de Sandre, laureatosi a Ca’ Foscari a Venezia nel 1963, con un lavoro sul metodo statistico socio-religioso (Acquaviva 1971, 147).


            Nell’opera su L’eclissi si possono pure rintracciare prodromi che verranno sviluppati solo successivamente. Si veda, ad esempio, il dotto rinvio ad Andrea Vesalio ed al suo De Humani corporis fabrica, pubblicato a Basilea nel 1543 (Acquavia 1971, 172). Una citazione del genere non può non essere collegata allo studio posteriore dal titolo In principio era il corpo (Acquaviva 1978).


            Acquaviva non manca peraltro di rifarsi anche ad un suo diretto antagonista accademico, Silvano Burgalassi, altro pioniere della sociologia della religione in Italia. Anzi lo cita esplicitamente: “il Burgalassi, che ha una buona conoscenza delle vicende della pratica religiosa della Toscana, sembra concordare grosso modo con le nostre ipotesi circa una flessione ritardata nel tempo nella pratica religiosa” (Acquaviva 1971, 196).


            Ma quello che impressiona positivamente il lettore – soprattutto quello odierno che a distanza di tempo riesce a valutare il peso, la coerenza e la felice scelta delle citazioni e dei risultati d’indagine – è la grande mole di informazioni che Acquaviva riesce a raccogliere in tempi non facili (senza Internet) e su paesi ancora poco inclini a svolgere studi socio-religiosi, ricavandone suggestioni analitico-interpretative di prim’ordine, nonostante l’utilizzo di dati parziali e di seconda mano. Lo studioso contemporaneo apprezza soprattutto un aspetto: l’autore aggiunge ad ogni capitolo del suo libro numerosissime note, talora più di cento o quasi duecento, che costituiscono ancora oggi una formidabile banca dati per le comparazioni con ricerche successive. Tali note facevano parte di una stesura precedente, poco apprezzata da qualche studioso, forse incapace di apprezzarne il valore di studi approfonditi e meticolosi condotti a largo raggio in ogni possibile direzione: la loro parvenza di raccolta erudita e pedante è tale solo per chi non conosca bene il terreno delle ricerche sociologichesulla religione alla fine degli anni cinquanta del XX secolo.


            In Acquaviva la ricca cultura di base emerge anche da dotte epigrafi, come quella in greco – tratta da Eraclito – premessa al capitolo primo (Acquaviva 1971, 25) e quella, più che pertinente, presa da Spoon River di Edgar Lee Masters e preposta al capitolo quarto (Acquaviva 1971, 251).


            Le sue conclusioni, almeno nelle edizioni successive alla prima, sono quanto mai caute. Infatti egli aggiunge qualche interrogativo in più. Parla piuttosto di “ipotesi per una conclusione” (Acquaviva 1971, 251) e dice, a proposito dell’eclissi del sacro, che “si tratterebbe di un occultamento, e non di una crisi o di una fine” (Acquaviva 1971, 283). Soprattutto c’è “l’impossibilità di fare previsioni sicure circa il futuro sviluppo della religiosità” (Acquaviva 1971, 300).


            Nello scrivere la voce su Sabino Acquaviva nell’Encyclopedia of Religion and Society, curata da William H. Swatos per i tipi di Altamira Press nel 1998, sottolineavo debitamente – a pagina 3 – che l’ipotesi dell’eclissi del sacro era precedente di almeno un quinquennio rispetto all’idea di Harvey Cox sulla città secolare, comparsa nel 1965 in un volume dell’editore Macmillan. Ma dicevo anche che nel corso degli anni la realtà di fatto aveva indebolito la prospettiva proposta da Acquaviva, il quale tuttavia nel frattempo aveva attenuato il senso della sua lettura sociologica, sino a giungere ad un uso più limitato dell’idea di eclissi, circoscritta entro i limiti definiti solo dalla fine di un uso magico del sacro (Acquaviva, Stella 1989, 11). Insomma più che di fronte ad un processo di secolarizzazione da intendere come fine del sacro l’eclissi era da leggere come una demagizzazione, neologismo coniato appunto da Acquaviva per spiegare il suo punto di vista aggiornato.


            Vale però la pena di ricordare la singolare circostanza che contribuì, almeno in parte, a fare del libro sull’eclissi del sacro un testo di largo successo. Fu una recensione piuttosto dura e poco circostanziata pubblicata su L’Osservatore Romano del 22 aprile 1961 a firma di S. M., cioè Serafino Maierotto (Acquaviva, Guizzardi 1971, 117-119), uno studioso di buona levatura ma certamente poco esperto di sociologia e soprattutto non propenso a distinguere fra dato scientifico ed implicazioni confessionali. Insomma l’attacco del giornale vaticano all’opera di Acquaviva ebbe l’effetto perverso di accrescere la curiosità sui contenuti del libro, che in molti corsero ad acquistare, soprattutto in ambiente cattolico, per potere conoscere quanto di sconvolgente avesse detto il sociologo dell’Università di Padova.


