“L’esito sociale e culturale delle migrazioni, tra meticciato e integrazione”, in Naro (a cura), Ero forestiero e mi avete ospitato. Umanesimo e migrazioni nel Mediterraneo, Rubbettino, Soveria Manelli, 2016, pp. 51-78.

Roberto Cipriani


Premessa


Si è cominciato a dire che i recenti “fatti di Parigi” sono l’11 settembre francese, come se i tre eventi, quello delle torri gemelle di New York, della redazione di Charlie Hebdo e del mercato ebraico di Parigi, fossero del tutto assimilabili. La realtà è che se diverse sono le vittime delle due Twin Towers e degli aerei che le hanno colpite, parimenti differenziate sono le vicende parigine che in un caso hanno un movente specifico e ben individuato (la reazione alle vignette antislamiche) e nell’altro hanno visto colpire nel mucchio persone casuali non individuabili come un obiettivo predefinito se non per l’appartenenza ebraica.


“Se la sono cercata”


Si è cominciato anche a mormorare, sottovoce, che il ricorso all’ironia se supera un certo limite (ma chi lo stabilisce se non il libero giudizio dell’essere umano?) provoca drammi ed anzi è controproducente per tutti gli attori sociali in gioco, vittime e carnefici.


Orbene è proprio questo il caso di chiamare in causa la questione della laicità, della libertà religiosa, del diritto di stampa, della libera circolazione delle opinioni. Qualche anno fa, nel 2005 per la precisione, in occasione del centenario della legge francese sulla laicità dello Stato, alcuni intellettuali francesi e canadesi dapprima, ma poi anche messicani ed argentini ed altri ancora, avevano redatto e firmato un documento che ribadiva la necessità di uno Stato del tutto libero da vincoli religiosi. Va però ricordato un particolare non trascurabile. La versione originale di quel medesimo documento circolata dapprima in Francia, com’è ovvio, è stata poi modificata su un punto qualificante quando se n’è diffusa una traduzione in lingua spagnola, che ha avuto circolazione in particolare in Messico. Ebbene la versione latino-americana del testo parlava esplicitamente di “diritto alla blasfemia”, sottacendo del tutto che una tale legittimazione del diritto di offesa all’altrui confessione religiosa poteva risultare in palese contraddizione con il valore del rispetto della persona e delle sue idee da cui gli estensori in qualche modo avevano preso le mosse.


Ciò detto, è evidente che una caricatura più o meno artistica rientra nell’esercizio di un diritto di parola, di espressione (anche a matita). Il punto è semmai stabilire i confini entro i quali non solo è opportuno ma è anche doveroso tenersi per evitare conflitti aperti e contrasti insanabili.


Se non si sono conosciuti de visu i redattori ed i disegnatori di Charlie Hebdo e se non si è mai sfogliato quel periodico come sarebbe possibile esprimere un giudizio di valore sul loro operato? Ed intanto prevalgono e prevaricano informazioni generiche, valutazioni sommarie, prese di posizione più emotive che basate su dati accertati e su motivazioni conosciute. Così tutto è ridotto ad un unico, prevalente punto di vista, all’uomo ad una dimensione, di marcusiana memoria (Marcuse 1964, 1991).


Scontro di civiltà?


Ancora una volta è riemerso il riferimento all’opera di Huntington (1996a; 1996b) dal titolo Clash of Civilizations, già apparsa in forma di articolo sin dall’estate del 1993 nella rivista Foreign Affairs (Huntington 1993). A questo proposito si può sostenere, fondatamente, che si è trattato di una specie di profezia che si è auto-avverata in quanto il dibattito sulla contrapposizione fra culture diverse (Occidente ed Oriente, Nord e Sud, Cristianesimo ed Islam) non ha fatto altro che accrescere il divario fra le opzioni in contrasto ed ha invocato e favorito piuttosto il ricorso alla difesa ed all’assalto più che alla discussione ed al confronto, o alla convergenza su interessi comuni ed alla ricerca di soluzioni condivisibili.


Allentata la tensione fra i due blocchi principali, quello marxista sovietico e quello antimarxista ed antisovietico, a seguito della storica caduta del muro di Berlino, gli scenari di guerra si sono spostati altrove, in Iraq come nei Balcani, in Afghanistan come in Siria.


Nel contempo sono anche cambiate le forme della guerra, che ormai si combatte a forza di spots televisivi, di diretta ed immediata efficacia, che fanno leva sulle emozioni forti, sull’omicidio dal vivo, registrato da una telecamera.


E così dinamiche sociali e politiche che in passato sembravano lontane nel tempo e nello spazio si sono ravvicinate sempre più a noi ed ai nostri vissuti, sollecitando un’attenzione sempre maggiore in quanto non possiamo ritenerci fuori da quanto sta avvenendo, specialmente nel nostro contesto europeo caratterizzato da crescenti flussi migratori in arrivo.


“Alì ha gli occhi azzurri”


“Alì ha gli occhi azzurri” è il titolo di un film del 2012 del regista romano Claudio Giovannesi, che si è ispirato alla raccolta di scritti di Pier Paolo Pasolini tra il 1950 ed il 1965 intitolata Alì dagli occhi azzurri (pubblicata dall’editrice Garzanti di Milano nel 1965, 1989, 1999 e nel 2007), contenente una poesia dal titolo “Profezia”, versione modificata rispetto a quella già inserita con lo stesso titolo nel volume Poesia in forma di rosa (Pasolini 1964) e forse scritta nel 1962. Qualche verso di “Profezia” è pure presente nella predica di San Francesco agli uccelli nel film pasoliniano Uccellacci ed uccellini del 1966. Successivamente però Pasolini ha ripudiato tale poesia definendola  “capriccio vitale e fecondo della passione politica, un rovesciamento voluto e cosciente del buon senso del futuro”


Nella raccolta del 1965 si comprende, leggendo quanto è scritto nell’“Avvertenza”, la spiegazione del titolo, attraverso le parole di un personaggio di nome Ninetto (presumibilmente Davoli), che narra dei Persiani, i quali “si ammassano alle frontiere. Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente  immigrati, sono  qui, al  capolinea  del 12, del 13, del  409… Il  loro  capo  si chiama: Alì dagli Occhi Azzurri”. L’origine del tutto è però anche in Sartre, che aveva narrato a Pasolini la storia di una prostituta algerina sfruttata da un francese:


A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato

la storia di Alì dagli Occhi Azzurri


Alì dagli Occhi Azzurri


uno dei tanti figli di figli,


scenderà da Algeri, su navi


a vela e a remi. Saranno


con lui migliaia di uomini


coi corpicini e gli occhi


di poveri cani dei padri


sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,


e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.


Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.


Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,


a milioni, vestiti di stracci


asiatici, e di camicie americane.


Subito i Calabresi diranno,


come da malandrini a malandrini:


“Ecco i vecchi fratelli,


coi figli e il pane e formaggio!”


Da Crotone o Palmi saliranno


a Napoli, e da lì a Barcellona,


a Salonicco e a Marsiglia,


nelle Città della Malavita.


Anime e angeli, topi e pidocchi,


col germe della Storia Antica


voleranno davanti alle willaye[1].


Essi sempre umili


essi sempre deboli


essi sempre timidi


essi sempre infimi


essi sempre colpevoli


essi sempre sudditi


essi sempre piccoli,


essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,


essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi


in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,


essi che si costruirono


leggi fuori dalla legge,


essi che si adattarono


a un mondo sotto il mondo


essi che credettero


in un Dio servo di Dio,


essi che cantavano


ai massacri dei re,


essi che ballavano


alle guerre borghesi,


essi che pregavano


alle lotte operaie…


… deponendo l’onestà


delle religioni contadine,


dimenticando l’onore


della malavita,


tradendo il candore


dei popoli barbari,


dietro ai loro Alì


dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere –


usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno


dall’alto del cielo per derubare – e prima di giungere a Parigi


per insegnare la gioia di vivere,


prima di giungere a Londra


per insegnare a essere liberi,


prima di giungere a New York,


per insegnare come si è fratelli


– distruggeranno Roma


e sulle sue rovine


deporranno il germe


della Storia Antica.


Poi col Papa e ogni sacramento


andranno su come zingari


verso nord-ovest


con le bandiere rosse


di Trotzky al vento…


Questa poesia è come un’epopea mitica ed utopica insieme. Il nucleo essenziale è costituito da una massa di persone che transitano dal Nord Africa all’Europa e poi verso il mondo, sino a New York. Provengono da Algeri, ma qui il toponimo è solo emblematico e sta al posto di tutto il continente africano o meglio di tutto il Sud del mondo. La scelta di Algeri peraltro non è casuale e si deve verosimilmente al forte impatto della guerra algerina di indipendenza dalla Francia durata dal 1954 al 1962 e rievocata nel film “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo del 1966. Dunque se la poesia è del 1962 si è proprio in una temperie storico-culturale che è fortemente impregnata dello spirito algerino di liberazione, di rivoluzione.


Ancor più pregnante, evocativa e soprattutto anticipatrice è l’immagine di “navi a vela e remi” che richiamano da vicino i barconi della speranza (ma anche della morte) che in anni recenti hanno tentato di attraversare il canale di Sicilia alla ricerca di una salvezza, di una vita meno travagliata di quella sperimentata nei “Regni della Fame” (o delle guerre). Ma tale immagine diventa ancora più concreta, vivida, con la descrizione di “corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri”. La presenza dei bimbi portati con sé è sin troppo eloquente e rappresenta un legame forte con il presente. Poco importa se poi il punto di approdo è piuttosto Lampedusa ed ancora “Crotone o Palmi” citate dal poeta, che non manca di alludere profeticamente alla globalizzazione già rappresentata da “stracci asiatici” e “camicie americane”.


Soprattutto emerge e si staglia come grido d’invocazione e di riconoscimento l’espressione “Ecco i vecchi fratelli”, afflato compassionevole ed accogliente che mette maggiormente in evidenza la comune appartenenza al genere umano invece del dettaglio assolutamente secondario del colore della pelle o di altro connotato accidentale, fosse pure di tipo linguistico, culturale, religioso.


Le stesse destinazioni citate non sono affatto casuali perché sono quelle canoniche di Salonicco (già approdo di ebrei della diaspora) e di Marsiglia (da tempo punto di arrivo dei pieds-noirs).


Questi soggetti, “anime ed angeli, topi e pidocchi”, sono anche definiti “umili”, “deboli”, “timidi”, “infimi”, “colpevoli”, “sudditi”, “piccoli”, secondo un crescendo martellante che insiste sull’ultima parola del verso quasi sempre trisillaba ma quadrisillaba nell’aggettivazione di colpevolezza, come a sottolineare il peso dello stigma che li colpisce (Goffman 1963). Ben più forte è comunque l’accento sul fatto che “essi sempre” (ripetuto sette volte) sono tali.


Chi li guida, il fantomatico Alì, avrà pure gli “Occhi Azzurri” (con le iniziali maiuscole per ribadirne il carattere esemplare, dell’uno in rappresentanza di tutti) ma tutti hanno “occhi solo per implorare” con lo sguardo triste e peculiare dei “poveri cani” già presentati prima.


C’è però un dettaglio non trascurabile, involontario se si vuole, ma estremamente inquietante: quel “in fondo al mare” non può non collegarsi immediatamente alle tragedie odierne. Inoltre “assassini”, “banditi” e “pazzi” sono collocati nella stratificazione classica dei tre livelli del mondo: “sotto”, “in fondo”, “in mezzo” ovvero “terra”, “mare”, “cielo”. Proprio da questi tre luoghi giungeranno per “uccidere”, “aggredire”, “derubare”, ma alla fine anche e soprattutto “per  insegnare la gioia di vivere”, “per insegnare a essere liberi”, “per insegnare come si è fratelli”. Da un atteggiamento bellico nasceranno dunque insegnamenti di gioia, libertà e fratellanza.


Questi esseri umani mostrano altresì una grande capacità di adeguamento, che si esplicita ancora una volta in un andamento plurimo a livello giuridico (“leggi fuori della legge”), subalterno (“un mondo sotto il mondo”), religioso (“un Dio servo di un Dio”), politico (“cantavano ai massacri dei re”), antibellico (“ballavano alle guerre dei borghesi”), mistico-marxista (“pregavano alle lotte operaie”).


