L’appartenenza ad un’associazione religiosa

Prof. R. Cipriani – Ottavia, 22.X.’95
C’è una la tendenza ad organizzare anche un’Associazione che si dice laica secondo uno schema tipico di una Congregazione religiosa. Se volete, la mia osservazione critica nei riguardi dell’attuale Statuto è che ricalca troppo da vicino quella che è una struttura tipica di un Istituto religioso. Lo dico qui come l’ho detto, giusto una settimana fa, ad Assisi, alla Pro Civitate Christiana, la famosa Cittadella. Anche lì quella che è una Associazione tipicamente laica ha un’impronta che è quella di una organizzazione di Istituto religioso con i soliti passaggi che un po’ mettono in evidenza la fase di preparazione, cioè il noviziato, che qui poi è presentato in altra forma: i sei mesi iniziali, poi i due anni e poi l’ingresso nell’Associazione. Lì ad Assisi ci sono i soci e i volontari. I soci sono quelli più interni, i volontari sono quelli più esterni. Ma prima di diventare socio si è pre-socio e prima di diventare volontario si è pre-volontario. Quindi come vedete lo schema: noviziato-voti è ripetuto all’interno, in qualche modo, di una Associazione. Il che se testimonia del rigore e della serietà dell’organizzazione, deve, però, anche far pensare alla necessità propria da parte dei laici e delle laiche di essere i protagonisti e le protagoniste di questa realtà associativa, in modo tale che essa sia, come lo Statuto recita, una associazione laica.
Vorrei partire da un dato che è il risultato di una ricerca finalmente la prima ricerca in Italia sulla religiosità. Ed è una ricerca che abbiamo appena terminata. Uscirà il mese prossimo, esattamente fra un mese: il 21 di novembre, martedì, il giorno dopo l’inizio del Convegno CEI a Palermo e sarà pubblicata da Mondadori.
La ricerca avrà come titolo La religiosità in Italia. Era un mio sogno poter fare, finalmente la prima ricerca sulla religiosità in Italia, ci siamo riusciti con un campione veramente rappresentativo della realtà italiana. Pensate che sono quasi 200 città che sono state interessate a questa indagine e abbiamo raccolto tra campione nazionale e approfondimenti locali oltre 7000 questionari Se pensate che di solito il Censis, il Labus, la Doxa e tante altre organizzazioni che si interessano di dati statistici ritengono che con meno di 1000 casi sono in grado di presentare l’Italia, capite di quale portata sia la nostra ricerca.
Quanto ho detto mi serve solo per anticipare un dato che scaturisce da questa indagine. Tra di noi ricercatori che abbiamo partecipato a questa ricerca abbiamo assunto l’impegno di non comunicare i dati in anticipo.
Prendo un solo dato che è quello dell’appartenenza alle Associazioni religiose cattoliche. Vediamo un attimo in Italia che tipo di adesione vi è, anche per capire: voi come vi collocate in questa realtà. Chi siamo? Su quali altre forze possiamo in
qualche modo contare e che hanno, più o meno, i nostri stessi obiettivi?
La domanda relativa all’adesione all’iscrizione, all’appartenenza ad associazioni di carattere religioso prevedeva una risposta plurima, cioè uno poteva dire di appartenere ad un’associazione parrocchiale, ad una associazione nazionale, ad un’associazione religiosa atipica o ad un gruppo sportivo; vi erano varie possibilità di risposte e quindi le percentuali che adesso vi fornisco non sono cumulabili fra di loro. Cioé può darsi che chi appartiene ad un certo gruppo, appartenga anche ad un altro gruppo. Fermiamoci su quello che è a mio avviso il dato più significativo.
Ebbene, in Italia l’8,8% della popolazione appartiene ad un gruppo religioso; quasi una persona su dieci in qualche modo fa capo ad un associazionismo a carattere religioso, cioé le cui finalità sono tipicamente, principalmente religiose. Questo è un dato importante perché testimonia come ancora nel nostro Paese l’associazionismo religioso abbia un certo impatto e del resto anche la vostra presenza in questa sede ne è una prova. Dal nulla nasce già la vostra Associazione.
Dunque l’8,8% appartiene a gruppi religiosamente orientati: gruppi della Bibbia, gruppi di Azione Cattolica, Scout, gruppi tipicamente parrocchiali, per esempio per la catechesi. E pensate che quello che si ritiene essere la forma di associazionismo più diffusa è appena di poco superiore in termini quantitativi. Qual è l’associazionismo più diffuso? E’ quello a carattere ricreativo sportivo. Ebbene in tutta Italia è del 9,7%. Quindi l’associazionismo religioso è quasi sul livello dell’associazionismo ricreativo sportivo.
Dunque, possiamo dire che nonostante le crisi, le defezioni, le difficoltà, ancora c’è una tenuta della forma associativa a carattere religioso.
Aggiungiamo qualche altro dato all’interno di questo discorso. Per esempio la differenza tra associazioni a carattere nazionale, pensate all’Azione Cattolica che è tipica; associazioni a carattere parrocchiale, associazioni di altro genere, magari di tipo misto o di tipo specifico, molto peculiare.
Qual è il problema chiave dell’associazionismo? E’ la partecipazione: la presenza, l’impegno, la continuità. Allora vediamo un po’ che cosa succede nell’ambito di associazione religiosa a carattere nazionale a carattere parrocchiale o di altro tipo. Possiamo avere un’adesione di massima, ma senza partecipazione. Possiamo avere un’adesione saltuaria poco impegnata. E invece abbiamo coloro che sono regolarmente presenti, regolarmente attivi nell’ambito dell’associazione.

Vediamo un attimo i dati:

Associazioni nazionali:                  67%     14%  18%

Associazioni parrocchiali: 45%                 25%  18%

Altre associazioni:                          75%     13% 11%%

Che cosa ci dicono questi dati? Vedete che la partecipazione maggiore più forte, continua, salda è quella dei gruppi parrocchiali. Cioé il 28% di coloro che aderiscono ad un gruppo parrocchiale lo fanno in modo costante. E’ più debole la partecipazione a gruppi di altro genere. E’ inferiore rispetto a quella dei gruppi parrocchiali nell’ambito delle associazioni nazionali. Che cosa significa questo? Che quanto maggior peso ha l’associazione in ambito locale tanto più l’associazione è attraente, è coinvolgente. Di conseguenza guardando questi dati, un’associazione come la vostra che ha una radice tipicamente localistica dovrebbe essere in grado di suscitare maggiore interesse, maggiore attenzione;` perché ha un Istituto, come la Congregazione del Sacro Costato, come base a cui far capo per la propria attività. Vedete che il disinteresse maggiore riguarda i gruppi che non sono né parrocchiali, né nazionali, ma anche sui nazionali vedete che siamo già al 67% che è abbastanza consistente come quota, ma c’è scarsa frequenza. Poi viene la saltuarietà: la più alta è quella dei gruppi parrocchiali. Però essere saltuari come partecipanti significa comunque partecipare, quindi anche quello è un dato importante. Per cui mettete insieme il 25 dei saltuari e il 28 dei costanti abbiamo già una quota del 53%, cioé più della metà, in qualche modo, nel corso di un anno è coinvolto nelle iniziative dei gruppi parrocchiali.