            Gli anni sessanta e settanta del secolo scorso trovano Acquaviva impegnato su più fronti: in campo associativo-scientifico è eletto presidente della Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa, dal 1969 al 1971; in campo editoriale vede la traduzione – in tedesco nel 1964, in francese nel 1967, in spagnolo nel 1972 ed in inglese nel 1979 – della sua opera principale sull’eclissi del sacro ed inoltre raccoglie e pubblica in volume numerosi interventi – fra gli altri, di Carlo Falconi, Paolo Brezzi, Vincenzo Tomeo, Jean Chelini, Gabriel Le Bras, Franco Demarchi, François-André Isambert, Henri Desroche, Franco Crespi, Jean-Pierre Deconchy, Emile Pin, Giuseppe De Rosa, Silvano Burgalassi, Gian Enrico Rusconi – relativi al dibattito suscitato dalle sue ipotesi (Acquaviva, Guizzardi 1971) e vari saggi di eminenti autori (fra cui Robert N. Bellah, Bryan R. Wilson, Peter L. Berger, Thomas Luckmann, David Martin, Dietrich Bonhoeffer, Harvey Cox, John A. T. Robinson, William Hamilton, Giulio Girardi, Edward Schillebeecks) sul tema della secolarizzazione (Acquaviva, Guizzardi 1979); in campo convegnistico organizza a Venezia nell’estate del 1979, presso la Fondazione Cini all’Isola di San Giorgio, la quindicesima Conferenza Internazionale di Sociologia Religiosa, sul tema “Religione e Politica”, riscuotendo vivi apprezzamenti per la straordinaria riuscita dell’incontro, sia in relazione al numero dei partecipanti sia in considerazione della qualità del dibattito scientifico svoltosi (con ampia eco sulla stampa quotidiana italiana, poco adusa in precedenza ad affrontare argomenti socio-religiosi). Si tratta di un periodo fecondo che promuove la nascita di una sorta di scuola patavina di sociologia della religione, con Gustavo Guizzardi, Enzo Pace (poi divenuto presidente della Società Internazionale di Sociologia della Religione, dal 2003) ed Italo de Sandre dapprima e poi Renato Stella, Stefano Allievi, Renzo Guolo.


            In realtà i suoi allievi non appaiono del tutto corrivi con il suo pensiero, tanto che lo stesso Acquaviva nota già a proposito di Guizzardi che “la sua analisi critica è sviluppata in modo indipendente” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 8). Ulteriori differenziazioni si registreranno nel corso degli anni anche da parte degli altri discepoli.


            Invero non è facile seguire Acquaviva nelle sue evoluzioni sociologiche all’interno di un medesimo approccio oppure nei suoi diversi percorsi investigativi. Dalla lettura stessa dei suoi testi si evince un andamento sinusoidale che lo porta a fare affermazioni e poi quasi nello stesso contesto a negarle. In fondo egli si ritrova nelle stesse condizioni che in qualche modo rimprovera ai suoi critici, come nel caso emblematico del passo che segue: “In una prima fase le argomentazioni del libro che tentavano di “misurare” la crisi della pratica religiosa e l’eclissi del sacro, e mi rendo ben conto in che maniera discutibile, lacunosa, ed imprecisa, furono semplicemente negate e rifiutate. Si trattava della prima fase critica, quella del non è vero. In una seconda fase, a partire dagli anni sessanta, di fronte all’evidenza, si comincerà a sostenere che, sì, è vero, ma non conta. Ambedue le maniere di argomentare spesso salvavano, non tanto la realtà dell’esperienza religiosa, quanto la sicurezza e la stabilità psicologica di chi aveva bisogno, piuttosto che di una prospettiva autenticamente religiosa, di salvaguardare la stabilità emotiva, che normalmente deve molto ad una prospettiva religiosa” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 17-18). Ancor più illuminante, se possibile, è l’annotazione a pie’ di pagina che segue: “A onor del vero, anche se psicologicamente così motivati, i nuovi atteggiamenti culturali e ideologici hanno finito per arricchire il patrimonio interpretativo della fenomenologia religiosa e della sua dinamica. In particolare, la polemica che ha accompagnato il libro ha arricchito la mia stessa prospettiva consentendomi di esprimere dei giudizi diversi e variamente più ricchi rispetto a quelli del 1959/61. Nelle prossime pagine cercherò dunque di fare il punto della situazione, vedendo come e secondo quale linea di più efficace argomentazione il discorso sull’Eclissi del sacro nella civiltà industriale può essere rifatto, arricchito dalle polemiche di questi anni e focalizzato su una più attenta analisi di una società e ad una cultura che tanto sono mutate in solo due lustri. È sempre una crisi quella che ci sta dinanzi, ma una crisi nuova che, nel mio ottimismo di fondo, mi ostino a chiamare eclissi” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 18).