Abbandonate le religioni rurali, la fedeltà malavitosa, l’ingenuità barbarica, essi seguiranno le loro guide, i tanti “Alì dagli Occhi Azzurri”. Ed arriveranno a distruggere Roma ma poi procederanno oltre, in compagnia del Papa e di “ogni” corredo religioso, sventolando bandiere trotzkiste in direzione della parte settentrionale dell’Occidente, lungo i percorsi delle popolazioni nomadi, quasi in segno di sfida al capitalismo di Parigi, Londra e New York.   


“Alì ha gli occhi azzurri” anche perché porta le lenti a contatto di tale colore: nel film il protagonista si chiama Nader ed è un sedicenne egiziano di religione islamica, immigrato di seconda generazione in Italia, contrario alle tradizioni culturali della sua origine, dedito a rapine e responsabile di un accoltellamento. Ed è uno che fa di tutto per mostrarsi diverso da quello che è: uno straniero. Lo spunto proviene da un precedente film-documentario dello stesso Giovannesi, in particolare dal terzo episodio di “Fratelli d’Italia” del 2009, di cui era protagonista il sedicenne egiziano Nader Sarhan. Il tema dell’immigrato straniero è ripreso anche dalla pièce teatrale intitolata Nessun viaggiatore è straniero (con la regia di Annalisa Bianco), ricavata dal libro Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini di Fabrizio Gatti (2007), giornalista del settimanale L’Espresso e vincitore del Premio Terzani 2008. Gatti si è travestito da straniero per osservare quanto avviene in una situazione di clandestinità: violenze, soprusi, violazioni di ogni genere. L’ambientazione, fra l’altro, è in un bar siciliano. All’operazione ha contribuito significativamente pure il Centro Culturale Gambidi di Ouagadougou del Burkina Faso.


Le città parallele


La presenza degli stranieri dà luogo al fenomeno delle città parallele esaminato debitamente in un’indagine dell’Istituto Centrale di Statistica nel 2012. Si è chiesto il parere degli italiani sui migranti ed anche quello degli stranieri sugli italiani. Le valutazioni italiane nell’80% dei casi considerano difficile l’inserimento degli stranieri, il 65,2% ritengono che sono troppi, il 55,3% pensano che gli italiani devono avere la priorità nell’assegnazione di case, il 48,7% nell’occupazione. Da parte loro gli stranieri immigrati in Italia nel 16,9% dei casi reputano che vi sia discriminazione sul lavoro, il 12,6% discriminazione nella scuola, il 10,5% nella ricerca di una casa, 9,3% nella ricerca di un posto di lavoro, 8,1% nei luoghi pubblici, 6,2% nel vicinato, il 3,6% nei finanziamenti, il 2,8% nella sanità.


Il fenomeno dell’immigrazione ha interessato nel mondo 232 milioni di persone nel corso del 2013, 34 milioni in Europa, 4.922.085 in Italia. Di questi ultimi il 10,3% possiede una laurea, il 32,4% un diploma. Sempre nel 2013 risultano 802.785 stranieri iscritti nelle scuole italiane e due milioni e mezzo di lavoratori immigrati.


Di drammatica attualità è la vicenda degli sbarchi sulle coste mediterranee: nel solo periodo 1° gennaio 2014-31agosto 2014 sono giunte 112.689 persone. La situazione è ben descritta in una vignetta di Staino in cui si chiede ai migranti “perché vi mettete in mare se sapete che forse morite?” e la risposta è “per il forse”. Il loro destino può essere anche il carcere: al 31 ottobre 2013 su un totale di 64.323 detenuti gli stranieri erano 22.586, per il 18,7% marocchini, il 16,2% rumeni, il 12,4% albanesi ed il 12% tunisini.


Un quarto di tutti gli stranieri presenti in Italia si trova in quattro province: Roma (ve ne sono oltre 500.000 nella sola capitale), Milano (e ben oltre un milione in Lombardia), Torino e Brescia.


In effetti “il meticcio è il futuro”: così suona il titolo di un articolo di Luigino Bruni (sul quotidiano Avvenire), in cui vengono prospettate quattro forme di capitalismo diffuso: finanziario, familiare, di terzo settore (cooperative sociali ed affini), criminale. La prospettiva offerta è dunque intrigante ma anche la retrospettiva può essere parimenti interessante. Basti pensare alla fenomenologia delle cosiddette città parallele nel passato. Ne ha scritto Esther Benbassa (2014) che ha raccolto insieme vari saggi sotto il titolo Salonique. Ville juive, ville ottomane, ville grecque. Di Tessalonica o Salonicco, definita anche “Gerusalemme dei Balcani”, si ricorda la comune esperienza, nel 1909, di ebrei, turchi, greci e bulgari militanti insieme nella Federazione Socialista Operaia, nonché, nel 1913, di turchi, bulgari e greci impegnati nel processo di disottomanizzazione (dopo il lungo periodo dell’Impero Ottomano). Nel 1923 ci fu anche uno scambio fra residenti musulmani e greci. Ma nel 1931 gli ebrei vennero confinati alla periferia della città, preludio alla deportazione, nel 1943, di 56.000 di loro ad Auschwitz, donde tornarono vivi appena 1.350.


Ancor prima di Salonicco era stata Palermo a vivere la realtà di città parallele a mano a mano che le diverse potenze militari straniere l’hanno di volta in volta occupata e governata: dapprima i fenici e poi i romani, sotto i quali gli abitanti arrivarono ad essere 30.000, per poi aumentare fino a 100.000 con la presenza araba. I domini successivi furono di svevi e normanni, aragonesi ed angioini, bizantini e sabaudi, austriaci e borbonici, infine garibaldini ma molto prima erano stati presenti ed attivi gli ebrei ed i cristiani, come pure i musulmani. Il momento forse più significativo ed esemplare fu quello svevo con Federico II che favorì al massimo i contatti fra le diverse culture e religioni operanti in Palermo, che aveva magistrature differenziate: qadi per gli arabi, ἄρχοντεσ per la popolazione greca e iudices per i latini. Al di fuori di Palermo, per esempio a Mazara del Vallo esiste ancor oggi un quartiere arabo, altro esempio di città parallela.