Questo è un po’ il quadro dal quale volevo partire anche perché venisse sfatata l’idea di una carenza sul piano della presenza associativa religiosa in Italia. Invece così non è. Tenete anche conto che le persone intervistate non avevano alcun interesse a dire il falso, perché il questionario oltre tutto era anonimo, quindi alla fine la persona risultava solo un numero e non si sapeva chi aveva detto determinate cose anziché altre. Chiariti i punti di partenza cerchiamo di entrare nel merito più specifico del nostro discorso.

Soffermiamoci su quello che è il titolo di questo intervento, il tema dell’appartenenza; il tema chiave anche della vostra presenza in questa sede. Cioé come si appartiene ad un’associazione ed in particolare ad un ‘associazione laica.

L’appartenenza può essere di due tipi. Può essere genericamente un sentimento, ma può anche essere un’identificazione. Cosa intendo dire con questo? Quando parliamo di sentimento parliamo di un atteggiamento, di una propensione, di un interesse, di un orientamento, il quale orientamento può essere sia verso, sia contro; cioé un orientamento favorevole al proprio collocarsi nell’ambito di un’associazione laica come la vostra, ma anche un orientamento che qualche volta può essere contro; cioé io preferisco questo tipo di associazione e non ne preferisco un altro, oppure vedo come diversi coloro che sono al di fuori di questa associazione. Tutto questo si inscrive nel discorso del sentimento di appartenenza.

Ben diverso è il tema della identificazione. L’identificazione, nel caso specifico vostro è quella essenzialmente religiosa. Quindi ci si sente religiosamente orientati, ci si sente cattolici, come un altro tipo di gruppo si sentirà musulmano. Ma vediamo anche che l’appartenenza ad un gruppo, ad un’associazione si fonda su un atteggiamento il quale può essere sia di tipo verbale, sia di tipo fattuale, reale. Per esempio una persona può dichiararsi a parole, in modo esplicito come appartenente ad un’associazione, cioé ha un atteggiamento sostanzialmente positivo. Altro discorso può essere quello della attività all’interno di un’associazione, quindi l’atteggiamento fattivo, operativo, reale.

Teniamo conto che il comportamento umano, sovente imprevedibile, può dar luogo anche ad eventi singolari, per esempio di persone che hanno verbalmente un atteggiamento positivo e poi sul piano reale non cooperano, non operano, non si impegnano; o viceversa: persone che sul piano operativo, magari danno anche una mano all’associazione, però in fondo non credono poniamo agli orientamenti, ai contenuti, ai valori di quest’associazione. Quindi anche guardando alla vostra stessa esperienza occorre ipotizzare che vi possano essere anche queste appartenenze diversificate. Il meglio per il successo dell’attività associativa è di avere sia un atteggiamento di tipo dichiarativo, che un atteggiamento di tipo implementativo, cioé che opera, che fa, che agisce all’interno dell’associazione.

L’appartenenza ad un’associazione può anche avere un carattere individuale, quindi a livello soggettivo, a livello personale o anche una dimensione sociale, di gruppo, di insieme. Quindi a volte l’adesione può scaturire da una motivazione del tutto soggettiva, a volte anche da motivi di ordine più ampio, di ordine collettivo. Allora io aderisco a questa associazione per ragioni mie e basta, vi aderisco certo per ragioni anche mie, ma perché mi ritrovo nell’ambito di questa comunità, nell’ambito di questa associazione, nella collaborazione a quella che è l’attività di una Congregazione come quella del Sacro Costato.

Teniamo però conto che questi due aspetti, cioé l’adesione individuale e l’adesione di tipo più sociale, più collettivo interagiscono continuamente tra di loro. Quindi non prevale solo l’una o l’altra prospettiva. Teniamo conto che a volte possono essere ragioni di tipo individuale, a volte possono essere ragioni di tipo più ampio a portare ad un certo tipo di partecipazione. Guardando all’esperienze associative  c’è una continua dialettica, un continuo andirivieni tra questi aspetti che portano anche ad una certa uniformità di comportamenti, ad una certa uniformità di comportamenti, ad una certa solidarietà e quindi ad un atteggiamento e ad un sentimento di appartenenza se non all’identificazione in senso lato appunto per la caratteristica religiosa.

Il maggiore studioso a livello mondiale in questo campo è E. Carrier (?), che è stato rettore alla Pontificia Università Gregoriana. Ha scritto un libro che ha avuto diverse edizioni anche in varie lingue, intitolato “Sociologia dell’appartenenza religiosa”. E’ un testo fondamentale per capire un po’ anche il significato di certe adesioni.

Il gruppo associativo può avere anche due diverse valenze: può essere o un gruppo di riferimento o un gruppo di appartenenza. Naturalmente, in qualche caso può essere sia l’una che l’altra cosa. Nel gruppo di riferimento io vedo solo, come dice la parola, un termine al quale faccio capo. Non so, voglio sapere quale sia la soluzione migliore di un certo problema; so che quel gruppo, quella associazione ha scelto una certa linea; non sono all’interno di quel gruppo, ma per me diventa un segnale, diventa un’indicazione, quindi gruppo di riferimento. IL gruppo di appartenenza, invece, quello al quale si dà una collaborazione sostanziale e quindi ci si sente di appartenere.

E’ importante in tutto questo discorso tenere conto del processo educativo che non è un fatto limitato solo ai primi anni dell’infanzia o all’adolescenza o all’età giovanile in generale. Quando parliamo di processo educativo dobbiamo pensare a qualcosa che è continuamente in corso nell’intero arco dell’esistenza, perché il processo di educazione, di adeguamento, di adattamento, di ricerca della soluzione più adatta alla propria esistenza, al proprio vivere è un percorso che noi tutte le volte affrontiamo in ogni istante del nostro ciclo esistenziale. Allora come si inserisce il discorso dell’educazione all’interno dell’esperienza educativa?