            Sagacemente Acquaviva attribuisce i suoi nuovi sviluppi agli stimoli provenienti dalle critiche ricevute, che gli consentono di chiarire la sua proposta ma di fatto anche di raddrizzare la rotta delle sue “navigazioni” sociologiche. Ed in fondo egli stesso rigetta le obiezioni altrui, non tenendone conto nella sostanza, anche se appare grato, almeno in partenza, ai suoi detrattori. Infatti egli prende nuova lena, non si abbatte affatto, torna a ribadire le sue tesi, magari le rafforza nei punti di approdo e comunque è indotto a “rifare” continuamente il suo discorso, senza mutarlo negli esiti, pur smorzando il peso di qualche affermazione e pur aggiungendo qualche aggettivo e qualche avverbio piuttosto probabilistici e meno assoluti. Ecco perché, alla fine, non può esimersi dal ribadire che “in una parola, le tesi essenziali dell’«Eclissi del sacro nella civiltà industriale» ritornano, nelle mutate condizioni, arricchite e non negate dalla nuova situazione, nella quale la crisi è chiarita nei suoi significati e nelle sue dimensioni, mentre anche il peso e le possibilità di una religiosità diversa nei suoi contenuti psicologici e culturali sono posti in nuova e chiara luce” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 53).


            Convinto com’è del suo modo di analizzare la realtà religiosa, Acquaviva concede ben poco ai suoi contraddittori ed anzi arriva persino a bollare come ideologica (Acquaviva, Stella 1989) la costruzione sociologica messa in atto da altri studiosi impegnati nel sostenere la sussistenza del fenomeno secolarizzatore. In tal modo sembra quasi sottovalutare il suo personale e non trascurabile contributo al sorgere della medesima ideologia della secolarizzazione, in Italia come altrove. Appena una traccia di dubbio affiora allorquando afferma: “so che, probabilmente, il mio discorso non ha soddisfatto nessuno” (Acquaviva, Milanesi, Grumelli, Miano, De Rosa 1971, 28).


            Acquaviva si mette dunque in questione con le parole sopra citate. In proposito ritrovo ora alcune riflessioni da me scritte qualche anno dopo e rimaste quasi certamente inedite: “La sociologia italiana della religione in quest’ultimo decennio è stata in buona misura sollecitata (e condizionata) dall’opera di Sabino S. Acquaviva L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, la cui prima edizione risale al 1961. Il volume ha suscitato in più occasioni consensi e dissensi anche violenti, questi ultimi invero più numerosi ed in genere fautori – a prescindere dalle intenzioni dei recensori – di una più ampia diffusione e lettura del testo, a tal punto che non si è molto lontani dal vero se si attribuisce una buona dose del successo del libro alla stroncatura che ne fece Serafino Maierotto su L’Osservatore Romano. A riprova dell’intensità e della vivacità del dibattito apertosi intorno al volume c’è l’antologia dal titolo Religione e irreligione nell’età postindustriale, pubblicata, nel 1971, dallo stesso Acquaviva e da Gustavo Guizzardi che hanno raccolto i testi degli interventi più significativi sulla questione. Ora la trilogia si conclude con il volume antologico, ancora a cura di Acquaviva e Guizzardi, su La secolarizzazione. In quest’ultima occasione L’Osservatore Romano è stato più benevolo nei riguardi di Acquaviva: vero è che l’estensore dell’articolo sul quotidiano ufficiale della chiesa cattolica è stavolta ben più qualificato sul piano sociologico, ma Gianfranco Morra non sembra molto avvertito dell’iter attraverso il quale il sociologo patavino è giunto alle conclusioni più recenti. Infatti se nel 1961 Acquaviva parlava di una “lunga notte” in cui non c’era molto posto per il sacro, nel 1966 (seconda edizione italiana de L’eclissi) egli rivedeva tale conclusione rendendola più problematica e meno assertoria. Nell’introdurre poi la successiva antologia-dibattito dal titolo Religione e irreligione nell’età postindustriale il sociologo patavino sostiene la comparsa di un nuovo modo di intendere Dio “insieme ad una religione secolarizzata e quindi depurata dell’uso magico del sacro” (Acquaviva, Guizzardi 1971, 53). Ma l’esito finale di questo itinerario è proprio nel saggio che introduce l’antologia sulla secolarizzazione. A proposito dell’analisi di questo fenomeno Acquaviva parla di confusione e mistificazione ed accusa esplicitamente Luckmann, l’autore de La religione invisibile, di voler offrire una prospettiva laica della trascendenza recuperando dunque dal di fuori, per così dire, una concezione tipicamente religiosa. Di rimando l’autore de L’eclissi ribadisce ulteriormente che la religione risponde ad alcuni bisogni biopsichici che nella fattispecie la teologia-sociologia della secolarizzazione avrebbe riformulato in termini religiosi, non tanto per rispettare le richieste di persone alla ricerca del soprannaturale quanto piuttosto per gratificare uomini di chiesa e teologi desiderosi di vedere comunque il “religioso” ancora operante nel quadro sociale. Non si può non essere d’accordo con questa riflessione se si considera la figura emblematica di Peter L. Berger, autore di The Sacred Canopy (Berger 1967), un teologo che si camuffa da sociologo. Ma quando Acquaviva rileva che il clero fa della politica quasi un sostituto funzionale di un Dio che non rassicura più, quando rileva che i teorici della secolarizzazione polemizzano contro la chiesa per togliere spazio all’anticlericalismo, quando rileva che il concetto di popolo di Dio è affine ad alcuni postulati del marxismo, quando rileva gli esiti dei gruppi del dissenso (recupero nella chiesa o esodo extrareligioso), è sempre legittimo il dubbio della possibilità di un ribaltamento del discorso. Ed allora l’accusa al clero politicizzato nonché all’anticlericalismo ed al marxismo è ipotizzabile come un invito non ad una fuga in avanti – come lascerebbe intendere la sottolineatura della postindustrializzazione – ma ad un ritorno al passato, cioè un rifiuto delle tesi di marca protestante solo perché non cattoliche, un disgusto per qualunque analisi condita di “salsa” marxista, una predilezione per la teologia non sociologica (che sia elitistica, non comunicabile, rigorosa nel linguaggio, intrappolata nella teoresi, lontana dalla prassi, alienata ed alienante), un rispetto dogmatico del credo fideistico avallato dall’infallibilità pontificia, la conservazione di un impegno religioso non ben definito e quindi tendenzialmente tradizionale”.


