“Religione e sport. Tra rito e spettacolo”, El Futuro del Pasado, 6, 2015, pp. 87-111.

Roberto Cipriani


Religione e sport. Tra rito e spettacolo


Religion and sport. Between rite and spectacle


Riassunto


Sono numerosi i punti di contatto e le affinità fra religione e sport. Il che avviene sin dai tempi più antichi. Esemplare è il caso della Grecia, dove non a caso sono sorte le Olimpiadi in un contesto e con motivazioni a carattere tipicamente religioso.


La stessa ripresa dei Giochi Olimpici nel 1896 rappresenta un momento di svolta per la storia dello sport ma evidenzia anche le ragioni profondamente etiche (e religiose) che animavano il loro fondatore, il barone de Coubertin.


Oggi sotto diverse forme ed in situazioni favorevoli il legame fra religione e sport si va rafforzando tanto da poter verificare la presenza di riti, preghiere, formule, gesti, simboli e ruoli tipicamente religiosi anche in avvenimenti sportivi, nel corso della loro preparazione come nelle fasi successive allo svolgimento delle competizioni.


Vari studi sul campo mostrano che specialmente entro modelli d’ispirazione cristiana vigono e si diffondono pratiche religiose che accompagnano da vicino le dinamiche relative all’organizzazione di gare in diversi sport, a partire dai momenti fondativi per giungere sino ai processi di legittimazione delle memorie del passato.  


Soprattutto nel campo del calcio esistono forme di divismo, movimenti parareligiosi e culti propiziatori ed esorcistici tesi ad ottenere risultati agonistici continuamente positivi.


Abstract


There are many convergences and affinities between religion and sport. This happens since long time ago. Grrece is a good example for this. The Olympics were born there because of a religious context.


The modern Olympics started in 1896 as a turning point in the history of the sport. Their roots were both ethical and religious, if we consider the person of the founder, de Coubertin.


Today the link between religion and sport is well evident, and it is more and more stressed through rites, prayers, gestures, symbols, and many other modalities, that are present in sport events, their preparation, and following moments.


Sociological studies confirm a relevant presence of religious inspiration for sport activities, which are accompanied by religious practices and behaviors, from their foundation till the legitimation of past memories.


Namely in soccer competitions para-religious movements and cults are active in order to reach positive results, in a continuous search for the victory.   


Parole chiave: sport, religione, rito, spettacolo


Keywords: sport, religion, rite, spectacle


Premessa


Sul rapporto fra religione e sport è emblematico il caso del Belfast Celtic Football Club, una squadra di calcio vincitrice di 71 honours (compresi 48 titoli) in oltre mezzo secolo di attività, dal 1891 al 1949, anno del suo scioglimento e dunque ritiro da ogni competizione. Così squadra e tifosi persero il loro Paradise (Coyle 1999), come veniva chiamato il campo di gioco situato nella parte occidentale della città, sulla Donegall Road di Belfast: era il Celtic Park (oggi divenuto un centro commerciale). I nomi di Paradiso e di Celtic Park erano peraltro i medesimi già in uso pure a Glasgow, in Scozia. Infatti la comunità cattolica nazionalista nordirlandese aveva preso come riferimento il forte valore simbolico del Celtic Football Club di Glasgow, squadra scozzese per antonomasia, fondata appena tre anni prima, nel 1888.


Fu nel 1920 che lo stesso Belfast Celtic Football Club venne escluso per la prima volta dal campionato, per un periodo di quattro anni, a seguito della tragica vicenda ricordata sotto il nome di Bloody Sunday, per la morte di 14 spettatori ed un calciatore, durante dei disordini poi sedati con un pesante intervento della polizia britannica. La successiva proibizione di partecipare alle gare colpì alla fine una squadra caratterizzata dall’essere prevalentemente di orientamento indipendentista e cattolico.


Oggi una certa continuità “spirituale” con il Belfast Celtic Football Club è garantita dal Cliftonville (fondato nel 1879) ma anche dal Donegal Celtic Football Club (fondato nel 1970, sempre nella zona occidentale di Belfast), già vincitore di 25 trofei finora. La continuità è assicurata anche dal colore della maglia ufficiale del Donegal, ancora a strisce verdi e bianche orizzontali come quella del Belfast Celtic F. C.; ma un’altra connessione è data anche dai disordini avvenuti prima, durante e dopo la gara per la Coppa d’Irlanda del 1990 fra il Linfield (258 trofei, di cui 51 titoli nazionali, in oltre 120 anni) ed il Donegal: ci furono cinquanta feriti (ufficialmente dichiarati), ma verosimilmente  anche di più, giacché molti dei bisognosi di cure non avevano fatto ricorso agli interventi medici in strutture pubbliche per il timore di essere riconosciuti quali protagonisti dei riots avvenuti.


Il contrasto con il Linfield era di vecchia data, perché si trattava della medesima squadra di matrice protestante già coinvolta nel Boxing Day (26 dicembre) del 1948, che aveva visto l’invasione del campo di gioco da parte dei tifosi dei blues per assalire i calciatori in bianco-verde del Belfast Celtic, in particolare un attaccante di religione protestante ma militante nella squadra “sbagliata” (perché di ispirazione cattolica): si chiamava Jimmy Jones e ne ebbe una gamba spezzata.


La storia del Belfast Celtic F. C. non si è però del tutto conclusa. Essa continua grazie agli auspici ed alle iniziative della Belfast Celtic Society, che dal 2003 mantiene viva la memoria del glorioso club di cui porta il nome. Però la storia non si è conclusa soprattutto perché il Cliftonville perpetua nell’Irlanda del Nord la tradizione di una società sportiva cattolica di calcio e di atletica. Gli avversari di sempre restano quelli del Linfield ed altresì del Glentoran (vincitore della Coppa d’Irlanda nel 2015), società entrambe di origini protestanti ed unioniste (favorevoli ai legami con il Regno Unito).


Oggi il Cliftonville non disdegna la partecipazione di tifosi e calciatori protestanti nelle proprie fila. Lo stesso dicasi, a prospettiva rovesciata, per la società dei Crusaders (fondata nel 1879), insediata in un quartiere protestante, ma disponibile a considerare favorevolmente nel suo ambito la presenza sia di atleti che tifosi di confessione cattolica.


L’intreccio inestricabile fra religione e sport è dunque ancora una volta confermato, quale che sia l’esito concreto, a livello di atteggiamenti e comportamenti. Sta di fatto che la difesa di ideali a contenuto spirituale fa leva sulla veicolazione sportiva per affermarsi e riaffermarsi in un contesto che è competitivo-conflittuale sul piano delle appartenenze di base e che offre attraverso la pratica sportiva un terreno, magari erboso, sul quale incontrarsi, confrontarsi, scontrarsi. Qualche volta la passione è così possente da produrre gravi conseguenze, come provano gli eventi del Bloody Sunday del 1920 e del Boxing Day del 1948. Ma sono appunto tali tragici episodi che comportano poi decisioni drastiche: l’esclusione dalle gare o l’abbandono dell’attività sportiva. Salvo poi recuperare presenze e simboli sotto altra veste, in una continuità ideale tra passato e presente, volta a ribadire i principi originari, i valori di riferimento, le credenze di base.