La costruzione sociale dello straniero


Lo straniero è tendenzialmente visto come una minaccia, che proviene da qualcosa di ignoto e che in genere è accompagnato da una condizione di povertà. L’alterità dello straniero è anche vista come ambigua, falsa, mistificatrice. Il suo essere una sorta di “barbaro” deriva anche dal fatto che non conosce bene la lingua del paese in cui è immigrato ed appunto la “balbetta”. Appare altresì come una specie di “barbaro sociale”. Tutto questo insieme di caratteri è socialmente costruito, come direbbero Berger e Luckmann (1966). Sovente non hanno alcun fondamento. Il tutto è messo in atto in forma pregiudiziale, senza alcuna conoscenza previa ed approfondita.


Secondo Simmel (1903) è nelle enclaves urbane che si sviluppa la “sociabilità” (Simmel 1984) di tipo tradizionale, specie quando l’immigrato ricostruisce all’estero il suo villaggio di appartenenza. Così la città diventa il territorio tipico dello straniero che l’attraversa, vi passeggia, se ne impossessa talora anche più e meglio di chi vi abita da lungo tempo. Lo straniero fa della città la sua nuova patria e la usa per la sua mobilità territoriale, sociale e residenziale. Insomma è in città e non altrove che trova le sue maggiori potenzialità.


Dunque il territorio urbano diviene nordafricano ed arabo, filippino ed indiano, cingalese e tamil ovvero costellato rispettivamente di buddisti ed induisti, anche eritreo (per i profughi rifugiati), sudamericano (con una buona scolarizzazione di base), salvadoregno (per cospicue presenze di militanti politici in esilio), cinesi (auto-ghettizzati nella forma più o meno palese di Chinatown), sudsahariano (ovvero particolarmente indigente), ma al pari tempo accentuatamente commercializzato da varie etnie ed a vantaggio di specifiche espressioni culturali. Il che dovrebbe preludere a fenomeni di progressiva integrazione. 


Il processo d’integrazione


Émile Durkheim, il sociologo francese della solidarietà sociale, è certamente un punto classico di riferimento per il discorso sull’integrazione, come ricerca di un equilibrio all’interno di un gruppo, di una comunità, di un’intera società. In effetti si verifica che un gruppo si appropri degli individui per favorirne la coesione senza tuttavia ignorare il ruolo dell’individuo stesso (Durkheim 1893).


Dal canto suo il sociologo statunitense Daniel Bell (1973) indica i luoghi specifici in cui l’integrazione avviene e precisamente nella società, nella politica e nelle istituzioni, nonché nella cultura.


Nondimeno l’attività di integrazione comporta una partecipazione volontaria, intenzionale, del soggetto il quale non mostra un atteggiamento tendenzialmente passivo come nel caso della prima socializzazione intra-familiare ma si pone obiettivi di innovazione e cambiamento, in modo da mutare lo status quo pre-esistente al fine di creare nuove condizioni.


Per Dominique Schnapper (2002, 2007, 2008) peraltro si deve distinguere fra l’integrazione degli individui rispetto alla società, come inserimento consentaneo in essa, e l’integrazione della società nel suo insieme, come tale.


Invece per Lapeyronnie (1992, 1993) ogni forma di integrazione rappresenta comunque il punto di vista del dominante sul dominato. Egli ribadisce perciò la centralità del soggetto nella sua pienezza di attore sociale che non è più un infante, un balbettante, ma che come immigrato giunge ed apprende. Dunque non può essere visto come un delinquente, ma piuttosto come un cittadino dell’umanità a pieno titolo. Le stesse rivolte recenti nelle banlieues parigine sono da intendersi alla luce di tutta una serie di processi di esclusione.


Hannah Arendt (1951) aveva ribadito con partecipe passione il “diritto di avere diritti”. Ma le procedure di socializzazione ed integrazione di fatto operano a favore del sistema vigente e non tengono conto delle istanze individuali, messe a tacere dall’impetuoso ritorno del potere statale, dopo le vicende dell’11 settembre 2001, con l’abbattimento delle torri gemelle a New York. Il periodo successivo segna una forte crisi per le nazioni. Resta sullo sfondo appena l’idea di una comunità immaginata, astratta, lontana, irrealizzabile, utopica. La si vorrebbe universale, planetaria, con i medesimi diritti per tutti, senza distinzioni di appartenenza linguistica o culturale o confessionale o ideologica.


A fronte della crisi delle istituzioni, dalla scuola all’amministrazione della giustizia, dalle forze dell’ordine alle strutture religiose, la risposta data dalle organizzazioni non governative e da quelle senza fini di lucro non pare sufficiente.


Ed intanto la globalizzazione avanza in settori sempre più numerosi e consolida il capitalismo finanziario, accrescendo le differenze fra Nord e Sud del mondo, fra quartieri popolari e zone residenziali, fra centri urbani e periferie marginali ed emarginate, fra istituzioni ed individui.


Anche la religione è una scelta sempre più molto personale e poco condivisa, cioè al di fuori di un’appartenenza comunitaria. Come sostiene Charles Taylor (1989, 1992, 2007) la fede religiosa non è più una ascrizione (ascription) quanto piuttosto un guadagno-raggiungimento soggettivo (achievement). In tal modo ci si costituisce in soggetti ma senza passare attraverso un’adeguata formazione di base. Di conseguenza la stessa azione di socializzazione prima e di integrazione poi appare come una forma ideologica repressiva, poco orientata al cambiamento, tesa a confermare l’esistente.


Una gran parte della partita si gioca nelle scuole: nelle diatribe sul crocifisso da affiggere in classe o sulla proibizione del velo o foulard nei luoghi pubblici, sull’uso della lingua nazionale o del dialetto locale, favorendo perciò un trend di de-assimilazione. Ecco dunque prevalere in Germania la funzione del lavoro, insieme con il ruolo del lavoratore straniero, Gastarbeiter appunto. Altrove al contrario si favoriscono processi di assimilazione sino a fare definire l’area londinese come se fosse quella di una sorta di Londonistan, in cui si intrecciano figure di meticci, di creoli, di ibridi. Di fatto l’integrazione diviene regolazione sociale e/o interazione intersoggettiva. Posta questa rete relazionale, diventa più difficile il ricorso al suicidio, già documentato ed interpretato da Durkheim secondo la triplice motivazione di “egoista”, “altruista” ed “anomico”. La rinuncia alla propria vita segnala invero una sfasatura evidente fra le attese del soggetto e le risposte altrui, per cui cade ogni ipotesi di adattamento reciproco e di integrazione. Insomma il coordinamento con gli altri si allenta e si sfilaccia fino a dissolversi del tutto, aprendo la strada alla decisione estrema del togliersi la vita.       


