COSTRUIRE LA FAMIGLIA

Roberto Cipriani


Premessa


         Il Nono Rapporto 2005 del Centro Internazionale Studi Famiglia dal titolo “Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie” affronta fra l’altro i problemi legati alla necessità di conciliare lavoro e famiglia, alle politiche dei tempi lavorativi e dei tempi familiari, alla legislazione del lavoro in rapporto al sostegno delle famiglie. Sullo sfondo di tali questioni resta punto essenziale di riferimento la figura del bambino, che merita tutta l’attenzione possibile della società ed in particolare della famiglia di appartenenza. Ma proprio la costruzione della famiglia e di un certo tipo di famiglia è alla base della socializzazione primaria e dell’attività educativa. Oggi l’operazione del costruire la famiglia trova impedimenti di varia natura. Innanzitutto sono i giovani a dover rinunciare a mettere in piedi una famiglia, angustiati come sono dai problemi dell’occupazione, della sicurezza del lavoro, della casa e della sussistenza. Ed anche quando la famiglia viene di fatto costituita è in primo luogo la donna a pagare lo scotto della rinuncia alla maternità, perché impraticabile a fronte di tutta una serie di interrogativi esistenziali: il rischio di perdita del lavoro, l’impossibilità di stare dietro agli impegni, alle necessità, ai tempi ed alle emergenze di lavoro, l’inconciliabilità dei ritmi di ufficio o fabbrica con quelli domestici, familiari e genitoriali. Alla fine il tempo a disposizione delle relazioni madre-figli, padre-figli, si riduce oltre ogni limite di accettabilità, tanto da costringere a decisioni drastiche quali l’abbandono della risorsa preziosa dell’occupazione.


         Il Nono Rapporto 2005 del CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia), di cui Pierpaolo Donati è co-autore principale con altri studiosi specialisti del settore, presenta due scenari: quello lavoristico e quello sussidiario. Il primo vede la famiglia tentare delle soluzioni di convivenza con il mercato del lavoro, attraverso facilitazioni adeguate e percorsi flessibili di cui lo Stato può essere il garante nei confronti del mercato. Il secondo considera la famiglia come un capitale sociale da valorizzare e da sostenere con misure appropriate, in grado di superare le contraddizioni ed i contrasti fra mondo familiare e mondo lavorativo, grazie anche al supporto dell’intera comunità. Insomma in un caso è lo Stato a farsi carico del problema ponendosi come mediatore rispetto al mercato del lavoro, nell’altro è l’insieme della comunità a provvedere alla risoluzione dei problemi di conflitto tra famiglia e lavoro.


Dalla socializzazione primaria alla socializzazione secondaria


         La famiglia appare come un’istituzione continuamente in crisi, per diversi motivi: di lavoro, di natura economica, di conflittualità interpersonale, di affettività, di coniugalità, o di altra origine piuttosto incerta ed indecifrabile. Di tutto ciò risentono le generazioni più giovani: da quella infantile a quella adolescenziale, cioè nel periodo più delicato dell’esistenza allorquando comincia ad avere luogo l’inserimento nella società adulta. Proprio in questa lunga fase si è alla ricerca di una qualche sicurezza che abbia un carattere sia fisico che psicologico, quasi anticipando il momento successivo del reperimento di un posto di lavoro, a sua volta fonte di preoccupazioni a più livelli.


         L’ingresso in società con il passaggio all’adultità è pur sempre un evento tendenzialmente traumatico, da assorbire lentamente, con gradualità, dopo tutta una serie di esperienze negative e di desideri insoddisfatti che mettono alla prova le creature più giovani. Di fronte a situazioni irresolubili l’individuo non ancora del tutto socializzato può avere reazioni tra le più diverse: dal mettersi sotto accusa per la propria incapacità fino al rivolgere pesanti rimproveri alla famiglia di appartenenza, dal dubitare della società nel suo complesso sino al rinunciare ad ogni forma fiduciaria nei confronti di singoli individui. Sovente l’esito finale è quello di un adattamento forzato, di un ripiegamento su se stessi, di un’indifferenza nei riguardi dei problemi societari, di un auto-annientamento in forme solipsistiche auto-emarginanti.