In ogni caso si tratta di legittimare e consolidare una propria identità religiosa (e politico-ideologica insieme, nell’Irlanda del Nord o in Scozia ma anche altrove nel mondo). Ed altresì di trovare nella pratica sportiva una via d’uscita, una sorta di compromesso che ripropone la propria visione della realtà, si contrappone ad altre letture della società, si giustappone al dibattito sempre in atto, si espone ad una verifica continua della propria tenuta in termini di immagine pubblica e condivisa. Insomma una squadra di calcio può anche rappresentare un’estensione spaziale della comunità religiosa di riferimento ed il campo di gioco diventa un ulteriore tempio in cui esprimere il proprio credo e le proprie convinzioni. Ed anche il tempo del sacro si espande: dalla celebrazione del culto festivo (o prefestivo del sabato) a quella del match in un luogo che molto eloquentemente può chiamarsi non a caso “Paradiso”.


Una vecchia storia


Agli albori della storia vi è certamente l’incontro fra individui umani che devono decidere il loro comportamento, ovvero l’agire concreto giorno per giorno. La decisione non può non derivare dal calcolo che si fa della presenza altrui e dell’ambiente circostante.


Ma è prioritariamente la presenza di un essere mobile, umano o animale che sia, ad influenzare l’esercizio di una volontà in merito. Specialmente quando l’alterità non è conosciuta occorre fare rapidi conti e costruire scenari immediati su quelle che possono essere le prospettive susseguenti.


Ecco dunque che nascono timori ed aspettative ma anche progetti sul da farsi. Insomma è – detto in termini a noi contemporanei – l’ennesima partita a scacchi che viene giocata sulla base dei rischi di perdita e sulle potenzialità di acquisizione: il dilemma rimane identico, cioè se “mangiare” o “essere mangiati”. Esattamente quanto avviene ancora oggi in una circostanza di caccia grossa o in uno sport estremo dove è in gioco la vita stessa.


Ed appunto la vita è la posta in gioco nel momento in cui si pensa direttamente alla propria esistenza: che significato ha? A chi serve? A che cosa serve? E dopo la sua conclusione è davvero tutto finito? Qui la risposta viene anche dalla religione ovvero dalle religioni oppure dall’assenza di qualunque riferimento ad una dimensione metafisica.


Ma ritorniamo al punto di avvio. L’impatto fra due esseri viventi non è mai senza conseguenze: si può cooperare o confliggere od anche ignorarsi a vicenda (o da parte di uno solo dei due individui).


Comunque un confronto ha luogo. Ci si scruta per capire le caratteristiche e segnatamente le intenzioni dell’altro. Poi si decide il da farsi, commisurandolo alle informazioni raccolte nel giro di qualche istante, dunque in modo del tutto estemporaneo.


Dopo le prime mosse da entrambe le parti è possibile delineare un primo quadro situazionale, che risulta fondante per le dinamiche successive. In fondo ancora una volta si verifica l’impasse tipica del noto dilemma del prigioniero: avere fiducia o diffidare, collaborare o tradire? Una volta instaurata una certa dialettica più o meno amicale, discorsiva, od invece più o meno conflittuale, dissenziente, il seguito è direttamente conseguente e dà luogo a vittorie e sconfitte or dall’una or dall’altra parte.


In questo succedersi di andamenti si accumulano esperienze e know how, che orientano atteggiamenti e comportamenti quasi senza soluzione di continuità. In tal modo si costruisce la storia di due individui come di un gruppo, di una comunità come di un’intera società. I tratti peculiari di tale storia contrassegnano individui e popoli e ne definiscono i profili tipici ossia le propensioni ricorrenti più prone a percorsi pacifici o bellici, sovente con alternanze fra l’uno e l’altro trend. Così si producono sequenze ora più tranquille ora più movimentate. Da tale alternarsi deriva di fatto la possibilità di esperire un diverso tipo di confronto: solitamente amichevole, sportivo, in tempi di pace, ovviamente aggressivo, sregolato, in tempi di conflitto armato. Le storie dei popoli di ogni continente sono costellate di queste vicende contrastanti. Il che fa pensare ad una vera e propria costante sociologica ed antropologica rappresentata dal continuo ricorso a forme competitive più o meno accentuate, che “sul campo” si divaricano fra soluzioni tipiche dello sport o al contrario del πόλεμοσ (pólemos).


In assenza di guerre vere e proprie non è un caso che proliferino formule funzionalmente sostitutive quali i giochi di guerra, realizzati dal vivo con armature ed armi od anche virtualmente mediante videogiochi, che fanno uso di softwares sofisticati, appositamente studiati per soddisfare “istinti ed istanze” di giocatori agguerriti e ben disposti ad affrontare le sfide più difficili.


Il mito ed il rito olimpico


Antropologi e sociologi si sono interrogati a lungo sui legami che uniscono il mito al rito e ne hanno discusso valenze e significati, premesse e conseguenze, origini e sviluppi. Una costante pare confermata: a partire da una narrazione fondatrice, a carattere sovente leggendario, si creano forme e formule che mirano a riproporre il mito, che viene ri-narrato in nuove modalità strutturate e ripetute, codificate e controllate. La religione nasce da un racconto originario, magari raccolto anche in forma scritta, nei cosiddetti testi sacri, che legittimano a futura memoria gli eventi straordinari ed ordinari del passato e danno vita a letture ed esegesi che mirano a consolidare l’affidabilità dei documenti di riferimento. Solitamente attraverso il rito si ripercorre in modo formalizzato e liturgicamente modulato ed accentuato quanto raccontato in precedenza con accenti e toni di meraviglia (e magari rammemorato esplicitamente nella celebrazione rituale). Il passaggio dal mito al rito riduce in particolare la distanza che intercorre fra l’essere umano e la divinità.  


Si deve a Victor Turner (1982) lo spunto più suggestivo in tale ordine di fenomenologie individuali e sociali. Quando egli parla di performance il rinvio è ad una rappresentazione, ad una teatralità che racchiude in sé l’essenziale del discorso in atto. L’atto performativo serve a far transitare attraverso la (più o meno nuova) forma quello che è già stabilito, noto, di dominio cognitivo condiviso. Gli astanti anche se non sono protagonisti assoluti sanno che cosa si sta operando: una per-formazione ovvero una tras-formazione, un mutamento in senso proprio. Per cui, ad esempio, se un’opera teatrale è in grado di far rivivere un’epoca ed un’epopea, allo stesso modo una celebrazione religiosa ricorda un momento fondativo del culto in essere ed una gara sportiva è il punto di arrivo di una lunga preparazione previa che sfocia alla fine nel rito del confronto interpersonale, che può trasformare un semplice dilettante in un grande campione da osannare quasi negli stessi termini di una divinità.


