Responsabilità ed educazione alla pro-socialità

Premessa

Parlare di responsabilità significa riferirsi ad un concetto che è alla base di tutti i processi sociali e culturali di ogni tempo e di ogni luogo. Lì dove è l’agire di un attore sociale lì è anche in atto un intento di agire o non agire, di intervenire o non intervenire, di parlare o di tacere, di andare in soccorso o di lasciare andare, di provvedere o rinviare, di accogliere o di respingere, di punire o perdonare. Detto altrimenti è nella responsabilità che si gioca la vicenda umana e sociale di tutti i soggetti che sono individui ma al tempo stesso componenti sociali.

Dall’esercizio della responsabilità dipendono conflitti e catastrofi, guerre e contrasti, ma anche paci ed accordi, collaborazioni e convergenze. In verità il punto più strategico è costituito proprio dalla formazione della responsabilità o meglio alla responsabilità.

A lungo si è discusso di un presunto contrapporsi fra principi (o regole) e responsabilità. In merito ci sono riflessioni di illustri pensatori che hanno teorizzato un’insanabile opposizione fra i dettami etici e le scelte di responsabilità. La realtà invece mostra ampie possibilità di composizione tra gli uni e le altre. In effetti il rifarsi a norme morali non pregiudica sempre e comunque l’esercizio della responsabilità. Ovviamente nella misura in cui prevalgono motivazioni ideologiche riesce arduo immaginare soluzioni serene, socialmente utili, produttrici di nuove esperienze cooperative e fautrici di esiti positivi per l’intera società.

Il concetto di responsabilità nella tradizione antropologica

Le scienze sociali si sono interessate molto al tema della responsabilità sia individuale che collettiva o sociale. E l’hanno presa in considerazione sul piano etico e su quello giuridico, come questione estemporanea legata cioè al singolo evento e come questione costante, cioè tipica di una società, di un gruppo, di una comunità, di una tribù. Per esempio l’antropologo inglese Evans-Pritchard (1902-1973) riferendosi agli Azande del Sudan parlava di un procedimento di attribuzione di responsabilità ad un individuo per le difficoltà, i disagi, i mali occorsi all’intera tribù (Evans-Pritchad, 1937). Il soggetto colpevolizzato veniva accusato di stregoneria e di ricorso ad arti malefiche. In tal modo si alleggeriva il peso delle sofferenze indicandone di fatto l’origine. Appunto sull’origine della responsabilità si sono cimentate diverse scuole di pensiero che hanno sviluppato studi comparativi e longitudinali sulle diverse forme di responsabilità, distinguendo quelle tradizionali che prevedevano solo la responsabilità diretta dell’individuo da quelle più avanzate che ampliavano la matrice della responsabilità a più soggetti e ad intenzioni plurime. In tal senso torna utile discernere proprio fra responsabilità ed intento, l’una e l’altro non connessi solo alla singola persona ma risultato di una serie di legami interindividuali che travalicano la coscienza del singolo. Insomma la responsabilità non sarebbe più da limitare al volere unico della persona ma da allargare ad un più vasto contesto. Tra i Barotse della Rhodesia valeva, secondo Gluckman (1911-1975), assai più la dimensione relazionale che non quella individuale (Gluckman 1965), per cui erano da prendere in considerazione sia le dinamiche di rete che quelle dovute alle situazioni del momento.

Da quanto detto si può dedurre che la responsabilità non è mai esclusivamente personale e diretta ma anche collettiva e condivisa, almeno in parte. Nessun individuo è totalmente isolato in se stesso in quanto comunque ed in misura differenziata tiene conto della presenza degli altri e delle loro reazioni. Se si fa eccezione per le situazioni patologiche accentuate dove vigono altri meccanismi si nota piuttosto un’interazione costante fra livello personale e livello socio-comunitario. Da qui nascono poi anche forme cooperative volte, per esempio, anche alla vendetta da attivare in risposta ed in difesa rispetto ad un atto che ha colpito in precedenza un solo individuo ma che in effetti ha toccato l’intero gruppo di sua appartenenza. Così l’intera comunità si fa carico di un impegno che deriva dal danno subito dal singolo ma che è diventato di ordine comune nella misura in cui il danneggiato è parte di un tessuto connettivo saldo e funzionale. Ed allora la risposta da dare appare consona e coerente nell’ambito del sistema culturale e giuridico di riferimento.