         La persona ragazzo/ragazza si trova in balía tra la sua famiglia di origine e la comunità di appartenenza. Una sorta di bombardamento ha luogo nei suoi confronti, con la proposta sovente contrapposta di valori, di principi, di orientamenti, di modelli comportamentali. Le sue esplorazioni sono perciò lente, talora imprudenti, talora coraggiose, improvvise. Il suo processo di integrazione avanza per gradi, attraverso un “addomesticamento” mirato all’acquisizione dei sistemi di vita dominanti e delle prassi più diffuse.


         La socializzazione primaria avviene soprattutto (se non proprio esclusivamente) in famiglia, dunque da genitori a figli e figlie. I rapporti che la caratterizzano hanno un valore in sé, sono dati per scontati, appaiono di natura essenzialmente affettiva e personale ed approdano a relazioni quasi sempre solidaristiche e comprensive, cioè generose ed accoglienti.


         La socializzazione secondaria si sviluppa quasi sempre al di fuori della famiglia, per raggiungere alcuni scopi predeterminati, fissati consapevolmente dai soggetti interessati. Il tutto avviene mediante rapporti interpersonali indefiniti, impersonali e strumentali e perciò abbastanza concorrenziali e selettivi. Il che rappresenta una chiara contraddizione con la precedente socializzazione primaria.


         Quando chi non è ancora adulto affronta la problematica dell’interazione sociale tende ad entrare in angoscia, perché non conosce e non è in grado di prevedere ciò che gli sta per succedere. Grazie all’avanzamento della socializzazione secondaria si riesce tuttavia ad eludere più facilmente i problemi che emergono di volta in volta.


         Nell’ambito della socializzazione secondaria istituzioni formali come la famiglia ed informali come la moda del momento sfociano in un unico andamento che conduce ad una sempre maggiore integrazione dell’individuo nella società.


         La natura delle istituzioni di socializzazione primaria (che, secondo alcuni, comprenderebbero – oltre la famiglia – anche la scuola e la chiesa) è tale che esse non possono essere considerate strumentali, utilitaristiche: gli stretti legami con le specifiche istituzioni lo impediscono. Invece nelle modalità di socializzazione secondaria appare più evidente la natura strumentale delle forme e dei rapporti di fatto.


Le dinamiche familiari


         La prima e fondamentale forma associativa resta la famiglia. Pertanto è su quest’ultima che si concentrano le potenzialità socializzatrici ed educative. Ovviamente i contenuti e l’incidenza dell’azione di avvio all’integrazione sociale variano sensibilmente da famiglia a famiglia, da classe sociale a classe sociale: un conto è l’agire di una famiglia operaia, un altro è quello di un nucleo familiare appartenente alla classe media oppure alla borghesia medio-alta. Gli esiti delle diverse azioni risultano evidenti dagli atteggiamenti e dai comportamenti che assumono poi in concreto ragazze e ragazzi.


         In questo quadro d’insieme la presenza del matrimonio monogamico sembra favorire dinamiche più stabili ed anche più prevedibili, in pratica senza particolari sussulti (salvo alcune eccezioni particolari). La saldezza e la costanza dei rapporti intrafamiliari assicura sviluppi più regolari ed orientabili da parte degli adulti. La permanenza poi in un medesimo ambiente non fa altro che facilitare la continuità e l’efficacia dell’azione socializzatrice.


         Ben diversa sarebbe la situazione di famiglie a tempo determinato, o di matrimoni ad experimentum cioè a titolo di prova, con legami precari, provvisori, non destinati – per definizione – a saldarsi in via definitiva.


         Sia le culture esogamiche, nelle quali la propensione è di cercare moglie (o marito) al di fuori della propria comunità, sia le culture endogamiche, in cui la ricerca del coniuge si muove entro il cerchio stesso del grande gruppo sociale di appartenenza, producono effetti similari per quanto concerne l’educazione dei figli ed il loro adattamento alla società adulta.