            Queste mie osservazioni che risalgono ad oltre due decenni fa risentono evidentemente della situazione contingente e del dibattito socio-culturale in corso in quel torno di tempo, tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta. Qualche espressione ha un carattere un po’ tranchant e forse andrebbe ora resa più dubitativa, anche alla luce degli sviluppi successivi. Rimane chiaro tuttavia che le tesi di Acquaviva, Luckmann e Berger non sono componibili insieme, giacché ognuna di esse rappresenta una visione peculiare della fenomenologia religiosa. Se però si vuole cogliere qualche indizio che anticipi alcune caratteristiche dell’itinerario acquaviviano negli anni posteriori almeno due segnali predittivi possono essere colti in modo preciso: innanzitutto il riferimento alla religione “depurata dell’uso magico del sacro” e pertanto secolarizzata, in crisi, in eclissi solo per tale specifico aspetto, come verrà precisato più tardi da Acquaviva stesso (Acquaviva, Stella 1989, 11); in secondo luogo l’enfatizzazione degli aspetti biopsichici che ritorneranno in modo esplicito a costituire la base di un discorso più articolato ed aggiornato (Acquaviva, Stella 1989, 18-33), dopo il bagno socio-biologico alla fine degli anni settanta. In Acquaviva la svolta successiva, a carattere appunto socio-biologico, ha inizio durante il suo soggiorno oxfordiano, quando scopre l’opera di Wilson, non Bryan (che lo aveva invitato all’All Souls College) ma Edward O. (1975).


 3. Dopo L’eclissi


            Un dato empirico risulta oggi certo: l’ipotizzata eclissi del sacro non ha avuto luogo nei termini e nei tempi ipotizzati. Al contrario nuove e più diffuse fenomenologie sacrali hanno attraversato la realtà contemporanea, sino a condizionare andamenti politici e culturali di forte impatto. Tanto è avvenuto all’interno della contestazione universitaria e studentesca italiana, come delineato da Acquaviva ne Il seme religioso della rivolta (Acquaviva 1979b) ed in Sinfonia in rosso 1977-1980 (Acquaviva 1988, 1989). Il primo testo è un volumetto a tesi discorsive (ve ne sono ben 60, a carattere soprattutto socio-psicologico ed indirizzate a non specialisti). In esso si rilevano sprazzi e spunti di ordinaria natura autoriflessiva, con accenti talora poetici che si richiamano al migliore Pasolini il quale lamentava la scomparsa delle lucciole “nei primi Anni Sessanta” (Acquaviva 1979b, 15). La metafora delle lucciole è immediatamente spiegata al lettore con la seguente considerazione: “A cavallo degli Anni Sessanta è accaduto qualcosa di irreparabile: la caduta della fede in certi valori e una profonda radicale trasformazione di altri” (Acquaviva 1979b, 16). Segue poi una constatazione intrisa di forte realismo: “Della morte, specialmente, si tace: non esiste. Nell’inefficienza o addirittura nell’assenza degli strumenti tradizionali di rassicurazione, nei quali si crede meno, o poco, o nulla, non rimane che una difesa: la rimozione di un problema che crea angoscia” (Acquaviva 1979b, 16): in fondo è la stessa angoscia che connota le ultime pagine del pluripremiato romanzo acquaviviano La ragazza del ghetto (Acquaviva 1996, 1998), ambientato a Venezia nel 1576, durante la pestilenza e con la lunga, minuziosa e coinvolgente descrizione conclusiva (quasi un esorcismo liberatorio) di una morte per annegamento.