Non va trascurata poi la valenza dell’impatto verbale (Hill, Irvine 1993) che ha luogo nel processo di attribuzione di responsabilità, nella procedura difensiva di un accusato di colpa grave, nei processi di legittimazione di un’autorità, nella formazione dell’idea di prestigio assegnato a soggetti che rivestono ruoli di potere e di guida dell’opinione comune e dunque dei modelli culturali di una comunità, di un popolo, di una nazione. In tali termini assume la massima importanza il discorso, come evento straordinario che riposiziona i punti di vista, enfatizza alcune prospettive, ne limita altre, riferisce di fatti, esprime valutazioni. In definitiva autorità ed autorevolezza insieme contribuiscono a rendere credibile una decisione, una visione, una scelta.

La responsabilità secondo Max Weber

Il concetto di responsabilità non è stato usato di frequente dalla sociologia, quasi a voler sottolineare una certa distanza fra la conoscenza scientifica e le implicazioni etiche. In questo senso l’avalutatività come assenza di giudizio su persone e fatti ha investito anche l’uso e la diffusione del termine stesso di responsabilità, ritenuta troppo intrisa di principi morali e di connotazioni ideologiche. Nel contempo non è da trascurare la valenza giuridica del lemma che rimanda, per esempio, all’obbligo di un primo ministro di un governo di dare le dimissioni se gli manca la fiducia parlamentare oppure, su un altro versante, all’imposizione (in punta di diritto civile) di porre rimedio ai danni procurati o di restituire il maltolto. Ma soprattutto è da prendere in considerazione la presa in carico degli effetti che possono derivare da un’azione, da un’opzione, da un mancato intervento, da un’omissione, da una trascuratezza, da una sottovalutazione. Detto altrimenti l’agire individuale comporta sempre e comunque conseguenze sul piano sociale e riveste un carattere morale.

Conviene però fare chiarezza, prima di procedere oltre, sull’uso di due concetti spesso confusi fra di loro, resi interscambiabili, soggetti ad interpretazioni non solo diverse ma spesso opposte: etica e morale. L’ordine delle due parole non è casuale, giacché per ragioni storiche l’una precede l’altra. Infatti l’etimo di etica è di origine greca, quello di morale risale al mondo della latinità. Se così è (difficile avere dubbi su questo) si è indotti a ritenere la morale un insieme di valori, di principi, di regole che si antepongono al pensiero ed all’azione mentre l’etica riguarderebbe il comportamento stesso come risultato finale della morale. Quest’ultima avrebbe un carattere più sociale, condiviso, tipico di un gruppo, di un’etnia, mentre l’etica riguarderebbe piuttosto il singolo soggetto che pensa ed agisce a partire dai contenuti della morale.

Va però anche detto che esiste una filosofia morale che si interessa degli aspetti valoriali ed in particolare della differenza fra bene e male e delle implicazioni che ne derivano. Una complicazione ulteriore proviene comunque dal fatto che spesso si considera l’etica un ramo della filosofia che affronta la questione del bene e del male. E per di più occorre aggiungere l’apporto che giunge dalla prospettiva religiosa che pure affronta il medesimo discorso relativo al bene ed al male. Non va dimenticato che Émile Durkheim (1973: 59) nella sua definizione di religione parlava, non a caso, di una “comunità morale, chiamata chiesa”.