Innanzi tutto attraverso un’appartenenza che deriva da un processo di integrazione. Ad esempio, gli stranieri che entrano in Italia a mano a mano cercano di integrarsi. Dunque, lo stesso dicasi per quanto riguarda un’appartenenza associativa. Cioè a poco a poco si assimila l’esperienza anteriore. Nel caso specifico della vostra associazione, qual è l’esperienza anteriore? L’esperienza anteriore è quella espressa dal carisma di don Montemurro, che poi si è esplicitato come percorso educativo in quella che è la Congregazione alla quale la vostra associazione fa capo. Ecco, primo processo è avvenuto attraverso questa integrazione in una esperienza già acquisita in una esperienza che sottolinea certi carismi certe caratteristiche e quindi l’appartenenza all’associazione laica che in qualche modo voi fondate di fatto con la vostra adesione.

Ma come avviene questa integrazione? A quali condizioni? Avviene sostanzialmente attraverso tre strade prima è quella dei valori. In fondo si aderisce, si appartiene perché vi sono degli aspetti valoriali, dei principi che sono all’origine del processo di identificazione. Quindi l’identificazione religiosa cattolica, ma anche certi valori presenti in un’associazione, come quella che voi avete scelto. Quindi, i valori come fulcro della fase educativa o auto educativa, eventualmente, e quindi come leva su cui si fonda l’appartenenza.

Altro aspetto spesso dimenticato, ma che probabilmente nel vostro caso ha già funzionato è quello degli orientamenti affettivi primari. Con questo intendo dire che così come all’interno della famiglia il legame affettivo tra genitori e figli funziona per la trasmissione di certi contenuti anche nel caso di un’associazione come la vostra, l’orientamento affettivo primario può essere quello che vi ha portati nel passato ad avere contatti con la Congregazione di religiose del S. Costato e poi questi legami affettivi precedenti hanno rappresentato la base, il punto di partenza per la creazione dell’associazione, per l’adesione all’associazione. Quindi, un legame anche di tipo affettivo anche di tipo amicale anche di condivisione dell’esperienza, poniamo del percorso di fede, che diventa un substrato su cui poi si innesta l’esperienza associativa.

Altro aspetto è l’oggettivazione, la reificazione di una certa appartenenza Cioè l’adesione all’associazione, al gruppo a quello che sia, diventa così forte per cui si arriva quasi ad immaginare che quella sia la soluzione unica e migliore rispetto ad altre scelte. Quasi a dire: è così e non può essere diversamente; cioè l’appartenenza è così cogente per cui non si riesce ad immaginare qualcosa di diverso. Mi spiego: un cattolico che poniamo vada a visitare l’India, può trovarsi in gravi difficoltà perché non comprende il significato di certi comportamenti. Pensate all’Induismo e a tutto quello che significa, pensate al rispetto degli animali, pensate all’uso dei lavaggi con l’acqua, pensate anche a certi comportamenti che riguardano le divisioni in caste, ecc..

Lo stesso avverrebbe per una persona di religione induista che visitasse l’Italia. Avrebbe delle osservazioni piuttosto gravi nei riguardi dei comportamenti relativi ad una cultura cattolica. Cioé ognuno che è vissuto all’interno di un’esperienza considera l° che la sua sia la migliore; 2° che debba essere così, l’esperienza da vivere, e non un’altra Quindi c’é una forte oggettivazione c’é una forte reificazione.

Che cosa voglio comunicarvi? Voglio far capire che all’interno di un’appartenenza religiosa generale: siamo tutti cattolici o associativa particolare: noi apparteniamo all’associazione laicale Sacro Costato, ci può essere quest’orientamento anche di chiusura nei riguardi di ciò che è al di fuori del proprio mondo, della propria realtà. Per cui, poniamo anche questo Statuto è così e non può essere diversamente. Laddove, invece, nel corso degli anni si può immaginare anche degli sviluppi nei riguardi dell’appartenenza associativa.

Teniamo conto, che l’atteggiamento religioso, rispetto ad altri atteggiamenti è abbastanza precoce. Che cosa intendo segnalare? Intendo dire che vi è una fase dell’arco di vita in cui è più facile intervenire per creare le premesse per quello che verrà dopo. Gli psicologi sono senz’altro dell’idea che i primi anni di vita sono quelli fondamentali. Io ripeto sempre un’esperienza ed un’espressione di Piaget il quale dice: a cinque anni ormai il ragazzo o la ragazza è già formato /a ha già le sue idee, ha già il suo mondo. Però subito dopo vi è un arco di età che possiamo grosso modo dire essere quello tra i 7 e i 14 anni in cui si costituisce l’orientamento religioso. Quindi ragazze e ragazzi tra i tredici e i quattordici anni cominciano e sviluppare la propria sensibilità religiosa. E questo atteggiamento religioso è precoce rispetto ad altri atteggiamenti. Pensate per esempio alla scelta politica, viene molto dopo; quella politica comincia a svilupparsi tra i quindi e i diciotto anni, non prima. Quindi prima l’opzione religiosa, poi quella politica, con una appendice importante che cioè la scelta religiosa ha a che vedere con la Chiesa più o meno fino ai dodici anni; dopo i dodici anni il discorso è più religioso ma in senso lato. Quindi, il discorso più istituzionale può essere fatto in maniera più incisiva nei cinque anni dai sette ai dodici, meno dopo. Tanto è vero che dopo quest’età cominciano le crisi, cominciano gli abbandoni. E’ la fase post prima Comunione, quando c’è lo spartiacque della scelta di continuare a vivere un certa esperienza di Chiesa o invece di lasciar perdere.

C’è un sociologo  ? il quale sostiene attraverso le sue indagini che è soprattutto la famiglia che fornisce l’orientamento religioso e quindi anche in questo, per esempio un’associazione come la vostra dovrebbe sviluppare al massimo il legame con la famiglia, perché attraverso la famiglia passano molti contenuti di fede. Dice “La famiglia trova la sua maggiore integrazione nella comunità di Culto”. Vediamo di spiegare meglio questa frase con un esempio. La famiglia che unita va a messa ogni domenica, attraverso questo atto solidifica ancor più la propria integrazione, la propria appartenenza. Quindi la famiglia si integra quando diventa comunità di culto. Applicando questo tipo di discorso all’esperienza associativa laica vostra: nel momento in cui l’associazione fa esperienza di attività di culto si integra ancor più. La recita della preghiera iniziale aveva anche questo significato; ci ha messo in maggiore comunicazione fra di noi. E naturalmente le grandi feste sono l’apice dell’integrazione, tanto è vero che anche a livello di linguaggio comune c’è la propensione a vivere le grandi feste liturgiche insieme in famiglia, insieme, attraverso l’associazione, appunto per consolidare i legami, i vincoli dell’appartenenza.