            Ma, invero, il fulcro del discorso sulle origini religiose della rivolta prende quota a partire da un dato di fatto: “Dopo il riflusso della contestazione, la bonaccia della lotta di classe” (Acquaviva 1979b, 17). In definitiva si assiste come impotenti a “la trasformazione di questa società in un mondo infimo borghese” (Acquaviva 1979b, 19). L’autore oltre che pessimista appare quindi sconsolato. Il suo intento di fondo rimane tuttavia il voler mostrare come “l’uso magico del sacro, spesso legato alla religione popolare e pagana che – in ambito cattolico – ci sta alle spalle, si stempera al decadere delle indulgenze, dell’uso dei santuari e dei santi, dell’immagine mitica del miracolo come artefice potenziale delle grandi svolte della nostra vita” (Acquaviva 1979b, 33). Anche questo passaggio, come altri citati sopra, anticipa un più dettagliato percorso relativo alla rivisitazione dell’eclissi del sacro in chiave di “demagizzazione”, un neologismo inventato da Acquaviva per designare proprio la fine dell’uso magico del sacro (Acquaviva, Stella 1989, 11). Un simile avvio della trattazione non deve però ingannare, perché il sociologo patavino, quasi folletto dispettoso, curioso ed intelligente (e forse perciò raramente pentito) è sempre come in agguato, pronto a scagliare le frecce dal suo arco di analista speculativo della società. Del resto sono probabilmente anche le sue caratteristiche somatiche che lo aiutano – si direbbe – nello svolgimento di un simile compito di “Bastian contrario”, di scienziato sociale controcorrente, di enfant prodige ma pure irrequieto nel suo divagare per terreni non frequentati dai suoi colleghi sociologi. Ecco dunque affacciarsi un punto di vista eterodosso: “L’esistenza del Vaticano è paradossalmente elemento di più rapida trasformazione a causa della presenza in esso di elementi stranieri e quindi di una cultura internazionale che finisce per accelerare la crisi del cattolicesimo italiano” (Acquaviva 1979b, 74). Forse ancora più imprevedibile – ma non dal suo punto di vista e per chi lo conosce bene – è l’espressione seguente: “la religione sembra veramente destinata a passare dal sociale allo psicologico. Cioè il discorso religioso, abbandonando connotazioni legate alla vita comunitaria, politica, economica, viene assumendo caratteristiche psicologiche e individuali, perché questo è il “prodotto” religioso richiesto dal mercato” (Acquaviva 1979b, 114). Così di aforisma in aforisma si dipana un tessuto che rivela trama ed ordito di un disegno a lungo perseguito e che vede più concrete realizzazioni nelle opere successive.


            Specialmente in Eros, morte ed esperienza religiosa (Acquaviva 1990), che ha visto due edizioni nel giro di pochi mesi fra giugno e novembre 1990, il filo rosso della trattazione segue un tracciato più rigoroso, confortato da “brevi dialoghi o più meditate discussioni” (Acquaviva 1990, VII) con colleghi (fra gli altri, anche con chi scrive). Il volume è diviso in tre “libri”: il primo sui bisogni in relazione all’esperienza religiosa, il secondo più prettamente storico e concernente bisogni, eros, morte e religione ed il terzo relativo alla crisi religiosa contemporanea. Di particolare interesse, per la sua sintetica esemplarità è il paragrafo 3b del libro III, che presenta un modello sistemico delle relazioni fra bisogni, esperienza religiosa e società, riprendendo i numerosi fattori già delineati ne L’eclissi del sacro (Acquaviva 1981). Ma c’è da interrogarsi sulla correttezza terminologica e metodologica di Acquaviva nel momento in cui egli propone di verificare se è possibile falsificare il modello sistemico proposto. In realtà si può obiettargli che solo le ipotesi sono falsificabili, non il modello (Acquaviva 1990, 230).


            C’è poi da prendere atto che la sua base resta pur sempre psicologizzante. Il termine di riferimento principale sembra essere quello assai pertinente di William James, che definiva la religione come “massa di sentimenti trasmessi per suggestione e di atti appresi per imitazione” (James 1945, 5, citato da Acquaviva 1990, 5). Il testo di Acquaviva procede per piccoli, brevi approcci, sempre pertinenti e documentati. In effetti più si legge più si apprezza questo volume che non a caso ha riscosso un ampio successo di pubblico. Un appunto però si deve muovere all’autore: non può tirare l’acqua al suo mulino sino ad assimilare quasi del tutto le posizioni di Peter L. Berger alle sue, scrivendo (Acquaviva 1990, 38) che “la mia tesi non si discosta molto da quella di Berger che, appunto e sostanzialmente, riprende in parte alcune mie argomentazioni”. Le differenze fra i due sono marcate. E non giova a nessuno dei due appiattirsi sull’altro. Troppo distanti sono le ottiche di partenza, le esperienze di ricerca, la formazione di base, le propensioni di fondo.


            Infine, non può sfuggire al lettore attento delle opere di Acquaviva il significato allusivo dell’epigrafe preposta al libro II, che riporta un brano del Cantico dei cantici e sembra quasi rinviare al lavoro di dodici anni prima dal titolo In principio era il corpo (Acquaviva 1978). D’altra parte tutto il volume è intriso di rinvii dotti alla patrologia come alla storia.