Com’è ampiamente noto, si deve al sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) una duplice concezione dell’etica: quella della convinzione e quella della responsabilità (Weber 2000). Nell’etica della convinzione vigono principalmente le norme ed i valori indipendentemente dalle risultanze, da ciò che ne consegue. Per esempio chi non si adegua, sulla base dei propri valori di riferimento, al diktat di una persona dispotica lo fa in nome di un’etica della convinzione, cioè convinto di essere nel giusto e nell’etico comportandosi in tal maniera. Quest’etica dei principi è tipica di un religioso, di un rivoluzionario, di un idealista, di un ideologo, di un sindacalista, di un arbitro, di un giudice. Invece nell’etica della responsabilità si tiene massimamente conto di ciò che si produce con un’azione. Per esempio si può decidere di operare secondo una certa logica pensando ai benefici che ne proverranno. E magari tali benefici potranno esserci a prezzo di qualche rinuncia minore o ininfluente. Infatti Weber sottolinea che a volte ci possono essere sia paradossi nelle conseguenze che contrapposizioni fra i valori.

Questo duplice approccio weberiano è presente nella conferenza su “Politica come professione” (Mona­co, 28 gennaio 1919). Secondo Weber (2001: 97-113, passim) “l’etica può presentarsi in un ruolo assai deleterio da un punto di vista morale”. Con ciò si presume che anche dall’etica possano scaturire danni gravi alla società nella misura in cui non tiene conto di ciò che provoca. Non a caso viene citato il discorso evangelico di Gesù sul monte: “Con il sermone del­la montagna – vale a dire con l’etica assoluta del Vangelo – si pone una questione assai più seria di quanto credono coloro che oggi citano volentieri questi precetti. Non va presa alla legge­ra. Per essa vale ciò che è stato detto della causalità nella scien­za: non è una carrozza che si possa far fermare a piacere per sa­lirvi o scenderne. Al contrario: tutto oppure niente, è pro­prio questo il suo senso, se ne deve derivare qualcosa di diverso dalla banalità. Cosi, per esempio, la parabola del gio­vane ricco: ‘Egli se ne andò triste, poiché possedeva molte ric­chezze’. Il precetto evangelico è incondizionato e univoco: dai via ciò che possiedi, semplicemente tutto… Sta qui il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramen­te conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ri­condotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dal­l’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’‘etica dei principi’ oppure di un’‘etica della responsa­bilità’. Ciò non significa che l’etica dei principi coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principi. Non si tratta ovviamente di questo. Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima del­l’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, re­cita: ‘Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agi­re nelle mani di Dio’, oppure secondo la massima dell’eti­ca della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire”. Ben diverso è quanto avviene se entra in gioco un’altra etica, quella più responsabile. In effetti “colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media de­gli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto – come ha giusta­mente detto Fichte – di dare per scontata la loro bontà e per­fezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguen­ze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato. Colui che agisce secondo l’etica dei principi si sente ‘responsabile’ soltanto del fatto che la fiamma del puro prin­cipio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga”. Ciò detto, Weber precisa che “nessuna etica al mondo prescinde dal fatto che il raggiungimento di fi­ni ‘buoni’ è legato in numerosi casi all’impiego di mezzi eti­camente dubbi o quanto meno pericolosi e alla possibilità, o an­che alla probabilità, che insorgano altre conseguenze cattive. E nessuna etica al mondo può mostrare quando e in che misura lo scopo eticamente buono ‘giustifichi’ i mezzi eticamente peri­colosi e le sue possibili conseguenze collaterali… Qui, in relazione a questo problema della giustificazione dei mezzi attraverso il fine, anche l’etica dei principi sembra in ge­nerale destinata al fallimento. Essa, infatti, ha logicamente sol­tanto la possibilità di respingere ogni agire che faccia uso di mezzi eticamente pericolosi. Logicamente. Nel mondo reale, tuttavia, noi sperimentiamo continuamente che colui il quale agisce in base all’etica dei principi si trasforma improvvisamente nel profeta millenaristico, e che per esempio coloro che hanno appena predicato di opporre ‘l’amore alla violenza’, nell’istante successivo invitano alla violenza – alla violenza ultima, la quale dovrebbe portare all’annientamento di ogni violenza – cosi come i nostri militari dicevano ai soldati a ogni offensiva: questa sarà l’ultima, porterà la vittoria e poi la pace”. In particolare “colui che agisce in base all’etica dei principi non tollera l’irrazionalità eti­ca del mondo. Egli è un ‘razionalista’ cosmico-etico. Chi di voi conosce Dostoevskij ricorderà senz’altro l’episodio del Grande Inquisitore, dove il problema è trattato con grande precisione. Non è possibile mettere d’accordo l’etica dei principi e l’etica della responsabilità oppure decretare eticamente quale fine deb­ba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta in generale una qualche concessione a questo principio”. In definitiva “se si debba agire in base all’etica dei principi o all’etica della respon­sabilità, e quando in base all’una o all’altra, nessuno è in grado di prescriverlo… Pertanto l’etica dei principi e l’etica della re­sponsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto in­sieme creano l’uomo autentico”.

