Quali cattolici in Italia?

In attesa di una nuova indagine a carattere nazionale sulla religiosità in Italia, conviene far riferimento ad un recente studio[1] che presenta alcuni dati che hanno almeno il pregio di una certa affidabilità, in quanto elaborati a partire dalle indagini, aventi un carattere “multiscopo”, condotte sulle famiglie italiane da parte dell’Istituto Centrale di Statistica, nel periodo 1993-2009. 

L’autore, Roberto Cartocci, non è nuovo a nutrire interessi per il fatto religioso in Italia. Già in precedenza aveva collaborato, in particolare sul tema dei valori, con Carlo Tullio-Altan [2], il quale aveva rilevato la presenza di «giovani serissimi, anche se poco loquaci, pieni di fede e di convinzione nelle istanze di valore che loro si dischiudono»[3] ed in altra sede aveva aggiunto che «le idee, le credenze, i pregiudizi, le norme di vita che fanno parte di una cultura, quando si traducono in concreti comportamenti, cessano di appartenere al puro regno dei simboli e dei concetti, e si fanno “cose” e cose di eccezionale durezza e consistenza, con le quali bisogna fare i conti come con la più feroce realtà»[4].

In vari lavori di Cartocci vengono usati concetti-chiave di natura geografica: territori, zone, città, atlante, mappe, ecc.. Nel 2011, come autore unico, ha pubblicato un testo di geografia statistica dell’Italia religiosa[5], il quale pur presentando qualche dato che meriterebbe maggiori approfondimenti nondimeno rappresenta un ulteriore punto di vista sulla situazione attuale e dunque merita adeguata discussione.

Si prendano due elementi in qualche modo correlati: il declino della pratica religiosa e l’aumento dei matrimoni civili. Entrambi sarebbero da attribuire al processo di secolarizzazione in atto. Ma intanto è già dubbia la percentuale, registrata nel 2009, di una pratica religiosa almeno settimanale da parte del 32,5%, contrapposta ad una totale assenza di frequenza ai riti domenicali da parte del 19,1%. La diminuzione sarebbe avvenuta in misura significativa rispetto al 1995 allorquando era del 38,1%. Intanto altre indagini provano che i tassi di frequenza sono ben diversi, in entrambi i casi: è stato documentato nell’indagine nazionale sulla religiosità – i cui esiti sono stati resi noti appunto nel 1995[6] – che i praticanti regolari settimanali erano quasi il 31%. Che tale risultato possa essere cambiato sostanzialmente e persino aumentato, dopo quattordici anni, non pare verosimilmente fondato, perché sarebbe in contraddizione palese con gli esiti di varie altre indagini svolte nel frattempo. Ed anche il tasso di non frequenza assoluta della messa appare alto rispetto a percentuali più contenute accertate nel 1995 che presentavano quasi una decina di punti in meno.

Non va dimenticato infine che da parte degli intervistati c’è di solito una tendenza (data abbastanza per scontata fra gli specialisti del settore socio-religioso) per cui si afferma di fare molto di più di quello che realmente si fa: per esempio si dice di andare a messa ogni domenica ma in realtà la frequenza potrebbe essere di una-due volte in un mese.

L’aumento delle coppie di fatto passate dal 3,5% al 5,5% in dieci anni non si lega, peraltro, necessariamente alla secolarizzazione: possono essere mutati i costumi relazionali, vi possono essere ragioni economiche ed occupazionali (o, meglio, di mancata occupazione), può interferire un modello giovanile diverso da quello in voga in precedenza. Insomma la scelta civile, invece che religiosa, in campo matrimoniale non vuol dire necessariamente un’opzione antireligiosa o atea o indifferente.

Cartocci, inoltre, parla di un «cattolicesimo di maggioranza» che riguarderebbe circa metà della popolazione. Una tale percentuale, di poco più del 50%, ricorda da vicino un’altra categoria, assai criticata, usata da don Silvano Burgalassi nel 1970[7]: quella dell’indifferenza, ammontante al 55% della popolazione. In entrambi i casi le categorie concettuali usate appaiono troppo ampie e troppo onnicomprensive. Chi fa indagini sociologiche sa bene che gruppi così numerosi presentano in genere delle diversificazioni al loro interno, tali da rendere necessaria un’ulteriore procedura almeno di suddivisione dell’insieme qualificato «di maggioranza» o «indifferente».