Il meticciato come acculturazione


Il concetto di acculturazione come contatto, rapporto fra culture è da preferire rispetto a quello di inculturazione, che in realtà andrebbe riservato solo alla fase di socializzazione primaria in ambito familiare. L’acculturazione è di fatto un processo asimmetrico che interessa due o più culture, venute ad impatto fra loro. Occorre considerare comunque che la dinamica socio-antropologica in atto è sempre a due vie, quale che sia la superiorità ovvero la capacità d’influenza dell’una sull’altra o sulle altre. Si verificano nondimeno modifiche reciproche, cambiamenti embricati fra loro, innovazioni mutue. Di solito però è la cultura dominata che muta ben di più di quella prevalente, dominante. C’è quindi da fare i conti con culture deboli e culture forti, con strutture flessibili e strutture solide. Per capire come le culture evolvono conviene partire da un punto zero, cioè da un momento prefissato nel tempo, in modo da poter constatare e soppesare i mutamenti avvenuti in corso d’opera.


Il rapporto acculturante può concernere diversi ambiti: quello tecnico e quello artistico, quello linguistico e quello giuridico, quello politico e quello religioso. Orbene quando un fenomeno migratorio ha luogo si mettono in moto vari contesti di riferimento, che si trasformano via via, in progressione.


Anche gli eventi bellici sono un motivo di acculturazione fra popoli diversi. In tempi di pace è il turismo che favorisce incontri e confronti. Per non dire della comunicazione televisiva: Italia meridionale ed Albania, Corfù e Tunisia sembrano fare parte di un unico grande Paese mediterraneo. Ed il nostro territorio appare come un paradiso, stando ai messaggi e soprattutto alle immagini che traversano l’etere ed i mari.


Ma l’acculturazione dà luogo pure a varie dissonanze cognitive (Festinger 1957), cioè a diversi punti di vista su un medesimo argomento od elemento di discussione o di analisi empirica. Quando un soggetto affronta contemporaneamente diversi oggetti di conoscenza che sono fra loro discordanti a livello comportamentale, confessionale, ideologico, legislativo, premiale o sanzionatorio, tende allora a risolvere la dissonanza eliminandola con un’operazione di riduzione della diversità, cioè della dissonanza stessa. Detto altrimenti si cercherà una via di uscita nel compromesso o nella semplificazione, nell’affermazione dell’uno o dell’altro aspetto o nella sua negazione. Lo stato di tensione viene pertanto superato, vanificato. Un nuovo equilibrio è raggiunto. In altre parole la condotta sociale si connette direttamente alla procedura conoscitiva. D’altra parte la dissonanza può derivare da decisioni assunte, dalla conseguenza di uno sforzo, da una sudditanza forzata, da una minaccia pronunciata o solo temuta.


Il collegamento dell’individuo con un suo gruppo di appartenenza è un efficace antidoto ai problemi sollevati dalle dissonanze di vario genere, da quelle culturali a quelle religiose. Se poi il disagio rimane all’interno della struttura psichica individuale la via d’uscita è la comparazione della condizione soggettiva con quella di altri attori sociali, con le loro azioni, influenze, valutazioni, opinioni, prese di posizione. Nel paragone si riesce a trovare il modo di diminuire il peso della differenza conoscitiva e si ha la possibilità di mutare atteggiamento. Ovviamente se tale modalità non funzionasse si potrebbe pensare al modello del rafforzamento e dell’incoraggiamento di un agire libero e non condizionato. Oppure si potrebbe fare leva su opzioni di tipo razionale, non assoggettabili ad emozioni estemporanee ma capaci di resistenza di fronte alle dissonanze cognitive. Per non dire infine della possibilità di relativizzare, minimizzandola, la differenza superando così l’impasse, specialmente evitando di enfatizzare un singolo particolare, un dettaglio, una peculiarità che sia all’origine della dissonanza stessa.  


Nell’Andalusia del XII e XIII secolo le dissonanze politiche e religiose, intellettuali e filosofiche, culturali e linguistiche erano numerose e nondimeno venivano superate, risolte, grazie ad una lunga consuetudine di acculturazione fra mondo iberico e mondo arabo (la dominazione omayyade dei califfi di Cordoba e Granada durava già da oltre cinque secoli, a partire dall’VIII e precisamente dal 711). Lo scienziato-filosofo arabo-spagnolo Averroè (1126-1198), commentatore-interprete di Aristotele ma pure polemico nei riguardi dell’intellettuale arabo al-Ghazali, costituiva un esempio classico delle possibilità di sciogliere le vecchie dissonanze, attraverso nuovi saperi ed in nuovi approcci cognitivi. All’incirca nello stesso torno di tempo, come si è detto, anche Palermo affrontava le medesime problematiche di dissonanze cognitive, emblematicamente rappresentate dal nuovo quartiere della Kalsa ben diverso dal vecchio centro storico del Cassaro.


Insomma l’acculturazione fra culture separate è in grado di promuovere nuovi scenari, nuove transizioni culturali. L’assimilazione non passa solo attraverso l’acculturazione ma diventa a poco a poco un processo consapevole a livello individuale e comunitario. C’è sempre, è vero, un differenziale di potere fra gli attori in gioco. L’esito dipende dal tipo di impegno che si profonde nel voler ottenere un certo risultato, anche a dispetto di una sorta di presunzione di “inferiorità inerente” che accompagna ogni agire nei riguardi altrui.


Edward Franklin Frazier (1932, 1957) distingue fra acculturazione materiale, costituita da lingua e cultura, ed acculturazione ideazionale, basta sulla morale e sulle norme. L’acculturazione in genere favorisce soluzioni piuttosto inclusive, impedendo invece esiti tendenti ad escludere qualche componente.


Invero diversi tentativi programmatici sono stati posti in essere specialmente negli Stati Uniti per creare occasioni acculturative ed inclusive. Già nel 1908 in forma teatrale nella pièce dal titolo Melting pot, scritta da Israel Zangwili, si era tentata una forma includente di acculturazione attraverso la messa in scena di un protagonista ebreo di nome David che incontra una slava di religione ortodossa di nome Vera. Ed in Brasile era andata in voga la leggenda di Iracema (anagramma di America) nata da un portoghese e da un’indiana.