            Sull’opera di Acquaviva Eros, morte ed esperienza religiosa si è espresso con grande acutezza ancora una volta Gianfranco Morra, in una recensione pubblicata su Il Messaggero Veneto del 28 febbraio 1991, a pagina 7: “Egli è, anzitutto, uno scienziato sociale, che sa usare metodologie critiche ed evitare ogni semplificazione. Il problema della causa e dell’origine non lo interessa, così come non interessa in genere la scienza sociale. Egli, con sottile sensibilità, analizza dei rapporti, definisce delle funzioni, formula e rafforza (non mai verifica) delle ipotesi, sempre pronto (e forse desideroso) di gettarle via per trovarne delle altre”. Questo articolo-recensione, almeno per quanto qui riportato, sembra riferirsi direttamente alla prima sezione del libro III, dove si parla, in particolare nel titolo, di “Verifica su basi empiriche e sperimentali dell’ipotesi sopra formulata” e poi alla seconda sezione del medesimo libro il cui punto 3 si intitola “Verifica dell’ipotesi formulata: il declino della religione e dell’esperienza religiosa”. Con queste dizioni sembra quasi contraddetta la lettura suggerita da Morra, ma in realtà Acquaviva stesso spiega che è ben disposto a vedere vanificare i suoi tentativi scientifici: “mi auguro che il ragionamento fatto fin qui (sostenuto dalle “pezze” d’appoggio esposte nei diversi capitoli) possa essere veramente ridotto allo schema che segue, e che si tratti insieme di uno schema che, chi vuole, può tentare di falsificare: in caso contrario si tratterebbe di un lavoro inutile. Se nessuno riuscirà in questo intento, penserò che avrò fatto un’operazione utile per la conoscenza, se invece qualcuno riuscirà – come è probabile – a falsificarlo, penserò che, almeno, avrò lavorato in termini accettabili appunto perché sarà stato possibile dimostrare che avevo torto” (Acquaviva 1990, 230-231). Si può anche legittimamente sospettare che tutto ciò non sia altro che un artificio retorico, giacché Acquaviva sarebbe perfettamente convinto dell’affidabilità della sua proposta. Così non è, invece, perché effettivamente l’autore non muove da posizioni preconcette, da pregiudizi ideologici, né appare spinto da particolari interessi confessionali o meno. Dunque è da credergli quando egli si dice disposto a vedere crollare la modalità sistemica rappresentata dal suo modellino grafico dei rapporti tra esperienza religiosa, religione, eros e morte. In definitiva Morra vede giusto quando non attribuisce ad Acquaviva intenzioni meno che scientifiche e metodologicamente corrette. Infatti il sociologo de L’eclissi sottolinea con forza: “chi tenterà di dimostrare che il mio modello è falso dovrà farlo entro le regole del gioco, senza introdurre nel discorso elementi di Sozialphilosophie, che esulano dalla metodologia empirico-sperimentale cui faccio riferimento” (Acquaviva 1990, 231).


            Qualche esemplificazione riportata nel medesimo testo laterziano del 1990 non pare appropriata: come applicare alle relazioni fra soggetti umani quanto detto a proposito del circuito di silicio? Come accettare, senza opporre resistenza alcuna, qualche passaggio di tipo luhmanniano, con tentazioni cibernetiche assai lontane dal reale comportamento degli esseri umani? Nondimeno è degna di nota la riserva mentale in merito al futuro: “non so che cosa ci attende negli anni a venire” (Acquaviva 1990, 238). Ed intanto “passerà molto tempo prima che il nuovo prenda forma” (Acquaviva 1990, 238); insomma nulla è predeterminabile ed i processi in atto sono lenti ma forieri di innovazioni. L’opera è completata infine da una vasta bibliografia con oltre mille titoli (Acquaviva 1990, 248-286).


            Nel volumetto dal titolo Progettare la felicità c’è un passo (Acquaviva 1994b, 38) che è quanto mai chiaro in merito all’evoluzione del pensiero di Acquaviva: “Per anni ho sostenuto, in parte con ragione, che la religione è in crisi, anche se, studiando e analizzando quanto accade con tecniche più raffinate, scopriamo che la religiosità è più diffusa di quanto sembra, ma spesso assume forme diverse. Tanto è vero che alla domanda classica «Lei ha mai vissuto l’esperienza di una potenza che la trascenda, la chiami Dio o no?», le risposte dovrebbero essere: sì, per chi crede, no, per chi non crede. Invece, abbiamo una elevata percentuale di non credenti, di agnostici e persino di atei, che risponde affermativamente”. In tal modo Acquaviva riconosce esplicitamente che ha avuto ragione solo in parte, perché di fatto la religione è tuttora attiva e canalizzata un po’ ovunque.


            Per lui il progetto della felicità è essenzialmente una questione politica e dunque anche personale e sociale allo stesso tempo. Ecco perché ha molto gradito che la versione tedesca del suo testo suoni nel titolo come Das Glück ein politisches Project, cioè la felicità come progetto politico. Egli pensa all’utopia come progetto sperimentabile, dunque alla felicità come esperienza praticabile al di là delle incognite che la vita riserva e dei travagli che l’esistenza comporta: “l’utopia (come progetto ideale di perfezione umana e sociale) è ineliminabile, è il costante prodotto di aspirazioni umane, anche se la sua presenza in una civiltà come la nostra non può che trasformarsi in un progetto da sperimentare” (Acquaviva 1994b, 43).