Però, teniamo anche conto che questo processo educativo che è un tipico processo di socializza zione, cioè dell’abituarsi allo stare insieme a condividere un’esperienza può sembrare conformismo cioé tutti all’interno della famiglia facciamo le medesime cose, tutti all’interno dell’associazione ci muoviamo allo stesso modo. C’è conformismo, indubbiamente, ma ci può anche essere, ed è questa una strada percorribile, approfondimento della coscienza di sé, cioé dell’autoconsapevolezza, della capacità critica propria.

Ora, se guardiamo non solo a quell’arco di età in cui avviene la scelta religiosa, cioé 7 – 14 anni, ma anche più in là, a quella che è la realtà giovanile, che cosa constatiamo? Lo dicono molte ricerche: constatiamo soprattutto nelle giovani e nei giovani una certa lontananza dalla Chiesa e in particolare dall’insegnamento morale della Chiesa. Pensate a tutte le questioni etiche, pensate alla sessualità, ecc.. Si acquisce a livello giovanile una forte soggettività individuale, cioé una scelta che avviene a livello personale e c’é, come qualcuno dice, una sorta di reffrattarietà rispetto alle grandi scelte. Questa reffrattarietà rispetto alle grandi scelte significa che molto spesso il giovane sceglie giorno per giorno il da farsi cioé non si pone grandi traguardi, non si pone davanti a sé grandi prospettive.

Non di meno il discorso evangelico rimane, perché c’è stata in precedenza tutta la fase di preparazione di tipo catechetico, ma è un riferimento non assoluto; cioé un riferimento sui valori di massima, non un riferimento nei dettagli e quindi ciò è una sostanziale divaricazione a livello giovanile fra quella che è la morale e quella che è la religione, appunto per le caratteristiche che abbiamo sin ora cercato di enucleare.

Avviandoci alla conclusione di questa prima parte avviamoci sul significato dell’appartenenza e come l’appartenenza si corrobora, si rinsalda.

L’appartenenza diventa più forte quando vi è una interdipendenza dei membri, cioé quando i membri sono molto legati fra di loro, magari anche per precedenti vincoli; non so, due fidanzati, marito e moglie, due amici due amiche, ecc.. L’appartenenza si basa anche sulle motivazioni dell’appartenenza. Se le motivazioni sono deboli, sarà debole, evidentemente anche l’appartenenza.

Un altro aspetto importante è il prestigio del gruppo. Cioé se quella associazione è prestigiosa, non gode di cattiva fama, non ha cattiva stampa, evidentemente, diventa appetibile e quindi ci si va con maggiore soddisfazione. Ancora, è importante quello che è lo status, cioé la condizione vista dall’esterno di quel gruppo. Faccio l’esempio tipico vostro: se l’associazione laicale è vista solo come una sorta di prolungamento di quello che è una Congregazione di suore, di religiose, dall’esterno questo può incidere in modo del tutto non positivo, perché allora diventa un po’ adito per quello che qualche anno fa si diceva a proposito dell’Azione Cattolica. Uno studioso italiano Gianfranco Pogi(?) scrisse un libro, siamo negli anni ’50, dal titolo “Il clero di riserva” Allora, una associazione laica come questa potrebbe diventare, non so, i religiosi/e di riserva della Congregazione del Sacro Costato. Allora può essere perfino difficile abbandonare il gruppo, perché si deve fare i conti con il timore di rompere con i vincoli di appartenenza. Mi spiego. Se ad un certo punto una persona che ha aderito in precedenza all’associazione decide di lasciarla, deve pure dare per scontato che lasciando quella associazione o quel gruppo lascerà certi amici, certe amiche, certe esperienze e condivisioni. Quindi un gruppo abbastanza coeso fa sì che questa coesione possa durare nel tempo. Quindi occorre anche molta attenzione a non urtare la suscettibilità degli appartenenti. Perché è vero che ci sono delle barriere, e questa che ho appena detto è una, che impediscono l’abbandono del gruppo, però ad un certo punto il disagio, il disappunto di una persona può essere tale da superare facilmente le barriere e quindi l’adesione non ha più alcun significato.

L’adesione si fonda essenzialmente su una coesione che ha i suoi fattori di base in tre aspetti.

Primo aspetto: la stima reciproca dei membri. Se all’interno di un’associazione ci sono persone che non si stimano fra di loro, che non si apprezzano fra di loro, quel gruppo, quell’associazione, è destinata a frantumarsi, quindi è importante la stima reciproca. E qui aggiungo un corollario: la stima reciproca aumenta nella misura in cui ci si conosce di più. Perché è vero che si scoprono anche i difetti, ma si scoprono anche i pregi e se c’è un afflato religioso evidentemente, il difetto può essere in qualche modo messo da parte e invece può essere enfatizzato, valorizzato il pregio. Questo naturalmente è un discorso che avviene in un ambito scolastico, come in un ambito parrocchiale come anche fra amici e fra amiche. Quindi importante è la stima reciproca dei membri.

Secondo fattore di coesione: la stima del gruppo. Cioé quando il gruppo è stimato anche all’esterno e anche la stima che ciascun membro ha nei riguardi del gruppo. Se la mia adesione al gruppo è un’adesione fondata sulla disistima, poi verrà meno. Se io ho stima, ho fiducia nel gruppo, evidentemente la coesione aumenta.

E’ importante per la coesione la stima che si ha nei riguardi del gruppo, dell’associazione come raggiungimento dei propri fini. Naturalmente questo discorso può essere ambivalente. Faccio un esempio: in qualche caso l’appartenenza, non so al Rotari, può essere motivata da ragioni di tipo economico strumentali, cioè io partecipo alle riunioni del Rotari, incontro un industriale, io sono un imprenditore, prendo contatto con questo industriale, faccio i miei affari. E’ chiaro che io stimo tantissimo questa appartenenza, ma, perché attraverso guasto gruppo io raggiungo i miei obiettivi. Ma ribaltiamo questo discorso e diciamo che i fini non sono quelli economici, ma quelli religiosi, ma quelli della solidarietà sociale, quelli della presenza nel sociale ed è chiaro che se i miei fini sono questi, io ho grande stima del gruppo cui appartengo perché attraverso questo gruppo riesco ad essere presente sul territorio, ad esercitare la mia carità verso l’altro, a sviluppare la mia sensibilità religiosa.