Operativamente le proposte avanzate hanno riguardato dapprima la soluzione del melting pot, dove i componenti si mescolano fra loro senza mantenere una propria identità. Invece nella soluzione chiamata salad bowl tutti gli elementi sono distinguibili e facilmente rintracciabili. Da ultimo nel modello del mosaico ogni pezzo rimane al suo posto ed è intelligibile, sia nel dettaglio che nell’insieme.


Nel pluralismo culturale debitamente praticato, d’altronde, si ignora l’antagonismo e si tende ad annullare le differenze creando situazioni straordinarie di interscambio. Basti pensare a quanto è avvenuto tra individui di pelle bianca e quelli di carnagione nera, gli uni e gli altri coinvolti in un mix che non conosce confini e che alla fine mescola le provenienze sino a far dimenticare chi in effetti abbia dato origine a che cosa: al jazz (elaborazione di musicisti neri ma mettendo insieme elementi africani e pure europei) od alla danza (originalmente “folclorica” in Africa, come in Australia, ma riproposta come breaking da giovani afro-americani del Bronx di New York), allo sport (con campioni e campionesse sia bianchi/e che neri/e come protagonisti/e nelle diverse specialità ed una singolare squadra “comica” afro-americana di pallacanestro come gli Harlem Globetrotters, vincitori del premio Eddie Hamel 2013 per la lotta contro il razzismo) od alla moda (che vede sfilare congiuntamente in passerella modelli e modelle senza alcuna particolare importanza attribuita alla differenza di colorazione dell’epidermide), al cibo (frutto di caccia e/o pesca ma altresì di coltivazione e poi ingerito crudo o cotto secondo le abitudini dell’una o dell’altra etnia) od alla religione (che presenta, ad esempio, soggetti africani i quali praticano una modalità confessionale tipicamente contemporanea e non autoctona, dal cristianesimo all’islam, ma che non rinunciano a culti ancestrali indigeni di matrice immanentistica).


In questa variegata complessità dell’acculturazione può essere utile adottare, per orientarsi, la tipologia instaurata da Spindler (1963) che prevede un atteggiamento passivo sostanzialmente di ritiro, oppure reattivo (in termini di risposta sia difensiva che offensiva), od anche compensatorio (con il rifugio in altre pratiche comportamentali che rimettono equilibrio ad una situazione altrimenti di svantaggio), od invece adattativo (di adeguamento all’esistente, che pure viene rigettato), od infine revisionista (nel senso di accogliere una diversa visione della realtà, comportandosi di conseguenza). Dunque l’acculturazione può essere vista sia come aspetto positivo sia come negativo. Nondimeno se essa procede, si estende, si riscontra un minore grado di conflittualità nella società in questione.


Conviene tuttavia precisare che il colore della pelle non è sempre collegabile al successo o, al contrario, all’insuccesso di un processo acculturativo. Se è vero che gli ebrei statunitensi sono bianchi non è detto che essi non riscontrino alcuna difficoltà in un contesto che è fatto prevalentemente di bianchi. E d’altra parte non è da escludere che la diversità cromatica dell’incarnato e/o dell’appartenenza religiosa impedisca una buona riuscita dell’acculturazione. Lo dimostrano in pieno l’efficace inserimento di musulmani in Francia, di turchi in Germania e di caraibici ed asiatici nel Regno Unito.


Piuttosto complicato è stabilire, infine, una classificazione del meticciato tant’è vero che in qualche caso si preferisce ricorrere alla stessa auto-collocazione degli interessati che a fronte di una serie ben diversificata di immagini stabiliscono in proprio quella che più si addice alla loro percezione personale. Comunque va detto che le differenti aggettivazioni che connotano la scala di meticciato hanno più a che vedere con una procedura socio-linguistica che non con i dati di fatto reali. Fra l’altro si deve soppesare anche il peso valutativo di ciascuna definizione, che può essere in senso peggiorativo ed anche degenerativo sino a vere e proprie manipolazioni-mistificazioni.


Ad ogni buon conto rientrano nel novero di una tassonomia peculiarmente biologica fondata sulla pelle le tre varianti che rispondono rispettivamente al concetto di mulatto (figlio di un genitore nero e di uno bianco, solitamente di madre spagnola e padre africano oppure viceversa), sanguemisto (figlio di genitori con un tasso differenziato di presenza di sangue originariamente appartenente a persona bianca, per cui nelle Antille ad esempio si poteva accedere a certi gradi dell’amministrazione pubblica solo se la percentuale di sangue di genitore bianco raggiungesse una certa soglia pre-definita), creolo (figlio di un europeo e di un indigeno oppure nato nelle colonie da genitori entrambi spagnoli od entrambi portoghesi cioè peninsulares, nati nella penisola iberica, ma piuttosto propensi a difendere i loro diritti di “indigeni” contro le pretese della lontana madrepatria). Le altre tre classificazioni hanno un carattere più vago: meticcio (figlio di genitori differenziati per origine bianca o nera e senza essere né amerindo, né spagnolo, ma invece l’uno e l’altro insieme), ibrido (genericamente figlio di una unione fra un bianco ed un amerindiano), misto (appellativo di tono stigmatizzante nei riguardi di un soggetto figlio di genitori appartenenti a matrici etniche e/o cromo-epidermiche diverse).


Forme del multiculturalismo


Stati Uniti e Canada sono probabilmente i Paesi in cui maggiormente sono state studiate e messe in atto le politiche sociali sul multiculturalismo. Non a caso nel continente nordamericano non è diffuso il concetto di meticcio, dando per scontato il fatto che le società sono spesso composite, stratificate per etnie. Nel contempo si registrano due opposte tendenze: quella specificamente razzista dell’intolleranza e quella paternalista del laisser faire. Il che non impedisce la diffusività della cosiddetta ossessione cromatica che associa il nero a tutto ciò che è negativo e pericoloso. Anzi a tale proposito è persino dato stabilire un tasso di minaccia per lo status quo correlato con la stessa graduazione di tipo cromatico: dal meno nero al più nero, ovvero dal meno temibile al più temibile.