            C’è da chiedersi in proposito se la ricerca della felicità non sostituisca la religione o non sia invece soddisfatta (od anche sublimata) dalla religione. In concreto Acquaviva, alla maniera di Madison – citato in epigrafe (Acquaviva 1994b, 3) -, pensa in generale alla felicità della gente. Il libretto (tale solo per il formato ed il numero di pagine) “non vuole essere un libro nel senso classico del termine” (Acquaviva 1994b, XI) giacché, “nel suo discutere di felicità, potrà apparire troppo superficiale o troppo astruso, troppo breve o troppo lungo, eccessivamente a destra o a sinistra, troppo o troppo poco postmarxista o liberalcapitalista, neomarxista o veteromarxista, anti o filomarxista. Troppo disimpegnato dalle ideologie, dai partiti, dalle maniere tradizionali di pensare il futuro. Troppo o poco attento alle sofferenze individuali, lontano dai problemi del Terzo Mondo, noioso o costruito soltanto per interessare, esageratamente concettoso o privo di concetti, pesante o leggero” (Acquaviva 1994b, XI).


            Questo andamento per esclusioni di ogni soluzione contrapposta è un po’ un Leitmotiv dell’autore, che tenta sempre di disintossicarsi, cioè liberarsi da ogni cappa ideologica, da tutte le teorizzazioni coartanti, da qualunque peso esterno rispetto al tentativo di pensare con la sua testa per dire qualcosa di originale, anche se poi deve pagarne lo scotto, provando “rabbia” per la sua “impotenza politica e intellettuale” (Acquaviva 1994b, XII). Ritorna dunque e si conferma la logica stessa de L’eclissi, cioè un pensiero fuori del seminato noto e scontato, che vorrebbe non perdersi “nel mondo dell’ipse dixit, delle citazioni quasi umanistiche e nei dettagli” (Acquaviva 1994b, 9).


            Per Acquaviva “la felicità (o serenità) per l’umanità del nuovo millennio” (Acquaviva 1994b, 10) non si basa sulle commozioni delle rievocazioni e degli inni (Acquaviva 1994b, XII) ma sulla soddisfazione dei bisogni, organizzati dalla politica e sublimati nell’idea di un “Dio che mi ama” se non sono soddisfatti nel “mercato delle interazioni” della società. La realtà del resto offre solo pochi frammenti di felicità: c’è pure la paura di procreare.


            La spiegazione di tale situazione è data dal fatto che “la maniera di essere religiosi sta subendo una grande trasformazione: si passa (almeno in parte) da una religione dell’istituzione ad una dell’esperienza che diventa un fatto intimo, nascosto, personale, anche se questo non significa la scomparsa delle Chiese” (Acquaviva 1994b, 38). Sembra quasi di rileggere a più di novanta anni di distanza le pagine di William James (1902) che distingueva fra religione istituzionale e religione personale. Ma soprattutto conta la parte finale della citazione, dove si riconosce esplicitamente che le forme istituzionalizzate della religione sono ancora operanti (rivedendo così qualche previsione precedente in merito). In fondo esisterebbe una “duttilità religiosa della società” (Acquaviva 1994b, 40).


            Il testo acquaviviano prosegue stabilendo una connessione fra la trasformazione della religiosità e la ricerca della felicità: “nelle pieghe di questi mutamenti s’annidano l’angoscia di molti e la loro incapacità di dare un significato alla vita. Questo perché una religione così personale è più fragile, più facilmente cancellata dal processo di secolarizzazione. Se la cultura frantuma istituzioni religiose, dogmi e liturgie, rimane la tendenza, che è nella memoria della specie, a sublimare religiosamente i bisogni insoddisfatti rispondendo al desiderio frustato di vivere in eterno, di amare ed essere amati, di possedere una spiegazione sintetica e globale dell’esistenza e dell’universo” (Acquaviva 1994b, 38-39).


            Si riaffaccia qui la prospettiva socio-biologica che s’innerva, a partire dalla “memoria della specie”, sui bisogni di eternità, di amore e di significato dell’esistenza, da cui nascerebbe la sublimazione religiosa come risposta all’insoddisfazione dei bisogni stessi. Ed intanto la cultura avrebbe frantumato le istituzioni religiose, quelle medesime di cui alla pagina precedente Acquaviva ha negato la scomparsa. In pratica si ha ancora una volta un andamento a curva sinusoide, con un massimo di negazione inerente la dimensione religiosa seguito da un massimo di recupero, con un carattere periodico o quasi e tuttavia – è bene sottolinearlo – continuamente in progress, con qualche variazione non trascurabile (come per esempio il ripensamento che approda alla “demagizzazione” quale spiegazione aggiornata de L’eclissi).


            Si è già detto del carattere politico del progetto sulla felicità. La conferma viene pure da una citazione tratta da un saggio di Romano Prodi, arruolato da Acquaviva a sostegno della tesi secondo cui “la maniera di interagire degli umani è già scritta (almeno in parte) nel loro biogramma, cioè nella memoria della specie” (Acquaviva 1994b, 44); infatti secondo Prodi (1989, 97) “il punto focale […] è la costituzione specie-specifica dell’uomo: essa è provvista di una sua coerente ed indubitabile unità”. L’autore di quest’ultima citazione però non è collocabile tanto facilmente nella schiera dei socio-biologi, giacché la sua affermazione rinvia solo ad una generica unità dell’organismo umano, che non presuppone affatto un’opzione affine a quella di Acquaviva o di Edward O. Wilson.