La triplice dimensione di struttura, liminalità e antistruttura prospettata da Turner è applicabile sia ad un rito religioso che ad una competizione sportiva. Tutta la fase preparatoria ha il carattere della struttura previa, che è di premessa a quanto verrà dopo. C’è bisogno infatti di qualcosa di solido, abbastanza valido ed empiricamente verificabile, per garantire la fattibilità di qualcosa di significativo ed anche capace di produrre mutamenti sostanziali. Segue la fase della liminalità, che è insita nel rito medesimo ma non giunge sino al suo termine, giacché nel frattempo sarà emersa la cosiddetta antistruttura, cioè il nuovo status, dovuto al vissuto rituale esperito. E dunque dalla celebrazione religiosa deriverà una purificazione re-innovatrice, mentre dalla tenzone agonistica scaturirà una nuova e diversa consapevolezza del sé, esaltato od anche solo confermato, in base all’esito della competizione (ma talora anche mortificato in caso di sconfitta o mancata riuscita).


A sostegno del tutto vi è quasi sempre una communitas di appartenenza e/o di sostegno, che presenzia ai momenti strategici della lotta tra contendenti e fazioni e prende parte attivamente in favore dei suoi membri riconosciuti e riconoscibili. Si spalleggiano così i difensori di una fede religiosa o di un club sportivo, si acquistano oggetti-ricordo e gadgets di ogni genere per sottolineare la propria affiliazione. Si cerca di evitare anche in tal modo gli scismi e le separazioni, puntando a rafforzare la solidarietà di gruppo e di squadra. Appare evidente dunque che la stessa continuità è fondamentale per rinsaldare vincoli e ribadire la propria adesione ad un’idea, ad un simbolo, ad un riferimento valoriale, sia esso rappresentato da una confessione religiosa di cui si è fedeli come da un team sportivo di cui si è fans. Per confermare i vincoli di affiliazione si può far ricorso ad un tempio monoteista o ad un panteon di divinità, ma pure ad una Hall of Fame che celebri i grandi divi (passati o ancora viventi) di uno sport individuale o di squadra. Ed allora si ricordano i defunti e tutti i santi ma non mancano memorials in onore di soggetti specifici e quindi dedicati a chi ha ben meritato come atleta o dirigente o tecnico.


Il rito accompagna spesso momenti di vita individuale e sociale: nel recitare un’orazione o nel compiere atti abituali, a carattere scaramantico o meno, prima di una prova decisiva o di un match. Soprattutto nell’ambito culturale il rituale è piuttosto presente e diffuso. Esso ha un carattere anche profetico perché anticipa un futuro possibile e produce di fatto un cambiamento, fosse pure solo di un’opinione estemporanea su una questione esistenziale.   


In fondo religione e sport si fondano entrambi sulla tradizione ma non disdegnano anzi valorizzano la trasformazione, il mutamento. Tale andamento può riguardare idee e metodi, contenuti e forme. Nel mondo cristiano (per restare entro un contesto ben noto in Europa) la celebrazione eucaristica odierna segue schemi del passato ma si apre a soluzioni diversificate, nella lingua e nella musica, nella parola e nel canto, nell’estetica e nella comunicazione, nel  mondo sportivo in generale molte regole di base hanno radici secolari, ma i sistemi di allenamento, le tattiche di gioco, le strategie organizzative, i metodi di gara (in precedenza in campo calcistico esisteva il “metodo” per eccellenza, fondato sul ruolo principe del centromediano, oggi però tutto si basa su altre sequenze numeriche: non più il 2-3-5 del Metodo (contrapposto al Sistema basato principalmente sul 3-2-2-3) ma il 4-3-3 oppure il 4-4-2 od anche il 3-4-3 (abbastanza affine al vecchio Sistema)ed altro ancora per indicare lo schema di schieramento dei calciatori in campo, eccezion fatta per il portiere che comunque è bene non si allontani troppo dalla porta che deve difendere, a baluardo del santuario da proteggere, da conservare intatto, inviolato, appunto un sancta sanctorum).


Nelle culture religiose ancestrali è l’indovino, lo sciamano, l’uomo-medicina, a decidere delle sorti dei singoli e dei loro gruppi primari, nelle pratiche sportive è l’allenatore, il trainer, il mister che gioca quasi lo stesso ruolo dello stregone di un villaggio, ovvero di colui che sa, che suggerisce, che indirizza, che cura. In questo processo vi sono soggetti che vengono preferiti ad altri, scelti a fini promozionali, di valorizzazione, ma nel contempo ci sono coloro che non godono del favore degli dei che sembrano avere delegato ad altri, a degli umani, sacerdoti ed arbitri-giudici il loro potere d’intervento.  


Forse l’espressione massima e più evidente della correlazione fra religione e sport si rintraccia invero nell’istituzione dei giochi olimpici. Olimpo era il luogo ove risiedevano gli dei ed a Olimpia, nell’Elide, c’era un frequentatissimo santuario (un tempio venne costruito fra il 471 ed il 456 avanti Cristo) dedicato a Giove Olimpo (di cui Fidia scolpì una celebre statua).


In occasione delle gare che vi si svolgevano c’era abitualmente la divinazione dei nomi dei trionfatori, ai quali poi le città di provenienza erigevano delle statue, che nel piedistallo portavano l’iscrizione dei trionfi conseguiti.


Giustamente si esordisce, parlando de I Giochi Olimpici dall’antichità ai giorni nostri (Teja, Ristori 1999: 11), con la seguente affermazione: “I Giochi Olimpici, espressione della religiosità del popolo greco, furono un’occasione rituale e al contempo agonistica in cui la vittoria ad una gara costituiva un punto di contatto tra l’atleta e la divinità, oltre che preghiera ed ossequio del vincitore”.


Anche in epoca contemporanea si è potuta registrare una confluenza fra il sacro e lo sport, in particolare fra la Sindone di Torino e le Olimpiadi invernali del 2006, allorquando si è manifestata una chiara sovrapposizione devozionale e promozionale, allo stesso tempo ed allo stesso modo, fra religione e sport (Tilson 2009).


L’agone è strumento di “indiamento”, di relazionalità con il divino, una sorta di religione esperita dall’atleta in forma speciale. Insomma si può definirla una scelta divina od almeno una vocazione sui generis con contenuti pre-weberiani, dunque indipendenti da dinamiche socio-professionali ed economiche (Weber 1988).


La vittoria era anche una specie di preghiera dedicata al dio o agli dei. Insomma rappresentava un atto di omaggio al potere soprannaturale. Ma sia la preghiera che l’ossequio potevano coinvolgere gli spettatori e gli altri atleti non vincitori, pronti a riconoscere e la superiorità del vincente e, soprattutto, l’onnipotenza delle divinità olimpiche.