Lì dove poi il termine di meticcio è presente, per esempio in Messico, esso incontra un atteggiamento particolarmente sfavorevole: il meticcio infatti diventa il capro espiatorio in diverse occasioni ed è identificato con una persona indolente, indisciplinata, imprevedibile, anche ritardata mentalmente (si presume).


Qualcosa di simile avviene nell’ambito della teoria della “degenerescenza” di Gobineau (1853) (sposato con una creola) il quale vedeva una degenerazione nel passaggio dall’una all’altra etnia (o razza, a suo dire). Quasi coeva è l’ipotesi comtiana (Comte 1830-1842) relativa ad un imbianchimento della razza.


Di bel altro avviso è Gilberto Freyre (1933) che parla invece di “misgenazione”, che risulta in contrapposizione alla “degeneresceenza” di Gobineau perché evidenzia la novità dell’incontro fra indios, africani e portoghesi, che mescolati fra loro rappresentano una vera e propria avventura “splendida” di dissoluzione, in cui esattamente il meticciato – termine rifiutato nella parte settentrionale del continente americano – viene invece rigenerato ed enfatizzato divenendo il pride, ovvero orgulho,orgoglio dell’esperienza brasiliana, assurgendo altresì a simbolo della nazionalità e prolegomeno di un futuro mondiale largamente meticciato. Dal tropicalismo al negativo delle considerazioni di Claude Lèvi-Strauss (1955) si passa così al lusotropicalismo, che valorizza la prospettiva lusitana delle culture portoghese e brasiliana e va oltre il mero “differenzialismo etnico”, pensando piuttosto a dar lustro all’integrazione delle minoranze, come già avvenuto in passato in Brasile, con i flussi migratori italiani nello stato di San Paolo e tedeschi nello stato di Santa Catalina. Sulla stessa scia si è posto anche l’antropologo francese Roger Bastide (1971, 1980), profondo conoscitore della realtà sociale paulista.


Un altro sostenitore della peculiarità multiculturale dell’America Latina è il cubano Ortiz (1947) che parla esplicitamente di transculturalità come frutto della transculturazione (in opposizione all’idea dell’acculturazione di matrice statunitense), ben edotto dalla lezione di Bronislaw Malinowski (1945) secondo cui si registra sempre qualcosa in cambio di quel che si riceve. In effetti la transculturazione è un insieme di trasmutazioni constanti ed è creativa senza sosta ed irreversibile. Le due parti in causa si modificano. Emerge allora una nuova realtà che non è più un mosaico di caratteri quanto piuttosto un fenomeno del tutto nuovo, originale e indipendente. Con tale motivazione è legittimata la visione transculturale e si apre la strada alla mixità, ovvero all’ibridazione, poi ripresa da Néstor García Canclini (1989).


Le proposte interpretative di Freyre, Ortiz e di García Canclini sono dunque assai diverse dalle idee di bricolage ed assemblaggio suggerite da Lévi-Strauss (1962). Diversamente dall’andamento che prevede una transizione dal puro all’impuro e dall’omogeneo al disomogeneo il meticciato rappresenta una terza via che prelude ad un futuro dell’umanità ben più articolato del presente. Già nell’India colonizzata dagli inglesi il meticcio ha avuto, attraverso le generazioni, una legittimazione quasi totale. Ma è stato soprattutto nel Brasile degli anni Trenta sotto Getulio Vargas (presidente dal 1930 al 1945 e poi dal 1951 al 1954) che l’idea di “purezza meticcia” ha raggiunto la sua piena cittadinanza, ribaltando gli andamenti abituali di progressiva purificazione della razza (o dell’etnia). Dunque si è parlato debitamente di un “estado novo”, di uno stato nuovo inteso sia come condizione sia come istituzione politica. Ed allora in chiave metaforica anche un ballo come il samba ha assunto un carattere egemonico, di connotazione patriottica ed in chiave difensiva del meticcio come riferimento ideale per tutti. Il che è avvenuto in Brasile come nei Caraibi, nelle Isole Mauritius come nell’Île de la Réunion. Il risultato finale è quello di un’embricazione-sovrapposizione che dà origine ad una sorta di unico grande fiume derivante da tanti affluenti.


Multidimensionalità e accommodation


Nel filone statunitense di studi sull’emigrazione ha avuto un’influenza notevole il punto di vista espresso da Milton Gordon (1964), esponente della cosiddetta Scuola di Chicago e promotore di una sorta di ideologia popolare, ad uso degli Stati Uniti d’America. Gordon si sofferma soprattutto sulle tensioni in atto tra le nuove generazioni e tra i nuovi immigrati e vede nella guerra in Vietnam l’origine di una riemersione di forme tipiche, tradizionali, di razzismo.


Per Gordon esistono sette forme di assimilazione: culturale, strutturale, maritale (coniugale-matrimoniale), identitaria, pregiudiziale, discriminatoria, civica. Ognuna di esse presenta vantaggi e svantaggi ma ognuna favorirebbe l’integrazione nella società statunitense. Di fatto però esistono ed operano intensamente diverse altre forme di assimilazione: socio-economica, educazionale, reddituale, occupazionale, legata al capitale umano (o culturale o sociale o relazionale o di altri tipo ancora), spaziale. Quest’ultima in particolare è richiamata da Massey (Massey, Mullan 1984; Massey, Denton 1985) appunto come spatial assimilation in quanto prevede la possibilità di acquisto di residenze sempre più lussuose e vantaggiose per la presenza di urbanizzazione avanzata, di scuole prestigiose, di strade agibili e curate al massimo e così via. L’assimilazione peraltro può favorire la partecipazione in gruppi etnici estemporanei, non duraturi, giacché i singoli soggetti e/o i gruppi già coesi per conto proprio tendono a conservare le loro radici di origine, nonostante le nuove conclamate appartenenze. Pertanto le diversità persistono nel tempo e non si annullano del tutto. Non è un caso che chi ha studiato approfonditamente le dinamiche reali in atto ha accertato che solo dopo sei generazioni si può essere sicuri di un superamento delle matrici originarie e di un buon tasso di assimilazione compiuta (Warner, Srole 1945).