La minoranza, sempre per Cartocci, sarebbe rappresentata dai cattolici militanti, nella misura del 10%. Anche in questo caso l’esperienza di ricerca sul campo fa propendere per altre quantificazioni: se per esempio è vero che l’associazionismo a carattere religioso riguarda circa l’8% della popolazione non è detto che la militanza cattolica si limiti a questo. Ed anzi la stessa pratica religiosa regolare domenicale è appena un indicatore fra gli altri.

Insomma occorre fare i conti con altri dati: sei su dieci matrimoni avvengono in chiesa, otto bimbi su dieci nascono a matrimonio avvenuto, l’otto per mille per la Chiesa cattolica non è plebiscitario ma ha pur sempre una sua consistenza (massima in Puglia e minima in Emilia-Romagna), una larga maggioranza degli alunni opta per l’insegnamento scolastico della religione (coloro che non si avvalgono sarebbero l’8,8%, cioè una percentuale abbastanza vicina a quella dei non praticanti in assoluto già nota dal 1995[8]).

Fra l’altro il docente bolognese si avvale pure dello studio di Garelli sull’Italia cattolica[9], in cui l’associazionismo, compreso quello nella Caritas e nella pastorale parrocchiale, risulta attestato sul 10% («cattolici militanti»), ma in aggiunta si segnala tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che comprendono il 20% di persone («cattolicesimo di minoranza») che vanno regolarmente a messa la domenica, quelle assai più numerose (attorno al 50%, «cattolicesimo di maggioranza») la cui pratica è saltuaria, quelle infine (circa il 10%) che non praticano ma firmano a favore dell’otto per mille destinandolo alla Chiesa cattolica ed optano per l’insegnamento della religione cattolica da impartire ai loro figli. La quota rimanente (ancora 10%) è fatta di soggetti indifferenti, agnostici, atei, anticlericali, non cattolici in generale. Quest’ultima categoria risulta ancora una volta piuttosto generica. Sarebbe auspicabile un’adeguata indagine ad hoc, per comprendere meglio le dinamiche in atto nel variegato mondo che non si richiama alla Chiesa cattolica.

In definitiva appaiono un po’ troppo ampia la categoria maggioritaria e un po’ troppo ristretta quella minoritaria (a dire il vero, Cartocci più volte ha insistito, nel corso dei suoi studi, sull’idea di bipolarismo[10] applicata al caso italiano, fino a distinguere anche fra un nord laico ed un nord cattolico[11], memore forse della lezione di Tullio-Altan, il quale nella sua ricerca sui «valori difficili»[12] aveva parlato di valori in contrapposizione, di dualismo non solo generazionale ma anche geografico, con orientamenti più tradizionalistici nel sud).

Il dato di fatto è che la credenza e la pratica di matrice cattolica non sono limitate a circa un terzo della popolazione italiana. E comunque se è vero che c’è una tendenziale compattezza dei cattolici è altresì un dato di fatto la loro diversificazione su temi politici, etici, comportamentali, ideologici. D’altra parte anche il numero dei non praticanti in assoluto va forse ridimensionato, come si è già detto, più verso il 10% che non il 15% od anche più.