         Anche la familia romana dell’epoca classica aveva caratteri specifici, a mezza strada fra una dimensione interna ed una esterna, quest’ultima ancora più accentuata che non nella famiglia greca della classicità. In effetti “a partire dalla civiltà greca, e poi in quella romana, la famiglia viene intesa come un aggregato naturale che coincide con la ‘casa’ (oikìa) quale doppia unione, di un uomo e una donna (con i loro figli) e tra padrone e schiavo (‘domestici’, da domus = casa, o ‘famigli’, da famuli = servi). La famiglia viene così caratterizzata come ‘la comunità costituita secondo natura per la vita di ogni giorno’ (Aristotele), come la sfera privata per eccellenza. Essa è la cellula del villaggio (o gens o tribù), il quale è retto dal più anziano dei capifamiglia; a loro volta, più villaggi, unendosi insieme, formano la città (polis). Le differenze fra la Grecia classica e Roma non sono di poco conto: nella prima la famiglia è sfera ‘privata’ (di minor valore) più di quanto non lo sia nella seconda; la cultura romana presenta una maggiore pubblicizzazione della famiglia (della famiglia Cicerone dice che è seminarium rei publicae). Ma in entrambi i casi l’autorità è patriarcale e la discendenza patrilineare (a differenza di altre popolazioni, per esempio italiche, che erano ad autorità patriarcale e discendenza patrilineare, e di cui tuttora persiste il ricordo nella sub-cultura della Grande Madre meridionale)” (Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, pag.13).


         Già nel Terzo Rapporto del CISF sulla famiglia era emersa la centralità della famiglia sia in relazione alla natura degli affetti interpersonali sia in rapporto con la dimensione societaria e comunitaria. Il fatto è che lo Stato e la società non sostengono la famiglia, non offrono servizi socio-sanitari, non consentono agevolazioni fiscali adeguate. Insomma è come se la famiglia non avesse funzioni sociali significative, non svolgesse compiti di mediazione sociale, non fosse degna di alcuna cittadinanza sociale, non potesse godere di diritti specifici (pure già presenti nel diritto romano di molti secoli fa).


         La realtà attuale ha visto sorgere nuove e promettenti iniziative che hanno a che vedere con i tentativi di superare i contrasti fra Stato e mercato mediante l’intervento del cosiddetto terzo settore (in cui la presenza cattolica non è secondaria). Le stesse famiglie si sono spesso associate territorialmente per affrontare problemi comuni e suggerire soluzioni convincenti ed efficaci. A fronte di uno Stato incapace di gestire tutto e talora troppo sensibile ed attento a sovvenzionare frange minoritarie e clientelistiche, il movimento del volontariato ha cominciato a dire parole nuove, a superare il negativismo ad ogni costo e l’immobilismo costante.


         Non è un caso che proprio il volontariato stia supportando soprattutto le famiglie, nella convinzione che un ambiente familiare preparato ed efficiente sia in grado di garantire l’accesso dei fanciulli e delle fanciulle all’esterno del nido domestico, rassicurando i più impacciati per ragioni di età, fornendo riferimenti di valore, di stile di vita, di modalità comportamentale. Si evita così il rattrappirsi delle speranze e si entra maggiormente in sintonia con il presente delle cose.


         Le famiglie riescono a dotare i più piccoli di speranze per la vita, di progetti per l’avvenire, di obiettivi da raggiungere. L’aiuto genitoriale è fondamentale in questa fase. Qui la famiglia costruisce le basi delle nuove famiglie, trasmettendo i contenuti educativi di base. In fondo ogni familiare diventa un esperto, un competente, che pur nell’asimmetria dei rapporti (da adulto ad infante o adolescente) diviene indispensabile per promuovere atteggiamenti e comportamenti che non sono affatto negoziabili: comprensione, generosità, altruismo.


La costruzione della famiglia


         Oggi più che mai la famiglia rischia di essere decostruita dalle difficoltà che insorgono nel mantenere insieme esigenze di lavoro e necessità domestiche. La sinergia tra famiglia e lavoro appare irrealizzabile. In effetti non c’è una vera e propria politica sociale per la qualità dei tempi lavorativi e di quelli familiari, in quanto è difficile mettere d’accordo gli uni con gli altri (e neppure l’organizzazione stessa della vita quotidiana lo consente).


         D’altro canto non è immaginabile che si possa fare a meno del lavoro, giacché in questo caso l’esito avrebbe conseguenze del tutto contrarie ad ogni ipotesi costruttiva della famiglia: chi è senza lavoro non si propone a cuor leggero di imbarcarsi nell’avventura familiare e tanto meno arriva a pensare di mettere al mondo figli. Così la famiglia non ha più spazio, il tasso demografico decresce, la società non si rinnova.


         La situazione più difficile è però quella della donna sola, magari non sposata o separata o divorziata o rimasta vedova, che è indotta a rinunciare alla maternità per ragioni contingenti e non certo solo a causa del lavoro. Vengono dunque meno le condizioni minimali per la costruzione di nuove famiglie.


