LA RELIGIONE DEI VALORI

Roberto Cipriani


LA RELIGIONE DEI VALORI


di Roberto Cipriani (Università Roma Tre)


Premessa


I soggetti umani sono motivati nel loro agire da vari fattori. Fra questi rivestono un ruolo rilevante, anzi decisivo, i valori.


Per ogni individuo vi sono riferimenti fondamentali che orientano i suoi atteggiamenti ed i suoi comportamenti. Tali riferimenti hanno un carattere astratto, non materiale, anche se poi danno luogo a conseguenze empiricamente rilevabili, e perciò “oggettive”.


Ciò che ha valore, giacché vale più di ogni altra cosa per un soggetto, è quanto egli considera preminente, non sostituibile, non commerciabile, massimamente desiderabile. Ecco perché in nome del valore in cui crede l’individuo è disposto a qualunque sacrificio, ad affrontare ogni tipo di difficoltà.


Dal valore massimo attribuito a qualcosa deriva poi la considerazione di ogni altro elemento, dunque anche la valutazione di ciò che è bene o di ciò che è male, di ciò che è giusto od ingiusto, legittimo o illegittimo, sempre sulla base di un discrimine operato dal soggetto stesso.


I valori possono però essere sia un punto di partenza, sia un punto di arrivo come traguardo da raggiungere, idea da realizzare, obiettivo da conseguire. Dunque si potrebbe dire che sia a monte sia a valle sono sempre i valori ad ispirare l’agire umano.


I valori, così intesi, possono altresì rappresentare un criterio normativo, un parametro di valutazione cui confarsi. Sono essi che orientano le scelte dei soggetti umani e dunque interagiscono con gli interessi e le abitudini preesistenti (e pertanto i valori non sono immuni a loro volta da quei condizionamenti che tendono a mettere in evidenza alcuni interessi specifici ed a consolidare talune abitudini peculiari)


La distinzione fra valori come ideali (che orientano il vissuto individuale) e pratiche concrete (che sono finalizzate al perseguimento di un fine) va tuttavia mantenuta, se non altro per ragioni descrittive. In realtà gli uni e le altre sono rinvenibili empiricamente in un complesso intreccio di cui non è facile stabilire il prius ed il post. Insomma le une non si identificano del tutto con gli altri e viceversa. In particolare non ci si può limitare solo all’analisi di natura behavioristica. Occorre andare oltre, cioè investire su un’area conoscitiva più vasta, costituita dal reticolo di interazioni fra individui e società, fra soggettività e strutture sociali, fra atteggiamenti e comportamenti.


Oggi pertanto non appare più valida la suggestione di Thomas e Znaniecki (1918-1920), che amplificavano al massimo il concetto di valore, sino a concepirlo come qualcosa che fosse comunque carico di un qualche significato, per contrapporlo di fatto ad ogni tipo di atteggiamento. In tal modo i valori assumevano un carattere sociale, gli atteggiamenti erano invece ritenuti avere un connotato individuale, quand’anche in riferimento ad un set sociale rappresentato dai valori stessi.


Sembra ora invece più accreditabile il nesso fra valore ispiratore ed azione concreta, o meglio fra valore e scelta (o non scelta) dell’azione da compiere, delle modalità (tempi – cioè momenti e durate -, mezzi ed obiettivi dell’agire). In altri termini l’applicazione di un valore in chiave di comportamenti da preferire comporta nondimeno la necessità di discernere fra ciò che è auspicabile e ciò che è possibile soppesando le condizioni contingenti.


La dimensione cognitiva dei valori


Vari autori concordano sulla dimensione cognitiva dei valori. In primo luogo va citato il contributo di Kluckhohn (1951) che, oltre l’aspetto cognitivo (connesso al giudizio, positivo o meno, su dati di fatto e comportamenti), include quello affettivo (che riguarda l’accettazione o il rifiuto di quanti si conformano o meno ai valori) e quello selettivo (che segnala la notevole influenza dei valori sulle azioni umane). Quest’ultimo aspetto rimane ad un livello astratto, generale, proprio nel caso del riferimento ai valori, ma concerne una vera e propria normatività nel caso di azioni particolari, abbastanza contestualizzate (Sciolla 2004).