Per questo si ribadisce opportunamente che “non potremmo capire nulla del fenomeno delle Olimpiadi nell’antichità se non cogliessimo innanzitutto il loro profondo significato religioso” (Teja, Ristori 1999: 11). Fra l’altro la celebrazione olimpica è un segno evidente dell’assenza di guerra e dunque della possibilità di vedere gareggiare concorrenti delle più diverse provenienze territoriali.


Neppure va sottovalutato il carattere precipuamente sociologico dello svolgimento delle tenzoni olimpiche. Queste ultime rientrano appieno nella nozione di fenomeno sociale totale coniata da Marcel Mauss (1923). “Era un fenomeno totale con aspetti religiosi, culturali, politici, militari, sociali, economici e psicologici differenziati ma che vanno collegati se si vuole pienamente conoscere, capire, interpretare i primi Giochi Olimpici”, come avvertono Teja e Ristori (1999: 11). Talmente totale da aggregare e congregare città fra loro avverse, Atene e Sparta insieme, ancora avversarie ma senza spargimento di sangue, rappresentate dai loro atleti migliori.


Non è facile individuare quale mito, quale leggenda stia alla base delle Olimpiadi e ne sia la ragione dell’inizio. Nondimeno traspare in ciascuna delle narrazioni un’aura sacrale, che è caratteristica anche della città Olimpia, tuttora. Secondo Pausania (II secolo dopo Cristo), nel tomo V (10, i) della sua Descrizione della Grecia,il nome di Olimpia ovvero Altis deriverebbe dal bosco sacro ἄλσος (alsos) che la circondava e che era dedicato a Giove. Plutarco, vissuto tra il 46/48 ed il 125/127 dopo Cristo, è d’accordo (Licurgo, 1, 1) con Pausania (tomo V, 20) nell’attribuire all’oracolo di Delfi la decisione di istituire i Giochi nel 776 avanti Cristo (come testimoniato da un disco di bronzo conservato nel tempio di Era e di cui parlano sia Pausania che Plutarco).


Ad Olimpia, divenuto santuario panellenico, si recavano per la festa e per le gare molti pellegrini, grazie ad un salvacondotto, data la pace divina o ekecheiria (ἐκεχειρία).


Il cimento atletico era la corsa di 192 metri, lo stadio appunto. Probabilmente vi erano anche gare solo femminili di tipo cultuale dedicate ad Era, le Heráiai (ʻHραίαι), che vedevano la partecipazione di vergini che offrivano un peplo alla divinità. Si ipotizza che la corsa femminile fosse anche più antica delle stesse Olimpiadi.


I sacerdoti stabilivano le giornate di gara in modo da collocarle durante il secondo o terzo plenilunio d’estate, cioè in coincidenza con riti ritenuti abbastanza peculiari.


Va ricordata pure l’importanza del periodo pre-olimpico, consistente in una preparazione di trenta giorni attraverso prove ed allenamenti rituali. Tutti i presenti (atleti, accompagnatori, giudici, allenatori) seguivano un rigido regolamento comportamentale, giacché erano praticamente in ritiro pre-gara, in isolamento, come in attesa di un rito iniziatico.


Prima delle Olimpiadi si faceva un solenne giuramento a Giove sulla correttezza della preparazione e sul divieto di ricorrere a modi illegittimi nella predisposizione e nello svolgimento delle gare.


La pace olimpica era annunciata da messaggeri in tutta la Grecia ma era piuttosto un momentaneo periodo di non belligeranza, durante il quale andavano osservate alcune norme di inviolabilità di luoghi sacri, dove si accedeva inermi.


Un consiglio supremo, di cui facevano parte anche sacerdoti, salvaguardava le regole delle gare o le innovava se necessario. Inoltre gli ellanodíkai (ʻΕλλλανοδίκαι) in quanto giudici potevano comminare sanzioni in caso di inadempienze. La pena consisteva di solito in una multa pecuniaria da destinare alla costruzione di statue bronzee in onore di Giove.


La cerimonia inaugurale prevedeva un corteo processionale di atleti, giudici, allenatori, sacerdoti, magistrati, spettatori, lungo la Via Sacra da Elide ad Olimpia. Alla fonte Pieria tutti si purificavano. Alla vigilia delle competizioni si dormiva nel bosco sacro.


Lo stesso Caillois (1995: 79) è convinto che “erano prima di tutto una sorta di culto, la liturgia di una cerimonia sacra”.


Il primo ed ultimo giorno si svolgevano cerimonie religiose. Il terzo giorno si celebrava un grande sacrificio agli dei con l’uccisione di cento animali, dati in pasto a tutti nel convivio conclusivo.


Nel 392 l’imperatore cristiano Teodosio, amico di Ambrogio vescovo di Milano, proibì le Olimpiadi, come del resto tutti i riti e giochi pagani, ma nel frattempo lo stesso presule aveva condannato il capo supremo dell’impero, escludendolo dai sacramenti, a seguito della sanguinosa repressione-massacro dei tessalonicesi, rei di aver ucciso Buterico, comandante imperiale.


Il barone de Coubertin, che molti secoli dopo rilanciò i Giochi Olimpici, ripresi ad Atene il 5 aprile 1896, aveva ricevuto un’educazione fortemente religiosa, giacché aveva studiato in un collegio ecclesiastico.


Suoi emuli, per così dire, nella diffusione degli ideali sportivi ma con finalità prettamente religioso-educative furono in Italia san Leonardo Murialdo (1828-1900) e san Giovanni Bosco (1815-1888), i quali, definiti “santi educatori dell’800”, “sono dei punti di riferimento incontestabili per quanto attiene questa attività” e “cominciano ad organizzare all’interno di ricreatori e scuole una attività motoria di tipo popolare (sarebbe interessante vedere quanto ciò si estende, in seguito, a livello delle società di mutuo soccorso e operaie di orientamento socialista) che viene modificandosi nella misura in cui penetra in Italia, dall’Inghilterra e dalla Francia, lo sport moderno, frutto anche della nuova organizzazione strutturale della società borghese” (Martini 1976: 119).  


Peraltro “vi erano i cattolici liberali che accettavano il nuovo stato italiano e si mostravano ‘possibilisti’ nei confronti della società industriale. Era fra questi che si collocavano i praticanti e i divulgatori dell’idea di uno ‘sport per tutti’ e che intendevano promuoverne soprattutto i valori della cooperazione di squadra più che esclusivamente quelli della competizione che circolavano invece assai più fluidamente nell’importato ideale dell’athleticism d’oltremanica” (Lo Verde 2014: 75).


Elementi filosofici ed antropologici nella connessione fra religione e sport


Secondo Hessen (1959: 81) un ruolo significativo avrebbe svolto per la promozione dell’educazione un vescovo, William di Wykeham, che nel secolo XIV fece costruire il New College di Oxford, aiutò gli studenti meno abbienti e diede una svolta al sistema formativo del collegio di Winchester.