            Potrebbe a questo punto valere la pena di citare lo stesso Acquaviva, che all’inizio del suo testo ha scritto dei “soloni delle scienze umane” che “pontificano”: “si limitano ad utilizzare un gergo sociologico che nasconde la realtà dietro una cortina fumogena. Spesso riescono a scrivere interi libri senza l’ombra di una dimostrazione di quanto affermano, se si prescinde dalla citazione di qualche anemica ricerca o di qualche studioso che, con la sua autorità, dovrebbe sostenere le loro tesi più strampalate” (Acquaviva 1994b, 6). Si potrebbe chiedere all’autore: de te fabula narratur? Ma soprattutto come conciliare il tutto con il successivo attacco critico all’ipse dixit (Acquaviva 1994b, 9)? Fino a che punto, in definitiva, Sabino Acquaviva è esentabile da qualche obiezione da lui stesso mossa ad altri?


            Nondimeno alcune sue osservazioni colgono nel segno: quando se la prende con l’anticonformismo dei rivoluzionari “impenitenti” (Acquaviva 1994b, 10), il conformismo dell’anticonformismo della “sinistra paludata” (Acquaviva 1994b, 10-11) e l’anticonformismo anticonformista dei “cattolici complessati dal marxismo” (Acquaviva 1994b, 11). Lo stesso dicasi per il fallimento di un socialismo astratto (Acquaviva 1994b, 17-22) ed incapace di comprensione (Acquaviva 1994b, 22-24).


            Che cosa rimane, per Acquaviva, dopo tutto ciò? Ecco la sua risposta: le questioni legate agli elementi fondamentali dell’amore, della vita, della morte, della violenza, del mondo e del futuro. Non a caso sono gli aspetti che attraversano il romanzo La ragazza del ghetto (Acquaviva 1996, 1998), di cui è protagonista il personaggio di Alvise, nel quale non è difficile ravvisare le stesse problematiche esistenziali vissute e discusse da Sabino Samele Acquaviva.


            Il tema della felicità è ripreso anche da Paola Maria Fiocco (1998) nella sua intervista ad Acquaviva, il quale così si esprime rispondendo ad una domanda sulla sua credenza personale: “In un certo senso credo a tutto, ho fiducia in tutti, e quindi ho la pace di chi crede, mentre non credendo a nulla si ha l’angoscia di chi non crede. Inoltre, chi è quasi panteista come me ha la possibilità di dare significato a tutto nell’universo, mentre se uno non crede a nulla ha la larghissima probabilità di non dare alcun significato a nulla” (Fiocco 1998, 110). Inoltre “la religione è soprattutto esperienza. In questo senso sì, in questo senso penso il Creatore, o meglio lo vivo” (Fiocco 1998, 121). Del resto “un’umanità senza Dio sarebbe ancor più infelice di adesso. Lo è già, perché peggiorare la situazione?” (Fiocco 1998, 174).


            In definitiva Acquaviva non sembrerebbe del tutto alieno dall’essere egli stesso coinvolto nell’esperienza della religiosità, ovviamente a suo modo. Ma dal punto di vista teorico e sociologico egli pare condividere l’impostazione di Bochenski (1968) che vede un intreccio fra sacro e secolare, fra passato, presente e futuro, raffigurando il tutto con l’intersezione di due cerchi fra loro. Tale schematizzazione grafica è tenuta presente soprattutto nel volume dal titolo Fine di un’ideologia: la secolarizzazione (Acquaviva, Stella 1989) e richiama da vicino lo schema di Victor Turner (1969), che interpone un interstizio, una liminalità fra struttura ed antistruttura. Nell’approccio di Acquaviva il sacro rappresenterebbe la struttura e dunque il passato, invece il limen sarebbe costituito dalla situazione presente nell’oggi, cioè da in intreccio fra sacro e secolare, tra passato e futuro; infine l’antistruttura sarebbe connotata dal secolare e dal futuro. Insomma la diatriba resta ancora aperta, però non si può negare, dopo tutto questo excursus, che L’eclissi è sacra ed Acquaviva è il suo profeta.


 4. Conclusione


            Acquaviva, come forse si sarà intuito da quanto detto sinora, è uno degli autori che ho letto con maggiore assiduità e con più attenta acribia. Il che non significa affatto che ne condivida i punti di vista e le escursioni in avanti o a latere. Detto altrimenti, c’è una sorta di Odi et amo di reminiscenza catulliana (dal carme 85) che caratterizza il mio approccio alla sua produzione sociologica. Ne apprezzo e ne difendo la libera espressione ma non posso allinearmi sulle sue conclusioni ed interpretazioni, poiché non condivido molto del suo pensiero. Eppure l’ho letto e riletto, gli ho “fatto le pulci” per conto mio e per conto terzi. Anche in questa occasione gli sto dicendo la mia. Perché insisto? Almeno per ora può bastare così. Ma non nego che mi piacerebbe ritornare ancora a discutere su lui e con lui: ad multos annos!


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