         Nei casi in cui si riesce comunque a creare una famiglia è da considerare che ai fini di una crescita del senso di appartenenza ad essa diventano fondamentali i riti di passaggio, nella misura in cui vengano celebrati e solennizzati anche con cerimonie a carattere religioso che ne sottolineino il carattere fondante, altamente emblematico, ricco di significati vitali. In fondo è in queste occasioni che gli adulti “scoprono” l’infanzia, si rendono maggiormente conto del ruolo che attende le future generazioni, si chinano a guardare verso il mondo dei minori, evitando – per quanto possibile – ambiguità e fraintendimenti. In proposito è illuminante ed ammaestrativo il caso esemplare proposto da Jean-Paul Sartre, che nel suo L’idiota della famiglia ci presenta una situazione (non infrequente) di un ragazzo del tutto incompreso dai suoi familiari ma poi capace di muoversi ai livelli più alti in campo letterario, come appunto Gustave Flaubert.


         La famiglia peraltro se dipende dalla negoziazione fra mercato e lavoro rischia di rimanere schiacciata, debole com’è a fronte di impellenze di maggior peso. Solo un’azione di sussidiarietà comunitaria e societaria permette di valorizzare rapporti e ritmi lavorativi e familiari sino al punto da ottenere soluzioni soddisfacenti, grazie ad attori sociali impegnati e fattivi, magari legati in rete fra loro e capaci di incrementare al massimo il capitale sociale rappresentato dall’istituzione familiare.


La famiglia oggi


         Oggi la famiglia coniugale pare perdere importanza a favore di altre situazioni che sono unioni di fatto, oppure nuclei monopersonali (con un solo individuo), od ancora monogenitoriali (solo il padre o solo la madre, con figli), od invece ricostituiti dopo precedenti esperienze familiari di diverso tipo (di fatto, coniugale, monopersonale, monogenitoriale) per cui prevale la dimensione affettiva rispetto a quella della consanguineità.


         Più complessa ed articolata è la fenomenologia che riguarda un territorio molto ampio come quello cinese, dove si riscontrano famiglie estese e molteplici (ma invero tali caratteristiche stanno venendo sempre meno, anche come conseguenza della riduzione del tasso di fecondità, per imposizione governativa).


         Ben diversa è la condizione prevalente nel continente africano, dove non si registrano differenze peculiari rispetto al passato, giacché la famiglia coniugale è la modalità più presente, insieme con un alto tasso di fecondità che raggiunge la media di 6,2 figli per ogni donna. Il che è agevolato pure dalla poliginia (ovvero poligamia), che vede un uomo avere più donne.


         Indubbiamente, con l’introduzione della legge che consente, in vari Paesi, il divorzio, sono aumentate le famiglie ricostituite, nelle quali cioè uno dei due coniugi contrae un secondo matrimonio (si tratta di circa il 50% dei casi negli Stati Uniti; in Italia non si è giunti a tali livelli ma occorrerà verificare in futuro se ed in che misura un simile andamento prenderà piede anche da noi).


         Sovente il ricorso alla ricostituzione di una famiglia non deriva dalla morte di un coniuge bensì da altre ragioni e decisioni. I dati empirici mettono in evidenza che in linea di massima il secondo matrimonio tende ad essere più fragile del precedente, giacché presenta incertezza, ambiguità, indefinitezza. Incidono su tali difficoltà motivi vari: non si condivide la medesima abitazione, i cognomi dei membri della famiglia non sono i medesimi, non vi è consanguineità fra i componenti del nucleo, i modelli educativi sono diversi, la socializzazione ricevuta è differenziata sino ad apparire contrastante e conflittuale. I processi di legittimazione e di istituzionalizzazione familiare sono controversi e disomogenei, tanto da rischiare di divenire problematici al punto da sfociare in incomprensioni, mancanza di dialogo e rotture irreparabili. Per non dire degli scontri intergenerazionali, interculturali ed interconfessionali. Soprattutto tra i figli nati da matrimoni diversi scaturiscono divergenze di opinioni e comportamenti che producono esiti deleteri per il mantenimento dell’equilibrio intrafamiliare, già messo a dura prova per la sua stessa origine e composizione.


         In Italia, negli ultimi decenni la famiglia ha goduto di una maggiore stabilità nel periodo dal 1946 al 1965 ma in seguito l’andamento è stato altalenante, con perdite e recuperi in successione irregolare. Non si sono tuttavia avuti eventi eclatanti come quelli tipici degli Stati Uniti d’America che nel 1955 vedevano la durata media della famiglia attestarsi intorno ai 31 anni e poi negli anni Settanta presentavano un numero di matrimoni finiti con un divorzio superiore a quelli terminati per ragioni dei vedovanza di uno dei due coniugi.