Andrebbero poi enfatizzate alcune dimensioni storico-culturali, come nel caso dell’alta frequenza religiosa in Campania e dei matrimoni religiosi tra i palermitani. Da anni gli studiosi di sociologia della religione, specialmente coloro che hanno condotto ricerche in Campania ed in Sicilia, vanno sostenendo che in tali contesti il frequentare la chiesa ogni domenica è essenzialmente un tratto culturale ben radicato, che travalica la sostanza stessa della motivazione religiosa (lo stesso discorso vale per la celebrazione del matrimonio religioso). A proposito di quest’ultimo il differenziarsi dei dati, nel tempo, fra Napoli e Milano è dovuto probabilmente non ad un’inversione di tendenza ma ad una diversa velocità di diffusione di una prassi, anche a seguito dell’approvazione della legge sul divorzio, a partire dunque dagli anni ‘70. Così il fatto che a Napoli nel 1951 i matrimoni civili toccassero il 17,7% ed a Milano il 5,4% era dovuto, a pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, a ragioni forse di natura economica (il matrimonio in chiesa e la successiva offerta di convivialità potevano costare assai più di una semplice celebrazione in municipio, magari neppure seguita dal pranzo di nozze). Comunque all’epoca non era ancora così accentuato il divario socio-economico fra le due metropoli, entrambe reduci dal disastro bellico. Successivamente lo sviluppo industriale milanese e le abituali difficoltà di natura economica nella città partenopea hanno fatto sì che si amplificasse la differenza fra le due città, anche in termini di modernizzazione delle rispettive culture urbane, per cui Milano potrebbe aver subito una maggiore accelerazione in fatto di costume e modelli comportamentali mentre Napoli potrebbe aver mantenuto la tendenza già in atto (infatti i matrimoni civili sono comunque aumentati fino al 26,3% di tutti i matrimoni; invece a Milano il mutamento è stato maggiore, anche in questo campo, ed ha portato la celebrazione civile delle nozze a costituire il 57,6% del totale; insomma Napoli è giunta ad avere un matrimonio civile ogni quattro e nel contempo Milano è passata a nozze civili più frequenti, cioè oltre la metà di tutte quelle celebrate). Nondimeno la questione resta aperta, dato che l’autore con rara umiltà scientifica dichiara l’impossibilità di riuscire a spiegare il caso napoletano: «chi scrive non è in grado di dare una spiegazione di questo crollo dei matrimoni civili nel comune di Napoli»[13].

Ancora lo stesso Cartocci sottolinea che un certo livello di mancato sviluppo va di pari passo con una maggiore, più intensa pratica religiosa (per esemplificare: nel sud, religiosamente più osservante, non si fa la raccolta differenziata dei rifiuti e quando occorre si fa ricorso agli ospedali settentrionali). E d’altro canto la religiosità parrocchiale tradizionale del meridione non mostrerebbe una particolare capacità nel contrastare l’illegalità, il degrado, la corruzione.

Qui però il discorso si fa ancora più complicato, perché rischia di prescindere da dati di contesto, e di tipo storico e di tipo culturale. Tornano utili dunque le parole, ancora una volta, di Carlo Tullio-Altan: «una certa mentalità pubblica è il prodotto di una combinazione storica di fattori economici, sociali, politici, e specificamente culturali, combinazione nella quale tale mentalità prende forma, in armonia e in relazione alle esigenze che quella combinazione stessa globalmente esprime. Ma una volta formatasi, e consolidatasi in una certa guisa, tale mentalità diviene una realtà vischiosa e resistente, che sopravvive alle condizioni che l’hanno generata, e agisce a sua volta come uno dei fattori rilevanti, sugli eventi successivi, economici, sociali e politici»[14].

Non va dimenticato peraltro che in Italia la ruralità ha ancora un suo peso nel mantenimento delle tradizioni consolidate e che la realtà territoriale è fatta in buona parte proprio di piccoli agglomerati residenziali (molti comuni rurali e meridionali sono al di sotto di mille abitanti).

Sono poi ben note nel sud le ambiguità delle relazioni Chiesa-mafia ma altrettanto note sono le lotte condotte in proposito da alcuni esponenti della Chiesa cattolica[15].

La propensione di Cartocci a dividere la fenomenologia religiosa in due soli aspetti (o quasi) si applica non solo alla relazione fra praticanti e non praticanti, come pure fra matrimoni civili e religiosi, ma investe l’intera realtà italiana che parrebbe più secolarizzata al centro-nord che non al centro-sud, dove perdurerebbe la religiosità di tipo tradizionale.

Anche gli indicatori della scelta dell’insegnamento della religione a scuola e della firma dell’otto per mille a favore della Chiesa cattolica paiono rientrare nella medesima logica bipartitoria. Ed allora la non scelta scolastica della religione riguarda più il nord che il sud in ogni ordine e grado. Pure l’assenza di firme per l’otto per mille a favore della Chiesa cattolica è più frequente nel settentrione (specie in Emilia e Romagna) che nel meridione (dove Calabria, Campania e Sicilia contribuiscono con la quasi totalità delle firme per la Chiesa cattolica).