L’educazione alla pro-socialità

Per la creazione dell’“uomo autentico” prospettato da Weber risulta fondamentale un adeguato processo educativo-formativo che approdi ad un’etica basata sulle intenzioni pro-sociali e su una disponibilità al volontariato (Wilson, Musick 1997) come azione fautrice di azioni utili al benessere altrui. In realtà se si ricevono inputs a favore della socievolezza, della disponibilità verso gli altri, della generosità, dell’accoglienza e dell’attenzione rispettosa si creano come degli anticorpi in grado di combattere e sconfiggere l’individualismo, l’egoismo, la sopraffazione, l’anti-socialità, il comportamento violento, l’aggressività, l’invadenza. In pratica l’attitudine verso l’aiuto crea le premesse per incrementare la pro-socialità (Penner, Dovidio 2005), procurando quindi benessere e vantaggi altrui. Non a caso si parla di altruismo come contraccettivo dell’egoismo sfrenato ed opprimente. Per questo l’altruismo (Batson 1991) diventa un modello comportamentale che è motivato dalla volontà decisa, volta a fare il bene dell’altro, a desiderare e permettere il suo benessere. Il che avviene anche pagando dei costi, affrontando delle rinunce, facendo dei sacrifici, usando di fatto una propensione oblativa, di offerta, di prendersi cura (Cipriani, Stievano 2018), di accompagnare, di sostenere.

Talora si registra qualche vantaggio per lo stesso individuo che si china verso gli altri per sorreggerli ma questo dettaglio non inficia del tutto l’intento iniziale di chi si avvicina per soccorrere, salvare, proteggere. Al contrario l’atteggiamento egoistico ed autoreferenziale non fa che rispondere al desiderio, talvolta smodato, di migliorare al massimo il proprio benessere, di trarre il più alto tornaconto a proprio vantaggio.

Può anche capitare che il comportamento pro-sociale non sia spiegabile in chiave di filantropia, di bontà, come pure che un orientamento altruistico non incida a favore della società, dunque con un carattere pro-sociale.

Le azioni dirette verso l’esterno della propria individualità sono numerose e differenziate. Vanno dal semplice intervento all’atto caritatevole, dal dono alla cooperazione, dal volontariato al conforto, dal sacrificio alla condivisione. Ognuna di queste attività impiega del tempo, sottratto ad altre incombenze, pure rilevanti per il soggetto in quanto attore sociale.