Le appartenenze, soprattutto in campo religioso, hanno una tipologia piuttosto variegata. Ne possiamo indicare cinque, andando anche al di là di quella che è la nostra esperienza particolare.

Si può appartenere ad una chiesa; si può appartenere ad una setta; si può appartenere ad una setta-istituzione cioè a qualcosa che è insieme setta ed anche istituzione; si può appartenere ad una denominazioone; si può appartenere ad un culto. Ecco queste sono le cinque categorie di appartenenza di tipo religioso.

Perché parliamo di sette, anche di denominazione e di culto? Perché in qualche caso la stessa appartenenza di chiesa, qual è l’esperienza a cui è chiamata la vostra associazione può assumere caratteri di setta, di denominazione, di culto, di setta-istituzione.

Veniamo al concreto e partiamo da quella che è l’appartenenza di base: l’appartenenza alla Chiesa. E’ in genere un’appartenenza per nascita, salvo poi, che uno nel corso della vita non decida diversamente; tanto è vero che quelli che sono nati in Italia, in linea di massima sono cattolici, o chi è nato in India di solito è un induista. Quindi, l’appartenenza alla Chiesa di solito è per nascita, ed è un’appartenenza istituzionalizzata, cioé la Chiesa è di per sé un’organizzazione con la sua struttura più o meno piramidale. E’ gerarchica, anche, questa appartenenza: papa, vescovi, superiora, presidente ecc.. Comporta dogmi cioè punti indefettibili, comporta disciplina: abbiamo anche uno statuto, comporta dei riti, comporta dei simboli: che può essere, poniamo, lo stesso fondatore o può essere anche il simbolo caratteristico di una Congregazione o di un’associazione.

Nella forma Chiesa vi è una tendenza all’universale: non a caso abbiamo qui anche Taiwan e vi è anche una propensione a convivere con la società, cioè non a prenderne le distanze, ma a stare dentro, stare insieme con la società che non avviene nell’altra forma setta. Peraltro, teniamo sempre presente che pur appartenendo alla forma Chiesa, vi possono essere anche dei caratteri di tipo settario.

Qual è l’elemento che caratterizza la setta? La setta è solitamente un dire di no al mondo, un dire di no alla realtà esterna, un non confondersi con il mondo. Si va un po’ per proprio conto. Però, nel caso della setta l’appartenenza è volontaria in genere si decide di aderire, non avviene per nascita. E si aderisce ad una setta dopo un’esperienza iniziatica, dopo una iniziazione, dopo un noviziato.

Nella setta vi è poca istituzionalizzazione, vi è poca sacramentalizzazione, vi è una tendenza ad isolarsi; le relazioni tra le persone sono molto semplici, magari c’è gerarchia, ma con due soli soggetti: il leader e tutti gli altri.

Avete capito da questi semplici passaggi come anche l’appartenenza di Chiesa può assumere caratteri di tipo settario. Si badi bene che io qui non sto esprimendo un giudizio di valore; no, sto descrivendo determinate realtà.

Terza forma: quella che mette insieme il carattere della setta ed il carattere della istituzione, cioè il carattere della setta e della Chiesa, perché la Chiesa è un’istituzione. Nella setta-istituzione abbiamo delle strutture legalizzate da norme, dallo statuto, dal regolamento e vi è una notevole vitalità di gruppo: il gruppo è molto dinamico, molto attivo, molto presente, si dà molto da fare in termini di proselitismo, di evangelizzazione, di diffusione del proprio credo.

Quarto carattere: le denominazione. La denominazione è tipica della fenomenologia religiosa degli Stati Uniti, dove

 Vale la pena accennare ai diversi caratteri differenziati delle Sette per capire anche che cosa è l’elemento tipico delle varie forme di sette. Vi possono essere sette-conversionistiche, cioè volte alla conversione, il cui obiettivo essenziale è la salvezza del maggior numero possibile di persone. Questo è un carattere tipico dei Pentecostali. Vi faccio questi esempi perchè vorrei che alla luce di essi si legga anche la propria esperienza, che può essere, poniamo, tendente a convertire tutti.

Vi sono anche altre sette che possiamo definire Avventiste e Rivoluzionare. Avventiste perchè c’è il solito discorso della venuta del Regno, della discesa di Dio sulla terra, e anche Rivoluzionarie, cioè che tendono a cambiare la situazione esistente. Un tipico esempio di Setta Avventista e Rivoluzionaria lo troviamo nei Testimoni di Geova.

Una setta peculiarmente introversa, che lavora cioè al proprio interno, in cui l’interiorità è il punto qualificante può essere quella dei Quaccheri diffusa soprattutto negli Stati Uniti. Facevano le loro città, facevano il loro commercio, vivevano per proprio conto.

Vi sono sette di tipo gnostico, di tipo esoterico. Anche in Italia si va diffondendo il Movimento della scienza cristiana, il quale fonda tutto sulla conoscenza del messaggio cristiano.

Non entriamo nei dettagli, ma completiamo il discorso sulla setta dicendo che, in genere, all’interno della setta c’è la ricerca della verità. Quindi, sono persone piuttosto inquiete sul discorso della verità. Non vi è un’appartenenza di Chiesa. Gli appartenenti cambiano molto spesso. Quindi, un’associazione in cui c’è un continuo cambiamento di persone diventa, appunto, una sorta di setta. In genere una setta comporta un’inadattabilità alle situazioni correnti. Vi è instabilità nell’ambito del gruppo di riferimento e vi è una grande suggestionabilità emotiva. L’appartenenza in genere si vi sono varie denominazioni religiose. Cioè non vi sono Chiese nel senso cattolico del termine, non vi sono sette, nel senso di tante esperienze religiose non di Chiesa, ma vi sono denominazioni, cioè tante maniere di chiamare la propria esperienza religiosa. Infatti, il fenomeno tipico per quanto riguarda la religione negli Stati Uniti è quello del denominazionalismo, cioè quasi ogni città ha una sua maniera di vivere la propria religiosità. Sono migliaia e migliaia le denominazioni religiose, soprattutto d’impronta protestante che si trovano negli Stati Uniti.

Qual è il carattere della denominazione? E’ di consentire anche altre partecipazioni sociali e persino religiose. Negli Stati Uniti, molto spesso, si ha questo tipo di fenomeno: si appartiene, poniamo, alla Chiesa Battista, ma si partecipa anche al culto Metodista e non è un caso che molte famiglie hanno, poniamo, il papà metodista e la mamma battista. Ecco il carattere tipico delle denominazioni: questa pluripartecipazione alle diverse esperienze religiose.