Particolarmente utile è la tabella 7.1 predisposta da Cartocci[16] sulle scelte dell’otto per mille. I dati provengono da Monsignor Mauro Rivella, sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana, e si riferiscono al 2004. Un’ulteriore elaborazione della tabella offre un quadro più dettagliato sulla ripartizione delle firme, anche in termini percentuali effettivi.

Tab. 1

FIRME VALIDE DELL’OTTO PER MILLE NEL 2004

DestinatarioDichiarazioni I.R.Pe.F.Firme valide% firme valide  sul totale delle dichiarazioni% quote assegnate sul totale dell’8‰
Chiesa cattolica 14.628.79536,2889,8
Stato 1.254.3623,117,7
Chiesa evangelica valdese 228.066  0,571,4
Unione delle comunità ebraiche italiane 65.1620,160,4
Chiesa evangelica luterana in Italia 48.8710,120,3
Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno 32.5810,080,2
Assemblee di Dio in Italia 32.5810,080,2
Totale40.316.96216.290.418 (16.480.730)*40,4100,0

* comprese 190.312 scelte non valide

La maggioranza dei contribuenti italiani non ha preso affatto in considerazione la possibilità di scelta offerta con l’otto per mille: sono 23.836.232 i soggetti che non hanno fatto alcuna opzione e costituiscono più della metà (59,12%) dei dichiaranti l’imposta sui redditi delle persone fisiche (I.R.Pe.F.). .

Per Cartocci, dopo aver riconosciuto che «la tradizione cattolica appare così come il collante più antico, il tratto più solido di continuità fra le diverse componenti del paese»[17], segnatamente l’azione esercitata dal Regno delle Due Sicilie non sarebbe estranea alla religiosità più tradizionale e stabile rintracciabile nel meridione italiano. L’ipotesi potrebbe avere qualche fondamento, ma occorre considerare che la Sardegna non rientrerebbe nel discorso formulato, nonostante sia poco secolarizzata, stando agli indicatori sociologici utilizzati dallo studioso fiorentino. D’altro canto per la maggiore secolarizzazione del centro-nord si potrebbe pensare alla presenza del socialismo e del comunismo come pure di varie forme di laicismo. Ma pure in questo caso giova ricordare invece la forte presenza dello Stato della Chiesa in vasti territori dell’Italia centrale (e non solo). Come combinare influenze così diverse? La storia invero ha tracciati assai lunghi, che travalicano i secoli e che si combinano in modo assai differenziato con le situazioni locali.  

A completamento del discorso, il politologo dell’Università di Bologna riconosce che «in Italia esiste una rete di diocesi e parrocchie senza paragoni rispetto a tutti gli altri paesi cattolici, una presenza istituzionale che non è minimamente avvicinata da nessun’altra organizzazione, a parte lo stato. Sul piano dei comportamenti si registrano poi tassi di religiosità più elevati della maggior parte degli altri paesi»[18]. Appunto questa capillarità della Chiesa cattolica italiana consente di verificare la presenza di forti dosi di religiosità anche in aree del nord ritenute piuttosto secolarizzate, ma altresì un basso livello di religiosità e di pratica religiosa pure in qualche area del sud e delle isole.

Lo strumento statistico adoperato per classificare le differenziazioni territoriali (regioni e province) è basato su pochi indicatori (appena quattro: pratica religiosa festiva, matrimoni ed unioni di fatto, insegnamento della religione ed otto per mille). E dunque c’è da chiedersi quanto possa aiutare il discorso fondato su basi non particolarmente solide, visto che il fenomeno religioso è ben più articolato delle quattro componenti analizzate da Cartocci. Oltretutto la classifica per province e per regioni non fa altro che confermare talune interpretazioni ed elaborazioni statistico-sociologiche ampiamente acquisite da tempo e quindi non segnala particolari sorprese: il laicismo dell’Emilia-Romagna come la bassa frequenza della messa a Siena (già studiata da Silvano Burgalassi molti anni fa, nell’ambito delle ricerche sulla Toscana[19]).

Entrando nel merito, Cartocci giustamente mette in guardia rispetto a facili conclusioni che assimilerebbero la religiosità meridionale allo scarso sviluppo socio-economico e dunque respinge l’ipotesi della «variante anticlericale» che vede nella Chiesa cattolica l’origine del mancato sviluppo[20].  