         L’instabilità matrimoniale è pure da attribuirsi al venire meno dei vincoli di natura economica e patrimoniale, all’avanzare del processo di secolarizzazione delle società occidentali, al cospicuo ingresso delle donne nel mondo del lavoro (in precedenza tendenzialmente escluso dalle loro prospettive esistenziali ed occupazionali).


         Diversa è la situazione del mondo arabo, dove la formula del ripudio era ed è agevole in quanto è sufficiente proclamare per tre volte dinanzi a due testimoni la frase “io divorzio da te” per essere legittimati a contrarre nuovi legami. Dunque il ricorso al divorzio permane una prerogativa tipicamente maschile.


         In Europa peraltro il tasso dei divorzi è in aumento ed ha luogo in un quarto dei casi entro il quinto anno dalla celebrazione delle nozze.


         Non è poi trascurabile il dato che concerne l’immigrazione dai Paesi extraeuropei verso l’Europa: la catena familiare e parentale è certamente il fattore di maggior peso perché è in tal modo che hanno luogo scambi, forme di sostegno, azioni di protezione, iniziative di risposta ai bisogni primari della popolazione immigrata. Ogni scelta è informata soprattutto alle esigenze di carattere familiare: alloggio, alimentazione, divisione delle spese e delle risorse.


         Di solito la famiglia nucleare (padre, madre e figli) mantiene contatti e relazioni con le due famiglie di origine, cioè dei nonni (ovvero dei genitori rispettivamente del padre e della madre), in modo da utilizzare al meglio la rete delle conoscenze, il sistema delle segnalazioni (e raccomandazioni), l’insieme degli aiuti psico-affettivi e dei sostegni finanziari, l’offerta di regali e servizi (talora parte non trascurabile di un budget familiare: si pensi all’assistenza prestata gratuitamente nei confronti dei più piccoli o alla serie di piccoli e grandi doni che talora sovvengono ad una necessità impellente). Se poi la residenza delle famiglie di origine non dista molto da quella del nucleo familiare di procreazione, insomma se nonni, figlie e nipoti si vedono quasi quotidianamente, allora il quadro di interscambi è talmente cospicuo che quasi non c’è soluzione di continuità tra una famiglia e l’altra e tra una generazione e le altre.


         In verità delle relazioni di tipo parentale (con cugini e procugini, zii e prozii, nipoti e pronipoti e così via) sono soprattutto le donne ad interessarsi, quasi per tacita divisione dei compiti. Infatti ad esse tocca solitamente provvedere ad organizzare incontri e cene, gite e feste, celebrazioni e ricorrenze, scambi di donativi e cortesie reciproche. Il tutto, del resto, può anche inserirsi in una logica a larga portata, che si connette a questioni economiche, professionali, lavorative e promozionali. Però vi sono differenze sostanziali a livello di classi sociali. Se nelle classi medio-alte i genitori sono più propensi a fornire un aiuto diretto ai figli (per esempio assicurando loro l’ereditarietà di una posizione privilegiata o la successione nella proprietà di un’azienda o di beni immobili), nel caso invece delle alle altre classi si interviene a favori dei minori e dei più giovani garantendo più che altro servizi utili, a vario titolo.


         Infine “perché lo Stato non aiuta le famiglie nelle quali le madri, all’arrivo del figlio, lasciano il lavoro per far crescere il figlio? Quando il lavoro in famiglia sarà considerato anche un lavoro come un altro?”. Questi due interrogativi sono giunti su un foglietto allo scrivente, al termine del suo intervento qui trascritto. Gli interrogativi posti sono largamente condivisibili. Troveranno soddisfazione solo quando la cultura legata alla famiglia ridurrà la componente economicistica ad una semplice variabile dipendente e non la considererà più del tutto indipendente, come lo è ora, visto che gran parte della nostra esistenza è costretta a legarsi ad esigenze di natura economica: occupazione, salario, tempi lavorativi. Ed intanto i tempi familiari continuano a non essere soppesati come meriterebbero.


BIBLIOGRAFIA


Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998.


Gabriella Mangiarotti Frugiuele, Bambini o figli?, Vita e Pensiero, Milano, 2005.