Ancora un inglese, Thomas Arnold, diacono della Chiesa d’Inghilterra, qualche secolo dopo, nell’Ottocento, dava una nuova spinta all’impegno educativo e religioso, facendogli recuperare una dimensione pratica e di fatto uno spazio adeguato per l’attività fisica. Fu lui, come direttore di scuola a Rugby, a volere un programma sportivo, aggiuntivo al curriculum ordinario. Pensava al rafforzamento del carattere degli alunni ed al potenziamento delle loro possibilità di scelte autonome. Si trattava perciò di fornire un carattere morale all’esercizio sportivo. Si riprendeva così il filone della classicità greca e dello spirito di Olimpia, trascurato per secoli anche grazie all’intervento della Chiesa che vietava i giochi definiti “pagani”, sovente sanguinosi e letali.


Nel frattempo dopo la progressiva diffusione dei processi democratici, a partire ancora dall’Inghilterra ed in particolare dalla Magna Charta libertatum del 1215, anche lo sport andò affermandosi sempre più. Fu J. B. Basedow, sulla scia di Jean-Jacques Rousseau a rivalutare il gioco infantile, mentre Guth Muths propugnò la pratica dell’educazione fisica. Un altro imporrtante contributo venne da F. C. Jahn che riprese lo stimolo dell’educazione sportiva proveniente dall’antica Grecia e lo diffuse nell’area tedesca nella prima metà dell’Ottocento, con un taglio nazionalistico.


Alla fine si diede l’occasione al liberale cattolico De Coubertin di rifondare le Olimpiadi, con uno spirito solidaristico memore della lezione durkheimiana. E si giunse a parlare di una religione dell’atleta (religio athletae) secondo un’espressione dello stesso De Coubertin.


A dare man forte alla prospettiva decoubertiniana intervengono nel corso del Novecento due autori della stazza di Huizinga (1939) e Caillois (1967, 1995). Il primo attribuisce al gioco un ruolo primario nelle società e nelle culture. Il secondo insiste sul carattere incerto di ciò che è ludico. Entrambi riconoscono una dimensione di separatezza, di differenziazione, che ha del “magico” (Huizinga) ma pure dell’aleatorio (Caillois). Se però è vero che nel medesimo anno del volume di Huizinga aveva Cailloi a sua volta scritto su L’uomo e il sacro, nondimeno quest’ultimo toglie un certo carattere sacro al gioco già proposto dallo stesso Huizinga. Come opportunamente rileva Pier Aldo Rovatti (Caillois 1995: IX-X), “il giocatore d’azzardo, che è certo la figura sulla quale il lavoro successivo sui giochi fa centro, ha a che fare con il sacro, e precisamente con il ‘sacro di trasgressione’, come lo chiama Caillois, nella sua vocazione alla ‘perdita’. Ma Caillois scorge una precisa differenza tra la dimensione religiosa con il necessario investimento che la accompagna e la dimensione ludica la quale invece rimanda solo a se stessa in una sorta di auto-investimento. Caillois non nega che molti giochi, se andiamo a vederne le origini, ci riconducano alle pratiche religiose, ma poi se ne separano e si affermano nella loro specifica gratuità di giochi. Per esempio, il gioco del pallone, che oggi è diventato un fatto sociologico di primaria importanza, presso i Maori è un rito che si collega ai miti della conquista del cielo: la posta in gioco, e cioè il pallone medesimo, rappresentava il sole. Ma poi il gioco del pallone, fino all’attuale football, si sgancia da questo teatro del mito e il pallone cessa di rappresentare il cielo da conquistare. Il gioco diventa, ed è, un rito senza mito, anzi un rituale: qualcosa di meramente profano opposto – si direbbe – al sacro, in cui il divertimento non ha più nulla a che fare con la tensione religiosa: e anche la ‘trasgressione’ del giocatore d’azzardo va intesa come qualcosa di puramente profano, un paradossale sacro-profano nettamente ‘separato’ dall’esperienza religiosa”.


Il gioco si sviluppa sostanzialmente in due modi: come ludus, in quanto propensione a superare una difficoltà, ad esercitare ragionamento, connessione, capacità di attesa e misura del da farsi, cimento con se stessi. Nella paidia invece vi è più sregolatezza, confusione, assenza di calcolo, abilità innovatrice e fantasia nell’azione, per cui ci si diverte maggiormente.


Come noto, sono quattro i momenti o le forme del gioco individuate da Caillois: agonaleamimicry e ilinx, ovvero competizione, sorte, maschera e vertigine. La competizione mette in gioco il sé, la sua padronanza, la fiducia nelle proprie potenzialità ed è fatta di corse, combattimenti, prove atletiche. Nella sorte c’è passività, affidamento al caso, dunque non si può pensare a qualcosa di affine allo sport. Nella maschera vi è un mimetismo che permette piacevolmente di uscire da se stessi, ma in modalità imitative non agonistiche. La vertigine infine è il fulcro del gioco, la sua realizzazione massima e si ritrova in forme sportive come lo sci e l’alpinismo.


In generale il gioco rimane libero, separato, incerto, improduttivo, regolato, fittizio (Caillois 1995: 26). Ma sono varie le combinazioni possibili: agon-alea, cioè competizione-caso; agon-mimicry, cioè competizione-imitazione; agon-ilinx, cioè competizione-vertigine; alea-mimicry, cioè caso-imitazione; alea-ilinx, cioè caso-vertigine; mimicry-ilinx, cioè imitazione-vertigine (Caillois 1995: 89).


Quanto la dimensione religiosa sia più volte concomitante con quella ludica è ripetutamente ribadito da Caillois (1995: 99): “nell’antichità , il ‘gioco del mondo’ è un labirinto all’interno del quale si spinge una pietra – cioè l’anima – verso l’uscita. Con l’avvento del Cristianesimo, il tracciato si allunga e si semplifica. Riproduce la pianta di una basilica: si tratta di far arrivare l’anima (di spingere il ciottolo) fino al Cielo, al Paradiso, alla Corona o alla Gloria, che coincide con l’altare maggiore della chiesa, schematicamente rappresentata sul terreno da un seguito di rettangoli”.


Sport, religione e società


In definitiva non si verifica alcuna soluzione di continuità, giacché in un modo o in un altro la sfida continua, sia essa regolata da arbitri e giudici sportivi, sia essa affrontata in assenza di regole con il solo obiettivo di creare il danno maggiore possibile all’avversario.


Tale opzione volta tendenzialmente al confronto come prassi ricorrente è diffusa ed anche teorizzata sociologicamente pure in favore di soluzioni guerreggiate. Il caso di sociologi della statura di Max Weber e Georg Simmel fautori, senza riserve, dell’intervento armato, in occasione della prima guerra mondiale, la dice lunga sulla pervasività della tendenza alla competitività, nel tentativo di affermare o riaffermare la superiorità propria o della propria nazione, in risposta al desiderio di stare al di sopra degli altri, di tutti gli altri (über alles).