In pratica l’assimilazione, anche se realizzata, assume un carattere comunque flessibile e soggetto a modifiche in progress. Come ricorda Brubaker (2001) sebbene l’assimilazione comporti che un gruppo divenga simile ad un altro nondimeno l’etnicità perdura, le basi culturali non scompaiono. Semmai sono i confini fra l’una e l’altra cultura che si assottigliano, tendono a rendersi meno evidenti, grazie ad un lento e graduale cambiamento. Ma l’assimilazione non ha luogo immediatamente e senza conseguenze. In effetti la tendenza è verso una certa segmentazione per cui è a partire dalla seconda e principalmente dalla terza generazione che si notano le prime significative differenze (Portes, Zhou 1993): sono tre sostanzialmente i modelli che si presentano: quello dell’assimilazione tout court, quello dell’esclusione razziale (anche auto-proclamata e sostenuta ad ogni costo come nel caso delle comunità cinesi), quello del pluralismo culturale promosso dalle minoranze etniche. Negli ultimi due modelli vige comunque il sistema di enclaves etnico-economiche costituite a propria difesa. 


Fra le risposte dialettiche rispetto a Gordon è da annoverare quella fornita da Nathan Glazer (1993) che obietta non essere l’assimilazione l’unica modalità praticabile, giacché sono possibili altre soluzioni: o il pluralismo culturale o l’esclusione delle culture “altre”. Intanto la cultura WASP (White Anglo-Saxon Protestant) continua a prevalere negli Stati Uniti. Con essa vanno fatti i conti. Le minoranze lo sanno bene. Solo le denominazioni religiose riescono più agevolmente a sfuggire alla “cappa” WASP.


Altrimenti vi è la soluzione detta accommodation, una delle quattro maniere intraviste da Park e Burgess (1921) per l’interazione sociale, in quanto si riferisce ad una procedura atta ad evitare conflitti ed a favorire rapporti in quelle situazioni in cui si riconosce la presenza dominante altrui e dunque si è costretti ad una sorta di “vivi e lascia vivere”, nella misura in cui anche chi domina consenta tale soluzione.


Molto dipende dal livello di potere esercitato da chi si trova in condizioni di superiorità e dalle capacità di risposta di chi è deprivato di una uguale potenzialità. Un conto è trattare alla pari o quasi, un discorso diverso è operare invece in condizioni di sudditanza, allorquando è necessario far ricorso a strategie provvisorie in attesa di tempi migliori, più favorevoli. Per questo si scelgono vie piuttosto pacifiche, anche per non danneggiare altri soggetti e conservare una certa credibilità per future azioni. Ecco dunque che si offrono compromessi e tregue, si cerca di guadagnare spazio in un ambito e magari se ne perde altrove. Naturalmente occorre mantenere una dirittura comportamentale che non denoti eccessiva debolezza né altrettanta sfrontatezza. Molto dipende però da persone e circostanze, occasioni ed incertezze, difficoltà e squilibri anche temporanei da cogliere oculatamente. Chi ha minori possibilità cerca di sistemarsi in qualche modo a fronte di uno sbilanciamento che può arrecare danni anche irreparabili. Più che alla conflittualità conviene allora ricorrere alla negoziazione, ad una politica del trattare e non del contrastare ad ogni costo. Può pure convenire qualche “devoluzione” o concessione, in vista di un recupero di agibilità. Oppure conviene fare riferimento ad altri per alleanze di reciproca utilità.


Più agevole risulta ovviamente l’agire in un contesto in cui vi è un tendenziale equilibrio tra le forze sociali in campo. In questo caso è importante mantenere un buon grado di indipendenza, cercare accordi per alternanze di gestione o cooperazione su obiettivi di comune interesse. Le forme di accommodation possono andare dalle questioni etniche a quelle religiose, da quelle politiche a quelle territoriali, da quelle normative a quelle economiche. In ogni caso appare opportuno cercare intese, attraverso una divisione di competenze ed ambiti di intervento. Di comune interesse è poi l’evitare disordini e svantaggi.


Infine non è detto che l’accommodation porti ad un’assimilazione totale o quasi; può anche essere una prima fase esplorativa in attesa di un momento più conflittuale. Insomma l’accommodation appare più che altro come una strategia momentanea per sopperire ad un disagio. E certamente si basa su un sapiente uso del tempo, senza risentirne molto in chiave di auto-stima e di fiducia nelle proprie chances.       


Conclusione


Se si guarda al futuro delle problematiche concernenti le migrazioni e l’impatto fra le culture torna utile riprendere quanto suggerito da Howard Gardner (2006), lo studioso noto per la formulazione della teoria sulle intelligenze multiple. Ebbene, in chiave prospettica si può ritenere che vi siano almeno cinque potenziali utilizzi delle nostre menti: il primo riguarda un modo disciplinato, a carattere scientifico, possibilmente non valutativo; il secondo concerne la capacità di sintesi ma anche di accuratezza, efficacia e significatività delle nostre analisi; il terzo ha a che fare con la creatività e quindi con una opzione metadisciplinare, oltre gli steccati delle appartenenze accademiche e con grande disponibilità nel cercare di innovare l’esistente; il quarto investe l’aspetto comportamentale in senso stretto, cioè un atteggiamento fortemente rispettoso degli altri, al disopra pure della tolleranza per mostrare qualcosa di più e meglio della semplice “sopportazione”, mirando perciò all’accoglienza ed all’empatia quanto più ampia possibile; infine non può mancare un afflato etico, fatto di onestà e volontà cooperativa e costruttiva, prioritariamente comunitaristica e disinteressata.   


Non si tratta di un’utopia astratta e lontana. Qualche segnale in questa direzione ci viene anche dalla cronaca più recente. Questa volta non si tratta di raccontare l’ennesimo dramma quanto piuttosto un evento che parrebbe straordinario eppure potrebbe entrare a fare parte della quotidianità. Di recente a Berlino (alla fine di febbraio del 2015), per la rappresentazione dell’opera lirica “Così fan tutte” di Mozart, sono entrati a far parte del coro 73 rifugiati siriani, che sono apparsi sulla scena proprio nel momento in cui i due protagonisti lasciavano le rispettive fidanzate. Il canto eseguito dai profughi inneggiava al paradiso (janna) ed era opera del cantante Ibrahim Qashush, ucciso il 4 luglio del 2011 ad Hama, per le sue proteste antigovernative. Al termine i coristi hanno mostrato le scritte sulle loro magliette che indicavano il luogo della loro provenienza: Damasco, Aleppo, Daraa, Homs, Lattakia…



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[1] Regioni, distretti, aree.