Un’altra suggestione da ritenere foriera di sviluppi futuri nel campo della ricerca socio-religiosa sul cattolicesimo italiano deriva dall’individuare una categoria di individui pienamente secolarizzati o indifferenti o anticlericali o appartenenti ad altre confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica: sono il 10% e rappresentano il cerchio più lontano dal mondo cattolico[21].

In definitiva «il 60% delle coppie si sposa in chiesa, i bambini nascono per l’80% dopo il matrimonio, il 90% sceglie la chiesa come destinazione dell’otto per mille, il 91% degli scolari frequenta le lezioni di religione nelle scuole. Coloro che non mettono piede in chiesa sono meno del 20% degli italiani. E comunque, anche tra questi, una buona metà ha più fiducia nella chiesa che nello stato, quanto meno come istituzione educativa e di carità»[22]. Queste affermazioni sono certo fondate sui dati ma in qualche caso anche discutibili, a partire dal 90% che sceglie la Chiesa nell’otto per mille (la consistenza reale è del 36,28%, in rapporto al numero totale dei contribuenti dell’I.R.Pe.F.).

Semmai è da tenere presente anche quanto ha sostenuto il compianto Giancarlo Zizola, commentando il lavoro di Cartocci: «la Chiesa che affiora da questi grafici è una grande e gloriosa istituzione fortemente stanca e assopita sulla propria potenza burocratica, ma che è coinvolta suo malgrado in un processo di mutazione storica dovuta più ancora ai cambiamenti sociologici e culturali che ai problemi interni dell’istituzione»[23].       


[1] Cfr. Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, Bologna, il Mulino, 2011.

[2] Cfr. Carlo Tullio-Altan, I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia, Milano, Bompiani, 1974; Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986; Carlo Tullio-Altan, Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta, presentazione di Roberto Cartocci, Udine, Istituto editoriale veneto friulano, 1995; Carlo Tullio-Altan, La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale, Udine, Gaspari, 1997 (collaborazione di Roberto Cartocci, autore del saggio L’Italia di tangentopoli e la crisi del sistema politico). 

[3] Carlo Tullio-Altan, I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia, op. cit., p. 95.

[4] Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, op. cit., p. 14.

[5] Cfr. Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit. 

[6] Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, Milano, Mondadori, 1995.

[7] Cfr. Silvano Burgalassi, Le cristianità nascoste, Bologna, Dehoniane, 1970.

[8] Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Gianfranco Rovati, La religiosità in Italia, op. cit.

[9] Cfr. Franco Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Bologna, il Mulino, 2006.

[10] Cfr. Edmondo Berselli, Roberto Cartocci, Due Italie, forse. A proposito delle elezioni del 9-10 aprile, «il Mulino», LV, 424, 2006, pp. 243-252; Roberto Cartocci, Che ne sarà del nostro bipolarismo?, «il Mulino», LIII, 414, 2004, pp. 621-628; Roberto Cartocci, Bipolarismo reale, «il Mulino», LIII, 411, 2004, pp. 57-66. 

[11] Cfr. Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 125.

[12] Cfr. Carlo Tullio-Altan, I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia, op. cit.

[13] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 62.

[14] Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, op. cit., p. 29.

[15] Cfr. Cataldo Naro, L’opzione “culturalista” della chiesa siciliana, in: Stefano Diprima (a cura di), Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1995, pp. 115-131; Francesco Mercadante, Legalità e santità: la morte bianca di un vescovo in terra di mafia, in: Massimo Naro, Sorpreso dal Signore. Linee spirituali emergenti dalla vicenda e dagli scritti di Cataldo Naro, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2010, pp. 277-325.   

[16] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 118.

[17] Op. cit., p. 12.

[18] Op. cit., p. 17.

[19] Cfr. Silvano Burgalassi, Elementi per un’analisi della religiosità in Toscana, Bologna, il Mulino, 1965.  

[20] Roberto Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, op. cit., p. 139.

[21] Cfr. op. cit., p. 25.

[22] Op. cit., p. 135.

[23] Giancarlo Zizola, Benvenuto nel Paese che ha smarrito la fede “tradizionale”, «la Repubblica», 7 luglio 2011, p. 35.