Lo stesso Weber prende posizione e stigmatizza quanto avviene peraltro al di là dell’Atlantico: “Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere dello sport. Nessuno sa ancorachi, in futuro, abiterà in quella gabbia, se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezienuovissime o una possente rinascita di antichi pensieri e ideali, o se invece avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata” (Weber 1988, 1, p. 204; 1976, pp. 321-322).


La specificità del rapporto fra religione e sport


Come mai la religione si connette specificamente allo sport? Quasi tutto ruota attorno all’esperienza del contatto, del confronto fra persone. Ovviamente tale incontro-scontro avviene anche quando l’altro è materialmente assente o almeno non è presente nel proprio raggio di azione. Nello sport individuale in effetti l’atleta è solo con se stesso: deve lanciare il disco o il peso o il giavellotto quanto più lontano possibile; i concorrenti non sono con lui in pedana ma la loro influenza è comunque in atto, per le misure da loro già raggiunte o che potranno conquistare in seguito. Nello sport di squadra invece l’avversario od anche il compagno sono attivi sul medesimo terreno di gioco, spesso a contatto di gomito od almeno a vista (come nella pallavolo o nel tennis). Qualcosa di simile si verifica nel percorso religioso, spirituale, dove il vissuto esperito può essere appunto individuale e/o collettivo: si prega da soli od insieme con altri, si compiono atti di devozione a casa, in privato, in solitudine, oppure in un tempio o in una piazza stando in compagnia di altre persone. Il che ricorda da vicino l’espressione anglofona che dice bowling alone and kicking in groups. In realtà si sta passando da abitudini domestiche a prassi comunitarie. Ciò ha luogo in networks religiosi (basti pensare all’associazionismo in tal senso rilevabile negli Stati Uniti come in Italia) e sportivi (sempre più si intrattengono relazioni al bar o in ufficio, a scuola o all’università, al ristorante o nei centri commerciali, intessute su temi legati al tifo per una squadra o per un campione. Non si tratta di legami fugaci e senza effetti: un’intera giornata o gran parte di essa può essere dedicata al gruppo di catechisti o di coristi di una parrocchia o alla frequentazioni di amici che hanno le stesse passioni agonistiche. Sono telefonate, incontri, momenti conviviali, frequentazioni comuni di locali e luoghi di divertimento, di cinema e discoteche, negozi e punti d’incontro abitudinari che diventano le scadenze fisse di un programma quotidiano che nutre di problematiche religiose o sportive od anche entrambe in connessione diretta od in successione di tempo nell’arco delle ventiquattr’ore. Il precipitato sociologico di tutto ciò è l’assuefazione alla vita di relazione, alle risorse organizzative, alle occasioni di incremento del proprio capitale sociale e culturale. Ne beneficia anche la cittadinanza politica perché gruppi solidali sono anche la base elettorale per candidati alla ricerca di consensi più ampi: non sono pochi i presidenti di società sportive che utilizzano la loro attività dirigenziale per farsi conoscere ed apprezzare e quindi poter contare sull’appoggio di associati e tifosi in occasione di future scadenze elettive amministrative.


Il denominazionalismo statunitense conosce successi di attrattività quasi senza sosta ma l’associazionismo sportivo non è da meno. Nell’uno come nell’altro caso prevale il kicking in groups, sebbene Putnam (2000) non sia dello stesso avviso. Comunque è innegabile il successo delle youth soccer leagues, delle organizzazioni no profit, degli organismi di massa con finalità specifiche.


Non è solo questo il punto di convergenza fra sport e religione. Vi è anche l’aspetto emozionale, esemplarmente codificato nella teoria delle emozioni di James-Lange (James 1884; Lange 1887). Le sensazioni che si possono provare in un culto o in un’orazione non sono di misura e significato particolarmente diversi da quanto si sente nel corso di una sfida sportiva o di una gara, quale che sia il numero dei partecipanti. Semmai una certa differenza può intercorrere fra il livello di coinvolgimento: di per sé quanti assistono ad una celebrazione religiosa sono anch’essi protagonisti e lo sono in prima battuta, a meno che la liturgia non preveda una gestione da parte di un unico leader o di una élite, senza dare alcuno spazio ai fedeli. Altrimenti la cerimonialità religiosa si presenta più direttamente partecipata, condivisa, più di quanto non lo sia un match di calcio con ventidue giocatori a correre e calciare e qualche decina o qualche migliaia di spettatori che nulla possono fare (o quasi) in merito all’andamento della disputa, né possono intervenire a colmare qualche carenza o a rafforzare un ambito, un settore: praticamente, tutto è affidato ai soli players, ai competitors in gioco. Detto in altri termini, l’interferenza o comunque l’interconnessione è ben più presente nel contesto religioso, dove il ruolo dei fedeli è ritenuto solitamente essenziale, mentre il pubblico di un incontro sportivo non appare indispensabile, tanto è vero che le gare possono svolgersi anche in assenza di spettatori. Ovviamente non va trascurato che nell’ambito di una celebrazione religiosa il feeling che intercorre fra chi celebra e chi assiste (o “con-celebra”) è più diretto, espressivo, condiviso“ sul campo”. Il supporto di una folla che incoraggia dagli spalti un giocatore od un intero team è certamente una forma di partecipazione ma non lo è in senso pieno. Se anche in alcuni campi di gioco non vi è separazione fisica totale fra chi gioca e chi assiste nondimeno le differenze funzionali ed operative persistono. Invece la balaustra posta dinanzi all’altare di una chiesa non segna sempre un limite invalicabile, giacché ha un carattere fittizio e semmai solo simbolico-figurativo, per designare la maggiore sacralità di uno spazio rispetto a quello contiguo ma in realtà non si nota né si evidenzia una soluzione di continuità. Il che legittima ancor più il “popolo di Dio” nell’esercizio delle sue funzioni anche liturgiche, come mostra il fatto che ormai, in ambito cattolico, l’accesso dei laici al presbiterio (cioè allo spazio immediatamente circostante l’altare) non costituisce più un problema od una violazione grave.