All’ambito cognitivo può aggiungersi altresì quello etico-politico, più pertinente alle istituzioni, alle strutture, alle organizzazioni. Il che si rende necessario per rafforzare le posizioni individuali prevalenti di rinvio a valori condivisi, senza dovere ogni volta giustificare – a livello interpersonale –  condotte e preferenze, atteggiamenti e comportamenti, criteri e procedure. In effetti le istituzioni spesso non provvedono in modo sufficiente a liberare il soggetto da tali gravose incombenze, per cui alla fine il singolo attore sociale si incarica direttamente in prima persona del compito di spiegare, motivare, rendere ragione, giustificare talune sue valutazioni, affrontando un difficile confronto con una pluralità di valori espressi e posizioni assunte in modo assai diversificato. Emerge allora una chiara contrapposizione di punti di vista, di scelte operative, di opinioni di merito. E si rimette in discussione la stessa relazione fra soggetto e società, fra cittadino e stato, fra attore sociale e contesto socio-politico-economico.


Del resto è in tali frangenti che si giunge a parlare di “crisi dei valori”, di “fine dei valori”. Infatti si rileva una tendenza delle società a disgregarsi, a rinunciare alle proprie forme di coesione, a scegliere soluzioni di comodo anche non democratiche, in quanto non legittimate da un consenso sufficiente ed adeguato. Quando poi si completa il quadro del disagio con una forte massificazione dei processi di comunicazione e di delega socio-politica prevale, secondo la prospettiva habermasiana (Habermas 1986), un agire più strumentale che non comunicativo, per cui i valori risultano obliterati, perdendo ogni significato originario.


In definitiva l’individuo si trova ad operare in un vuoto di valori o comunque in un contesto di loro scarsa rilevanza, giacché i valori, anche se considerati condivisibili, devono poi tradursi in decisioni assai precise, non negoziabili. E stabilire dei criteri in proposito appare quanto mai arduo, perché essi rischiano di fornire ricette troppo generiche e pertanto inapplicabili ai casi concreti.


Ecco dunque che occorre districarsi fra molte strade possibili, provando or l’una or l’altra e correndo il rischio di effetti non voluti ed in netta contrapposizione con i valori ideali, desiderabili in partenza.


D’altro canto la modernità ed ancor più la post-modernità consentono anche questo: di poter ritornare sui propri passi e di ricominciare tutto daccapo.      


Che i valori abbiano un contenuto cognitivo, inoltre, è quasi dato per scontato dai sociologi, in particolare da quelli che praticano la sociologia della conoscenza. L’operazione, tipicamente weberiana, messa in atto, è quella di attribuire significato a singoli aspetti della realtà. Dunque valore e significato quasi coincidono, si sovrappongono, in ogni caso mantengono una stretta corrispondenza fra loro.


Anche il carattere identitario è un Leitmotiv che accompagna la fenomenologia dei valori. Infatti proprio attraverso la dimensione valoriale ci si identifica con un movimento, una religione, un partito, una corrente ideologica. In pari tempo le dinamiche storico-sociologiche hanno fatto sì che vengano valorizzate al massimo le peculiarità soggettive, in misura proporzionale con lo sviluppo delle libertà e delle autonomie individuali.


Infine un’ulteriore costante è insita nella capacità normativa delle strutture sociali, delle istituzioni giuridico-politiche e degli organismi collettivi  di fornire parametri di guida per gli attori sociali. Si verificano così processi di legittimazione e di identificazione, che consolidano le appartenenze motivandole sia razionalmente che affettivamente. Al centro di tali operazioni di consolidamento delle relazioni sociali sta quasi sempre il set dei valori di base, che contraddistinguono le specificità delle appartenenze.


Se la modernità e la post-modernità hanno eroso le presunte certezze del passato ed hanno aperto la strada a valori “altri”, meno predittivi e più flessibili (quasi in contraddizione, rispetto alla solida tenuta dei valori di tipo tradizionale), pure hanno consentito inusitati tentativi di ricerca di certezze diverse, di valori alternativi, di verità da costruire e non più da accogliere supinamente.


Si giunge dunque a prospettare una miriade di possibili esiti nella ricerca-acquisizione di valori non tradizionali, non più trasmessi verticalmente dalla generazioni precedenti grazie anche allo zoccolo duro delle consuetudini consolidate, vero e proprio baluardo dei valori precostituiti.