Ultima categoria, quella del culto, dove è fortissima la solidarietà affettiva tra i membri, tanto forte che se uno decide di suicidarsi, poi si suicidano tutti. Esempi di questo genere vi sono già stati nella storia, in particolare negli Stati Uniti. Gli adepti sono pochi, non vi è nel culto il carattere universale della Chiesa. Con Jim(?) John si suicidarono in Guiana tremila persone, le quali erano lo 0,00 della popolazione di duecentomilioni degli Stati Uniti. Quindi, grande solidarietà all’interno, pochi adepti isolati se ne vanno a vivere per proprio conto in Guiana e con una grande influenza locale. Per esempio è noto che la setta dì Jim(?) Johon coi caratteri tipici del culto aveva le sue radici soprattutto a San Francisco, dunque in un certo contesto specifico californiano.

Ricapitolando: Chiesa, Setta, Setta-Istituzione, Denominazione, Culto, muove lungo due binari: quello delle motivazioni e quello dei benefici. Però l’appartenenza risponde anche a dei bisogni, per esempio il bisogno di socialità, il bisogno di comunità, il bisogno di stare insieme. Nell’appartenenza si cercano risposte chiare agli interrogativi esistenziali. Nell’appartenenza di tipo religioso vi è una ricerca di trascendenza: di sperimentare la trascendenza attraverso il gruppo. Vi è anche una ricerca d’identità psicologica: una persona che è sola si inserisce in gruppo per sentirsi parte di qualcosa. E vi è anche una ricerca di identità culturale.

L’appartenenza ha però anche il carattere di una mentalità istituzionale, perché si appartiene a qualcosa che già è stato fatto; lo Statuto già è stato fatto, quindi, noi entriamo in qualcosa che altri hanno preparato per noi. Ma all’interno dell’appartenenza può essere molto sviluppato il senso della famiglia, ci si sente appunto una famiglia, ci si sente tutti un’unica comunità.

Ma, oramai, ci sono anche altre esperienze di appartenenza che si sperimentano. per esempio quella di una “rete aperta” cioè un’appartenenza che è certo alla propria associazione, al proprio gruppo, ma che non si chiude ad altri gruppi; possiamo sperimentare anche la collaborazione cori altri, non so, tra la vostra Associazione e l’Azione Cattolica, tra la vostra Associazione ed altri movimenti, quindi una sorta di trasversalismo di appartenenze.

Adesso affrontiamo quello che secondo me è il nucleo del discorso e lo dividiamo in tre punti:

Gli aspetti comunitari e istituzionali

Status e ruolo del leader e in particolare del sacerdote o del religioso/a nell’ambito di un gruppo

La dimensione della comunità, del gruppo, della Associazione.
Aspetti comunitari e istituzionali. Soffermiamoci sui costante, un grado inferiore per altro tipo di frequenza

Il ruolo del leader. Nell’ambito dell’esperienza cattolica sostanzialmente il leader tende ad essere molto istituzionalizzato, cioè riconosciuto, legittimato con un’investitura dall’alto, e quindi è sottolineata la sua ortodossia, perché è persona gradita a chi lo nomina. Però anche in questo ambito vi è una sorta di conflitto fra quello che è il proprio ruolo istituzionale di responsabile del gruppo e quello che è invece l’orientamento personale. Direi che una delle questioni problematiche ricorrenti in ambito istituzionale cattolico è proprio questo continuo conflitto tra quello che l’istituzione mi chiede e quello che io invece penso che sia opportuno fare. Qui vi possono essere delle propensioni ad una sorta di funzionarismo del proprio ruolo da parte del leader. Intendo dire che soprattutto quando si ha a che fare con grandi realtà, faccio l’esempio di una grande parrocchia qui a Roma, il parroco alla fine fa solo il funzionario. Come fa a seguire cinquantamila persone? Quindi la comunità è minata. L’esperienza della solidarietà è ridotta ai minimi termini, ed è chiaro che gli stessi rapporti interpersonali ne risentono; non vi è un rapporto a tu per tu. Tutto diventa minimo, ridotto, frantumato che non si vede nemmeno in termini di rapporto. E naturalmente qui il leader, religioso a può avere davanti a sé tre scelte: la prima è quella di prendere il proprio ruolo come chiamata all’interno dell’associazione, della parrocchia, del gruppo, ecc.; la seconda: come professione, cioè “io sono un uomo di Dio, faccio questo ogni giorno”. Il ruolo diventa quasi una sorta di abitudine, di abito mentale. La terza scelta è quella di una sorta di mestiere nel senso pieno del termine, cioè un esercizio quotidiano senza grande afflato. Queste sono le possibilità. Naturalmente non esprimo un giudizio di valore positivo o negativo sulla vocazione, sulla professione, sul mestiere. Di fatto queste sono le realtà che constatiamo.

Dimensione della comunità, del gruppo. Anche senza molto studiare in termini di psicologia e di sociologia, i Padri del Concilio di Trento avevano visto giusto, perché c’è un’espressione a proposito dei pastori d’anime che è fondamentale per il discorso sull’appartenenza e sul funzionamento poi dell’appartenenza. Già nel Concilio di Trento si diceva che il Pastore “debet suas ovescognoscere”, deve conoscere le sue pecorelle, se no come fa ad interagire con le sue pecorelle con i suoi parrocchiani con i membri del proprio gruppo?

Alcuni studiosi di pastorale hanno concluso in proposito che, per esempio, in termini di parrocchia l’ideale sarebbe avere non più di cinquemila abitanti perché al di là di questo poi i rapporti si sfilacciano, cioè non vi è reale conoscenza. Qualcuno arriva persino a dire che le parrocchie non devono essere troppo piccole perché altrimenti diventano un ghetto, diventano una setta, diventano un gruppo molto ristretto e quindi è bene che ci siano almeno trecento famiglie e quindi millecinquecento persone. Certo l’ideale è cinquemila, ma quando si arriva a cinquantamila il contatto personale non esiste.

Qual è la conclusione di questo tipo di discorso che abbiamo fatto sinora? E’ che aspetti comunitari, ruolo del leader e dimensione della comunità sono aspetti fondamentali per i buoni risultati dell’Associazione, del gruppo. Perché? Perché l’appartenente ad un gruppo deve sentire la sua filiazione come personale e il gruppo di appartenenza da una parte non deve superare certe dimensioni in cui si perde la possibilità del contato, ma non deve essere nemmeno troppo ristretto, perché altrimenti si rischia di rinchiudersi in se stessi.