Anche le modalità della clausura monacale sono mutate sensibilmente per cui i non religiosi, i non claustrati, riescono più facilmente ad entrare in contatto con quanti sono clausurati. Qui poi è appena il caso di notare che a tale formula restrittiva della limitazione della libertà di uscita si fa ricorso in preparazione di una gara decisiva, di particolare rilevanza. Con tale soluzione si cerca di evitare distrazioni e tentazioni, esattamente come avviene in un ritiro spirituale propriamente detto. Fra l’altro l’esatta corrispondenza del termine sia se lo si applica ad un gruppo di laici o preti o religiosi oppure ad una équipe sportiva denota chiaramente una sovrapponibilità che non è meramente di nomenclatura linguistica ma che in concreto richiama modalità e contenuti che connotano una fase di ascesi, di astensione, di separatezza, di riflessione, di meditazione. Si potrebbe dire che un ritiro, religioso o sportivo, ha il carattere di una sorta di veglia d’armi, alla vigilia di una sfida decisiva, e ripropone il modello di una veglia di preghiera in attesa di un evento cruciale. Il timore di una sconfitta, di un esito tragico, produce ansia, genera incertezza, induce a riflessioni tremebonde per il proprio futuro, che resta imperscrutabile. Lo stesso dicasi e quando ci si interroga sul proprio destino post mortem, trovando risposta nell’escatologia confessionale, e quando si affronta un turning point definitivo, auspicando una buona riuscita della propria prestazione agonistica.


Un altro momento fondante che comprova il collegamento fra religione e sport è dato dalle ritualità festive, dalle ricorrenze settimanali (specialmente il sabato e la domenica), dalle festività in onore di divinità e santi, dalle celebrazioni para-liturgiche (processioni, pellegrinaggi, raduni, offerte votive, eccetera), manifestazioni che di prassi si accompagnano a tornei, campionati, partite per l’aggiudicazione di un trofeo o di un coppa, corse di vario genere, maratone, gare di tiro. Di norma i programmi che annunciano lo svolgimento di una festa tendono a distinguere fra parte religiosa e parte “civile”. In linea di massima quest’ultima concerne avvenimenti sportivi, oltre quelli musicali. Dunque dall’alto della gerarchia ecclesiastica si propende a discernere ciò che è più propriamente definibile come strettamente liturgico-ufficiale e ciò che non lo è, senonché la popolazione in generale presenta comportamenti che non operano una tale suddivisione ma tutto conglobano nell’unico contesto festivo. Anzi si dà il caso che in fondo la festa sia percepita come tale più per gli aspetti cosiddetti esteriori (iniziative sportive incluse, e talora prevalenti) che non per la sua dimensione specificamente spirituale, interna (volutamente contrapposta a quella esterna dei festeggiamenti non regolati direttamente dalle autorità ecclesiastiche).


Neppure va trascurato l’impegno diretto delle organizzazioni religiose in settori sportivi di particolare attrattiva. Anzi vi sono organismi e strutture di matrice religiosa appositamente dedicati allo sviluppo dell’attività sportiva, in chiave sia dilettantistica che professionale, sia promozionale che aziendalistica, sia a titolo gratuito che a pagamento. Non si è di fronte ad un fenomeno secondario. Esso è cresciuto sempre più nel tempo. Da qualche migliaio di aderenti alcuni decenni fa un ente italiano di propaganda sportiva e di diretta emanazione di un’associazione cattolica nazionale quale l’Azione Cattolica Italiana conta oggi oltre un milione di atleti regolarmente iscritti ed operanti in tutte le regioni e province italiane. Infatti il Centro Sortivo Italiano, nato nel 1944, si ricollega alla Fasci (Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche) nata nel 1906, poi sciolta dal governo fascista nel 1927.


Naturalmente non sono mancati utilizzi strumentali, orientati a finalità religiose, di figure esemplari dello sport. Ciò è avvenuto, per esempio, nel caso del ciclista Gino Bartali, additato come campione cattolico per eccellenza, a partire dalla fine degli anni Quaranta del secolo scorso.


Più volte anche i papi hanno avuto modo di intervenire per parlare di sport.


Conclusione


Il legame fra sport e religione è talmente stretto, quasi inestricabile, tanto che anche in condizioni imprevedibili esso continua a riaffacciarsi, magari sotto mentite spoglie, come nel caso di una sinagoga trasformata in uno shop dedicato ad una squadra di baseball: ne hanno parlato il New York Times, il New Yorker ed altri giornali. La cassa del negozio è collocata nello stesso posto in cui il rabbino teneva le sue prediche o leggeva la Torah. Il tempio, fondato al principio del secolo scorso, negli anni Sessanta apparteneva ai “Figli d’Israele”, un gruppo di ebrei ortodossi, che in un paio di decenni, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, si sono ridotti di molto. Dopo un breve tentativo di rinascita attraverso un’altra congregazione, si è posto fine all’uso religioso del luogo: nel 1991 la sinagoga ha chiuso i suoi battenti. Di recente, però, Andrew Berlin, di fede ebraica ma di scarsa pratica, ha comprato l’edificio per restauralo e farne lo store ufficiale della sua squadra di baseball, che gioca nel Coveleski Stadium, nei pressi della sinagoga, ora divenuta un punto commerciale. Singolari sono poi gli adattamenti apportati dal nuovo proprietario che laddove si custodiva l’arca con la Torah ha fatto disegnare animali in procinto di entrare nell’arca di Noè, accompagnati dalla scritta: “sospesa per pioggia”. Oltre la Bibbia, anche la Cappella Sistina ha ispirato una scritta, cioè: “Play ball”, che è la frase d’inizio di un match di baseball, aggiunta ad un’immagine di Dio che offre ad Adamo la palla in un guantone.


In definitiva il rabbino non c’è più ma quell’edificio ancora parla del sacro, in evidente e reiterato connubio con lo sport. La sinagoga è ancora là a South William Street, nella cittadina di South Bend, nello stato dell’Indiana. Anche il nome della squadra è cambiato: dapprima South Bend White Sox, poi Silver Hawks, infine Arizona Diamondsbacks. Quel che non è cambiato nel frattempo è il vecchio lampadario, che ancor oggi illumina la sinagoga, segno di continuità fra il passato ed il presente ma anche fra la religione e lo sport.


Il calciatore brasiliano Jorginho ha fondato a Monaco una chiesa neo-pentecostale appartenente alla nota Chiesa Universale del Regno di Dio ed ha diffuso l’evangelismo nella Bundesliga, sotto forma di gruppi di preghiera, di cui si ritrovano esempi anche altrove, in Spagna per esempio presso la squadra del Celta de Vigo (Rial 2012). Qualche giocatore sta pensando di fare il pastore una volta conclusa la sua carriera. Questo è il caso del brasiliano Müller ma pure Kakà sembra della medesima idea. Del resto molti calciatori brasiliani che giocano all’estero seguono la rete televisiva Record espressione della Chiesa Universale del Regno di Dio. Nonostante le proibizioni della FIFA sono molte le modalità di “propaganda” religiosa possibili. Ricorrenti sono le immagini di atleti brasiliani che riuniti a cerchio elevano preghiere. Per non parlare di coloro che indossano una maglietta con la scritta “I belong to Jesus”, per conclamare la loro fede religiosa. Nel 2009 la squadra brasiliana – ricorda ancora Rial (2012) – ha deciso di avere un capitano religiosamente e moralmente affidabile come Lúcio. Dal 2006 al 2010, quando l’allenatore della nazionale brasiliana è stato Dunga il neo-pentecostalismo ha giocato un ruolo centrale nella vita quotidiana degli atleti. Rial qualifica tutto ciò come “religiosità banale”, che ha un carattere affine al “nazionalismo banale” di Billig (1995: 11): “there is a distinction between the flag waved by Serbian ethnic cleansers and that hanging unobtrusively outside the U.S. post office”. Il nazionalismo banale riguarda gli orientamenti e le abitudini a carattere ideologico che si riproducono quotidianamente negli atteggiamenti e nei comportamenti dei cittadini di un’intera nazione. Sono anche i mezzi di comunicazione a ribadire continuamente agli individui sociali la loro appartenenza nazionale: “they can be seen as banal rehearsals for the extraordinary time of crises, when the state calls upon citizenry, and especially its male citizenry, to make ultimate sacrifices in the cause of nationhood”.