La sfida delle società contemporanee è del tutto originale, giacché si tratta di trovare vie convincenti, mediante ragionamenti fondati e motivazioni solide. In questo campo necessitano conoscenze raffinate ed esperienze adeguate. La diversificazione del sociale non permette scappatoie agevoli.


Gli stessi modi di agire del soggetto sociale sono sottoposti ad analisi conoscitive e producono nuovi termini di confronto per l’esercizio di una riflessività sempre più problematica, complessa, articolata, che a sua volta interagisce con i valori, le conoscenze e le pratiche sociali.   


Valori, interessi ed abitudini


Insieme con i valori, anche gli interessi e le abitudini hanno un peso rilevante per l’azione individuale e sociale. Ma i primi si trovano in una singolare condizione dal punto di vista delle dinamiche sociologiche che li promuovono e li fondano. Infatti sin dal suo ingresso fisico nella società l’individuo si trova dinanzi tutta una serie di elementi precostituiti: i suoi genitori (ma talora solo la madre), i suoi familiari (dalle sorelle e dai fratelli sino ai parenti più lontani), i suoi concittadini (di solito parlanti quasi tutti una medesima lingua o uno stesso dialetto), i suoi vicini di abitazione (in un condominio o in un gruppo di case o capanne). Tutti costoro quasi  accerchiano il neonato, non solo fisicamente ma soprattutto con il loro modo di fare, con le loro parole, con i loro gesti. Inizia così una prima e fondamentale comunicazione: il nuovo arrivato comincia a ricevere messaggi di vario tipo, non tutti omogenei fra loro, ma in qualche misura tendenzialmente convergenti, in quanto si rifanno ad un comune modello culturale, cioè ad una condivisa modalità di intendere l’esistenza, di affrontare la vita, di comportarsi con gli altri. Insomma ancora prima che la sua nascita venga registrata ufficialmente il nuovo soggetto sociale è di fatto un “oggetto”: di attenzioni e di cure, di affetti e di preoccupazioni, il tutto ben carico di contenuti da trasmettere, di emozioni da far trasparire e segnali da far capire.


Ma in verità anche coloro che si affannano attorno al nuovo venuto hanno sperimentato a loro volta la medesima situazione, allorquando in precedenza erano essi stessi dei neonati. È così che di generazione in generazione si inanellano idee e costumi, atteggiamenti e comportamenti, che vanno a costituire una catena senza soluzione di continuità (salvo rare eccezioni). Non si spiega altrimenti un dato di fatto inequivocabile, dato per scontato, ma poco considerato ai fini del mantenimento di un certo approccio alla realtà, dunque di una certa visione del mondo: insomma tutto appare naturale.


Dunque il mondo “naturalmente” dato si accetta, non fa problema, entra a fare parte del vissuto quotidiano, di ciò che è abituale e dunque quasi non discutibile. Del resto si dice che “si è sempre fatto così”. E dunque le madri hanno allattato o comunque allevato la loro prole, i padri hanno pensato in prevalenza all’acquisizione dei beni materiali ed economici per la sopravvivenza, gli anziani hanno provveduto a garantire il legame con il passato, ovvero la continuità con l’esistente.        


Tuttavia è da tenere pure presente che i valori vanno a collocarsi in un quadro precostituito, in quanto la storia ha già fatto accumulare esperienze, ha visto sorgere organismi istituzionali, ha costruito un solido patrimonio di conoscenze. Il che rappresenta l’alveo entro cui il nuovo attore sociale va ad immettersi.


Come un’acqua sorgiva non può non seguire il corso già tracciato dal pregresso scorrere di altre acque allo stesso modo il socializzando si trova a seguire un tracciato già segnato, un percorso quasi obbligato, senza molte possibilità – soprattutto all’inizio – di derogare, di prescindere dall’alveo esistente. Solo più tardi, più a valle, gli sarà permesso di esondare in modo non regolamentato, non irreggimentato. Solo il raggiungimento della maturità, congiunta con l’autonomia di movimento, consente sentieri inusitati, vie originali, sbocchi non previsti.