E non solo si investe sul tempo ma anche sulle risorse umane e materiali. Da questo provengono anche profitti nel campo della cooperazione, della mutualità, dell’assistenza, del coordinamento dell’associazionismo non lucrativo (ONLUS, ONG, ecc.), che tuttavia non appaiono come interventi di aiuto in senso stretto in quanto producono vantaggi economici per gli stessi operatori. Nondimeno l’insieme di queste iniziative può rientrare nel novero del pro-sociale in quanto generano conseguenze positive per la società, anche se non è facile annoverarle nell’ambito dell’altruismo vero e proprio. Per definirle altruistiche occorrerebbe conoscere a fondo i motivi che animano coloro che prestano la loro opera in funzione di aiuto.

Questa apertura al pro-sociale ha indubbie matrici religiose e culturali allo stesso tempo. Si può riandare all’ospitalità della Grecia classica ma anche alla ϕιλία intesa come amicizia, amore verso il prossimo, il vicino, l’altro. E qui si innesta evidentemente anche la tradizione ebraico-cristiana, che giunge sino a David Hume (1739) e Adam Smith (1759) ed alle loro concezioni della compassione e della benevolenza. Ma invero è stato Auguste Comte (1851) ad inventare il termine “altruismo”, che descrive la motivazione per portare aiuto agli altri.                 

Forse però il contributo più significativo è dovuto a Kurt Lewin (1936) inventore dell’equazione B=f(P, E), dove B (behavior) è il comportamento il quale è funzione (f) della persona (P) e dell’ambiente (E ovvero environment). Nella concezione della persona sono inclusi i caratteri ereditari, le competenze, la personalità. L’ambiente è costituito principalmente dalla situazione e dalle persone che in essa sono presenti. Molto si è discusso se in questa formula lewiniana abbia maggior rilievo la dimensione personale o la situazione sociale. Quale che sia la risposta ad un simile interrogativo resta comunque acclarato che l’atteggiamento ed il comportamento pro-sociali insistono soprattutto sull’individuo ed anche sul contesto cui egli appartiene. In altri termini molto dipende dai tratti della personalità che si costruisce nel tempo e dalla società circostante. L’una e l’altra poi hanno la loro matrice di base nei processi educativo-formativi pregressi. Da qui l’importanza strategica di ogni momento della socializzazione di una persona che si va ad inserire, sin dalla sua nascita, nel consorzio sociale.

Riferimenti bibliografici

Batson, C. D. 1991, The Altruism Question. Toward a Social Psychological Answer, Lawrence Erlbaum, Hillsdale, N. J.

Cipriani, R., Stievano, A. (a cura di) 2018, Prendersi cura. Malati, infermieri e volontari nel Giubileo della Misericordia, FrancoAngeli, Milano.

Comte, A. 1851, Système de Politique Positive ou Traité de Sociologie instituant la Religion de l’Humanité, Mathias, Carilian-Goeury, Dalmont, Paris.

Durkheim, É. 1973, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton Italiana, Roma; ed. or., Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris, 1912.

Evans-Pritchard, E. E. 1937, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Clarendon Press, Oxford; ed. it., Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande, Angeli, Milano, 1976.

Gluckman, M. 1965, The Ideas in Barotse Jurisprudence, Yale University Press, New Haven-London.

Hill, J, Irvine, J. 1993, Responsibility and Evidence in Oral Discourse, Cambridge University Press, Cambridge.

Hume, D. (anonimo), 1739 (voll. I-II), 1740 (vol. III), A Treatise of Human Nature.

Lewin, K. 1936, Principles of Topological Psychology, McGraw-Hill, New York.

Penner, L. A., Dovidio, J. F. (2005), “Prosocial Behavior: A Multilevel Perspective”, Annual Review of Psychology, 56, 365-392.

Smith, A. 1759, The Theory of Moral Sentiments.

Weber, M. 2000, L’etica della responsabilità, La Nuova Italia, Firenze.

Weber, M. 2001, La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, Milano. Wilson, J., Musick, M. 1997, “Who Cares? Toward an Integrated Theory of Volunteer Work”, American Sociological Review, 62, 694-713.