Quindi, arrivando a delle conclusioni per quello che riguarda l’esperienza specifica della vostra Associazione: non si facciano gruppi di pochissime persone: tre quattro, cinque, ma nemmeno gruppi di cento, duecento persone. Forse, non è questo il caso, ma si tenga conto che va rispettata la fondamentale conoscenza reciproca. Quindi, non si può imporre dall’alto, poniamo con una circolare della Superiora Generale, tutta una serie di piccoli dettagli su che che cosa deve fare il gruppo, non so, di Grottaglie. Occorre rispettare lo specifico locale. E all’interno dello specifico locale, non ci si può ridurre a tre o quattro appartenenti, occorre avere una consistenza che consenta al gruppo di essere incisivo, influente, operativo nell’ambito del territorio.

Un sociologo francese di origine russa, sostiene  ?   che l’appartenenza più intensa ad un gruppo è la comunione. Naturalmente, non parlava di comunione eucaristica, ma parlava di comunione come grande socialità, grande disponibilità all’interno del gruppo. Egli diceva: “allora c’è comunione all’interno di un’associazione, o di un gruppo quando ogni appartenente al gruppo ha il senso del ‘noi “, cioè non dice più ‘io’, dice “noi” associazione, “noi” gruppo. Possiamo anche allargare il discorso e dire: questa comunione diventa anche una comunione con l’Altro e attraverso questo viviamo meglio anche la nostra comunione.

Conclusione

Delle tre colonne non fa problema l’ultima perché l’appartenenza c’è ed è vivace; la seconda fa qualche problema, ma in fondo qualcosa si fa per il gruppo; il punto delicato è quello della non appartenenza e allora cerchiamo di capire qualcosa di più in proposito. Per l’appartenenza ad un gruppo, ad un’associazione, a quello che sia, hanno un ruolo strategico, fondamentale gli anni della formazione, quindi la formazione è la leva su cui poggiare l’attività di un gruppo di un’associazione, tenendo conto che la formazione andrebbe sviluppata soprattutto in quell’arco di età 7-14, magari 7-12 per il discorso relativo alla Chiesa in modo tale da evitare un abbandono precoce sia della Chiesa, sia dell’esperienza in senso generale. Non possiamo dimenticare anche il fatto che la non appartenenza, la non adesione si ha anche a fronte di una buona istruzione religiosa. Buona sì, poniamo, di trasmissione di contenuti, ma non nel senso di radicamento di questi contenuti all’interno della persona. Molto importante è anche la famiglia di origine.

Nelle varie indagini che sono state fatte qui in Italia e anche altrove si dimostra che se c’è una famiglia religiosa di origine poi è abbastanza facile che i figli di quella famiglia siano orientati religiosamente.

La non appartenenza può dar luogo a dei valori sostitutivi, cioè a dei valori che sostituiscono i valori cristiani che in precedenza formavano l’oggetto di attenzione. E si può dar luogo ad una sorta di religione della non religione, poniamo: esaltare il discorso della libertà al massimo punto, sino a fare della libertà la propria religione e quindi questa scelta come legittimazione della propria non adesione ad una chiesa, ad un gruppo.

Però, non dimentichiamo, visto che vogliamo essere un’associazione attenta anche al mondo esterno, che i valori religiosi sono sempre presenti all’interno dei soggetti. E’ difficile che ai soggetti umani sfugga una qualche attenzione al discorso religioso. E spesso lo stesso ateismo, dice Fromm, può essere una via di ritorno alla Chiesa, cioè una ricerca, una sperimentazione, un desiderio di conoscere, di approfondire.

Mi avvio alla conclusione, ricordando quattro principi che sono decisivi ai fini dell’appartenenza.

Primo principio: quello della costanza cognitiva. Che cosa significa? Significa che l’appartenenza ad un gruppo diventa l’organizzazione storica del proprio pensiero nella misura in cui noi continuamente conosciamo secondo determinati modelli. La ripetizione di certi contenuti, l’approfondimento di certe letture, poniamo bibliche o di tipo catechistico, rappresentando la costanza cognitiva, rafforza l’appartenenza, quindi, è difficile poi che si vada al di fuori, perché si è abituati a nuotare in uno stesso fiume che continua.

Secondo aspetto. Vi possono essere all’interno dell’appartenenza delle condotte di difesa, cioè quasi a dire: io non voglio capire il resto perché sono convinto che ciò che sto praticando è la soluzione migliore.

Terzo aspetto: il principio selettivo della memoria. Noi siamo abituati anche al di là di una certa età, a conservare quelli che sono i residui religiosi dell’infanzia. Intendo dire che è vero magari che una persona non va più a messa e che non pratica più, però qualcosa sicuramente è rimasta, diceva anche Fromm, e su questo noi possiamo puntare per riaprire il discorso religioso.

Quarto aspetto: il sostegno sociale. All’interno di una cultura largamente cattolica come quella italiana, evidentemente, una scelta di tipo religioso-cattolico orientato può trovare alto consenso in senso più lato.

Credo che oramai tutti abbiamo constatato che vi sia una tendenza ad un rifiuto dell’appartenenza burocratica, un rifiuto del tesseramento all’interno di un’associazione. Vi è la tendenza ad un’appartenenza estesa, quasi di tipo ecumenico, con un pluralismo anche delle associazioni. Vi è un nuovo emergere di gruppi di interesse, ma anche qualche conflittualità, qualche operazione del tipo: partiti all’interno della medesima Chiesa. Vi sono problemi anche di rapporti con… La formazione di una cricca è segnale di qualcosa che non funziona. Può essere il segnale della possibile creazione di un altro gruppo, il che non è da considerare un fatto negativo perché nascono altre esperienze, nascono altre Congregazioni, altre associazioni la vivacità dei carismi si esprime in maniera assolutamente diversa, però la presenza di una cricca è un campanello di allarme. In termini di appartenenza qualcosa non funziona.

Interventi

Lo Statuto: se ci rifacciamo solo alla lettera, uccidiamo lo Spirito. Lo Statuto come tale è una prima formulazione. E’ un orientamento provvisorio. Tanto più sarà vivace l’Associazione, tanto più sarà in grado di innovare questo Statuto nel rispetto delle esigenze di coloro che aderiscono all’Associazione. Quindi, teniamolo come punto di partenza, a mano a mano che andiamo avanti lo riformiamo. Lo Statuto non è un dogma, non è un testo evangelico e quindi lo consideriamo uno strumento, un’ipotesi di lavoro. Approfondiamo stabiliamo noi stessi, anche per sentirci più coinvolti, che cosa fare in proposito. E’ chiaro che alla luce delle cose che ho cercato di dire sta mattina non è che lo Statuto risponda in pieno, è difficile poi dire in che percentuale, diciamo che in buona misura non risponde, quindi, diverse cose andrebbero riformulate, però è una traccia. Lavoriamo a livello locale poi riportiamo a livello generale quella che è la nostra esigenza e insieme si discute. Si potrebbe anche arrivare ad una sorta di Statuto universale e poi all’interno di questo Statuto universale si possono studiare dei regolamenti locali, perché ci possono essere esigenze diverse.