Cattolicesimo popolare e culti afro-brasiliani sono comunque ancora presenti nell’ambito dello sport brasiliano in particolare. Sono vari i gesti a contenuto religioso-simbolico che fanno seguito alla realizzazione di un gol (per esempio levare le mani verso il cielo e/o inginocchiarsi). Giocatori piuttosto ricchi hanno aderito alla cosiddetta “teologia della prosperità”, rigettata invece da altri, più propensi a sostenere un’idea di “Atleti di Cristo”, secondo un’espressione tipica di quanti sono abbastanza vicini alla chiesa battista.


Del resto non va dimenticato che la dizione “muscular Christianity” era già stata coniata in lingua inglese nel 1857 in un romanzo di Charles Kingsley e nel 1858 in un romanzo di Thomas Hughes per raccontare quanto avveniva nella scuola di Rugby (ancora una volta torna in campo il riferimento a questa città, sportiva anche nel nome ed eponima dell’omonima disciplina sportiva giacché vi nacque proprio il rugby ad opera di William Webb Ellis nel 1828). Il cristianesimo muscolare ben si addiceva al rugby ed era propugnato in chiave anti-ascetica ed anti-femminile, specialmente in ambito anglicano. Hughes e Kingsley diffusero tale idea di muscolarità anche negli Stati Uniti. Invero il protestantesimo non era stato molto favorevole allo sport, molto presente invece nel mondo cattolico.


Nel Nordamerica come nell’America Latina un modello diffuso anche fra gli sportivi è il gruppo biblico, che si riunisce per leggere e spiegare i testi sacri. Significativo è poi il fatto che la squadra statunitense di golf sia composta da vari appartenenti a chiese evangeliche. E molto fa capo al capitano Corey Pavin, cristiano di origine ebraica. I membri dell’équipe seguono fra l’altro corsi biblici, utili anche alla lotta contro l’alcolismo. Lo fanno anche grandi golfisti come Stewart Cink, Zach Johnson, Rickie Fowler, Bubba Watson e Matt Kuchar.


In Italia la squadra di rugby del Benetton Treviso è diretta da Franco Smith, un praticante cattolico che invita i suoi giocatori a pregare prima di ogni partita, proprio come avviene altrove, in Sudafrica per i rugbisti dei Bulls e dei Cheetahs. In Brasile alcune squadre di calcio ed altri sport partecipano a veri e propri riti religiosi di tipo propiziatorio. Ed in generale non mancano allenatori, dirigenti, giudici di gara, arbitri, tecnici a vario titolo, assistenti medici, massaggiatori ed altri operatori sportivi che invocano una o più divinità prima di dare inizio ad una competizione, indipendentemente dalla sua importanza per la classifica, per la vittoria del campionamento, per il superamento di una procedura selettiva. Quel che maggiormente appare significativo è anche il dato empiricamente rilevabile per cui anche in assenza di risultati positivi il ricorso alla pratica religiosa pre-gara continua senza alcuna interruzione (o quasi). Va detto che anche sul piano psicologico la preghiera o l’invocazione a carattere spirituale svolge la funzione di una terapia anti-ansia. D’altro canto l’orazione in comune è un elemento tipicamente solidaristico, che rafforza la coesione, il senso di appartenenza, lo spirito cooperativo, la capacità di affrontare crisi e disfatte, come già esemplarmente indicava Émile Durkheim (1912) nel parlare della danza della pioggia attorno al totem in periodi di siccità. Evidentemente il rito coreutico non produceva l’evento pluviale ma almeno aiutava il gruppo, la comunità, a sopportare meglio, insieme, le difficoltà del momento.


Ormai in molti studiosi di scienze sociali è largamente presente l’idea che il nesso tra sport e religione sia molto stretto (Higgs 1995, Putney 2001, Baker 2007, Hoffman 2010). Pure nella cultura religiosa islamica si rilevano interessanti orientamenti teologici ed operativi che concernono la realtà sportiva (Amara 2008).


Ancora Rial (2012) fornisce esempi significativi dell’influenza religiosa rintracciabile soprattutto nel calcio. Sovente i campi di football sono usati per manifestazioni religiose(lo fa anche il papa cattolico). Inoltre alcuni riti del calcio ripercorrono da vicino i modelli delle celebrazioni liturgiche con le loro gerarchie prestabilite e fisse, i gesti ripetitivi e ieratici, le invocazioni e le imprecazioni-giaculatorie, gli orari ed i calendari, i linguaggi e le abitudini, gli esorcismi e le formule apotropaiche per allontanare le influenze maligne.


Negli spogliatoi ci si concentra e si medita prima di una gara, in un contesto ambientale che non di rado è costellato di immagini sacre, santini, scritte bibliche ed altro ancora. Rial (2012) pensa che il campo stesso di gioco sia l’equivalente di un altare, ma forse il luogo più sacro è quello della porta, con la sua rete che va ben difesa e protetta come un sancta sanctorum inaccessibile.


Certamente però lo stadio ha il profilo spaziale di un tempio, come luogo tendenzialmente chiuso e privilegiato: il sogno di molti appassionati è quello di potere calpestare il sacro suolo di un impianto sportivo o persino di acquistarne zolle di terra da portare a casa come amuleto-ricordo. Altri vanno ben oltre: chiedono che le loro ceneri siano depositate presso lo stadio del loro club preferito.


Per non parlare del divismo accentuato che arriva a considerare divinità alcuni grandi protagonisti della scena sportiva: quando si grida a squarciagola il nome di Messi il pensiero non può non andare al quasi omofono lemma di “messia”. Qualcosa di simile si ritrova nel caso di Maradona: resta nota l’espressione di “mano di Dio” a proposito di un celebre e decisivo gol da lui segnato con la mano; peraltro il suo numero di maglia, dieci, diez in spagnolo, risuona quasi come il termine dios, per cui l’associazione con la divinità è quasi automatica; per di più, quasi a riprova di tutto ciò, nel 1998 è stata anche fondata una “Chiesa Maradonista”.


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