Nella misura in cui sviluppiamo questa esperienza noi saremo anche in grado di formare lo Statuto. Se viviamo almeno nello spirito dello Statuto attuale ci accorgeremo poi che cosa funziona e che cosa non funziona. E dalla base della Associazione stessa verranno le richieste di cambiamento.

La carta vincente di una forma associativa è la continuità, ed è la volontà di resistere nei momenti di maggiore difficoltà. Un movimento di carattere religioso che vedendo calare il numero dei membri decide di chiudere, fa una scelta non opportuna, perché questa situazione può essere momentanea, può essere una febbre di crescita, cioè la necessità di rivedere il proprio Statuto per cercare di renderlo più adatto all’esigenze del momento. Io ritengo che la continuità sia la soluzione per far sì che un’Associazione, una Congregazione, una presenza possa proseguire, senza lasciarsi abbattere dalle difficoltà del momento.

Nulla vieta che il nucleo centrale non pensi ad operare per sé come obiettivo centrale della propria presenza sul territorio, ma pensi a coloro che già avevano mostrato una certa sensibilità; non solo, ma insieme gli “istituzionali” e gli “spontanei” si pongano come proposta aperta alla comunità più vasta. Intendo dire che vi sono sempre dei promotori, vi sono coloro che poi si accodano, ma insieme gli uni e gli altri dovrebbero aprire questo ventaglio in modo da raggiungere il maggior numero possibile di persone con le proprie proposte. Nulla vieta d’altra parte anche che coloro che in precedenza e poi anche dopo preferiscono la soluzione della spontaneità non decidano, poniamo, di vedersi più impegnati anche in campo istituzionale.

E’ importante mantenere questo nucleo sempre attivo sempre presente, rivolgersi in maniera aperta agli altri e strada facendo non possono mancare delle adesioni più convinte, delle adesioni più sostanziali. E’ un problema anche di mentalità: l’Associazione non vive per se stessa, ma vive per ciò che è al di fuori dell’Associazione. Quando ci riuniamo come Associazione, non pensiamo solo al Ritiro spirituale per i soci dell’Associazione, pensiamo ad un Ritiro spirituale o ad un’iniziativa anche più attraente capace di cogliere i consensi degli altri, cercando di inserire una proposta, ma che sia sempre una proposta fatta in modo delicato, con grande rispetto degli altri. Ripeto: non guardiamo solo all’Associazione altrimenti essa diventa una setta, diventa un culto e poi in termini metaforici ci si suicida; perché visto che non si riesce a parlare con il mondo, che ci stiamo a fare? Il suicidio diventa di fatto la fine dell’Associazione.

La pluralità delle appartenenze sono un dato di fatto. Quanto alla positività o meno io credo al principio dei vasi comunicanti, nel senso che l’esperienza fatta in una certa realtà può essere utile anche alla realtà alla quale si appartiene in un altro momento. Le appartenenze plurime di per sé non sono un fatto negativo. Tranne il caso di persone che sono presenti dappertutto. Lì c’è un problema di tipo personale. Vanno fatte delle scelte. Ritengo che un’appartenenza plurima sia importante, ma non deve essere dispersiva. Ognuno deve dare più spazio a ciò in cui crede di più, e che in termini di metodo è più gratificante e porta a maggiori risultati.

Di per sé il conflitto in un gruppo non è negativo; è indice di dinamismo è indice di vivacità, significa che non c’è assuefazione a ciò che ha detto il leader o un altro membro del gruppo. L’importante è lo spirito con cui questo dissenso viene affrontato.

Qui faccio una proposta all’Associazione, alla Congregazione: conviene conoscere determinate tecniche di lavoro e di presenza all’interno di un gruppo. Intendo dire che uno degli obiettivi prossimi all’interno della Congregazione in generale è di studiare la così detta dinamica di un gruppo, cioè come si vive in un gruppo, quali sono i rapporti tra il leader, il contro leader il dissenziente colui che invece aiuta sempre il leader, ecc.. C’è una varietà immensa di comportamenti, ora se noi non li capiamo in termini scientifici, non possiamo risolvere il problema. Una delle finalità che un’associazione dovrebbe avere è anche capire meglio determinate cose. Siccome non sono specialista, la prossima volta possiamo chiamare qualcuno che abbia competenza in materia e sperimentare qui noi la dinamica di gruppo. La dinamica di gruppo non si fa con 45 persone, ma la possiamo fare con sei sette persone, magari divisi nelle salette con gruppi di approfondimento con un osservatore che guardando dall’esterno, vi dice che cosa è avvenuto e vi spiega che cosa si è creato in termini di reticoli, di rapporti, di contrasti, di consensi o mancati consensi. Qualche tecnica innovativa può essere quella di unirsi e di fare la cosiddetta “tempesta dei cervelli” che è una tecnica tipica di una dinamica di gruppo. Ci si riunisce attorno ad un tavolo ed ognuno dice la propria, poniamo, sulla situazione dell’Associazione, senza che ci sia la Superiora, la presidente, l’Assistente ecclesiastico/a, chiunque sia, a dire la sua. Ribaltando, insomma questa esperienza nostra di oggi: l’ideale sarebbe che ognuno possa avere uguale tempo e uguale possibilità di dire il proprio punto di vista.

Oggi questo non è avvenuto, speriamo invece che la prossima esperienza d’incontro associativo possa dar luogo a questo tipo di sperimentazione, che non è un fatto di laboratorio, ma si capisce meglio chi si è in prima persona e quali sono anche gli ostacoli creati alla comunicazione nel gruppo dalla propria incapacità di emettere correttamente i messaggi, di farsi capire e di capire le esigenze degli altri.

Noi dobbiamo mettere, in quanto responsabili di un gruppo tutti a proprio agio perché il gruppo sia interessante e possa raggiungere i suoi obiettivi, però visto che la realtà umana è così variegata, dobbiamo mettere in conto anche la possibilità di una diversificazione, cioè, poniamo, dell’abbandono del gruppo, ma sempre dopo aver fatto il possibile perché la questione si risolva. E’ ovvio che ad un certo momento non è che ci sono catene per trattenere persone all’interno di un’Associazione. E’ molto importante lo spirito solidale fraterno.