La costituzione degli interessi precede peraltro ogni proposta di valori. L’interesse di un nuovo nato o di una nuova nata non sembra avere un carattere innato, al di là di alcuni bisogni primari, propri di ogni essere vivente: l’autoconservazione, la protezione, il sostentamento, la ricerca del piacere, l’attenzione nell’evitare ogni situazione spiacevole ed in primo luogo quella del dolore fisico (o affettivo, legato alla privazione di qualcosa di piacevole o sperimentato come necessario per la sopravvivenza). Anzi la stessa apparizione dei valori come contenuto etero-proposto fa leva su alcuni interessi già definiti o comunque ben noti per il soggetto destinatario.


Lo stesso discorso può valere per le abitudini radicate in una certa società. Esse diventano una sorta di habitus per qualunque soggetto, che per essere accettato dagli altri è portato a confarsi agli schemi esistenti, ad adeguarsi alle “ricette” usuali, ad utilizzare le soluzioni correnti.


In definitiva ancor prima che con i valori l’attore sociale si trova a trattare con le abitudini altrui, che diventano anche le sue, e con i suoi stessi interessi di base, che divengono decisivi al momento delle scelte da operare.


Secondo Ronald Inglehart, che da più decenni conduce indagini empiriche sistematiche sui valori in vari paesi in America ed in Europa, sarebbero invece le capacità e le strutture da considerare prioritariamente come variabili indipendenti che orientano il mutamento. A dire il vero Inglehart (1977: Introduction)quando parla di capacità pensa piuttosto alla propensione delle persone ad interessarsi di politica, a comprenderla e dunque a parteciparvi in chiave anti-élite, con attività “di sfida alle élites”. Quando poi si riferisce alle strutture intende quelle economiche, sociali e politiche dei paesi interessati dal suo studio comparativo: le società francese, belga, olandese, tedesca, italiana, lussemburghese, danese, irlandese e britannica.


La medesima prospettiva è utilizzata da Inglehart (1997) anche nello studio successivo su 43 nazioni, in relazione ai processi di modernizzazione e post-modernizzazione, che hanno messo in evidenza una maggiore attenzione ai valori della qualità della vita e dell’autorealizzazione, insieme con l’individualizzazione. Il dato nuovo è quello di una riflessività che porta a prendere le distanze dai valori assoluti per incanalarli invece entro contesti più soggettivizzati, dunque basati sulle preferenze individuali.


Il tutto avverrebbe non senza incertezze, tentennamenti, disagi, attese, contraddizioni, delusioni. Ma l’esito finale, elaborato dal singolo soggetto, sarebbe quello di produrre nuove regole, una normativa più rispondente alla istanze degli attori sociali, soprattutto a livello giovanile.


In tal maniera la socializzazione primaria resta sullo sfondo, quella secondaria subentra in modo deciso e decisivo, privilegiando un andamento orizzontale, intra-generazionale, in sostituzione di quello precedente, più connotato da un profilo inter-generazionale (dalle generazioni adulte verso le generazioni più giovani).


Un precipitato sociologico di tale dinamica mutazionale è il sorgere di un politeismo non più solamente di valori ma di giustificazioni e motivazioni dei valori e dunque delle azioni che ne scaturiscono, come ha sottolineato Bontempi (2001).      


Pur nella differenza delle variabili considerate, vi è una sostanziale convergenza del discorso sociologico applicato ai valori, in quanto le risultanze empiriche non fanno che confermare lo schema interpretativo qui proposto. Semmai, mentre Inglehart enfatizza maggiormente il ruolo dell’istruzione, qui si suggerisce di privilegiare la fase che precede, più incisivamente, il periodo della socializzazione scolastica. Quest’ultima infatti è certamente secondaria rispetto a quella primaria dell’educazione familiare, che dal canto suo ha una sua durata non trascurabile ed un carattere introduttivo, quasi iniziatico si direbbe e dal quale è difficile prescindere.


Valori umani e diritti


I valori possono essere variabili indipendenti, cioè poste all’origine di interessi, abitudini, processi identitari e solidarietà sociali, ma pure variabili dipendenti, cioè derivanti da altri fattori sociali. Nell’uno come nell’altro caso rimane una sostanziale centralità dei valori, che in linea generale possono definirsi umani proprio perché connessi ai soggetti umani ed alle loro predisposizioni di fondo, alle loro credenze fondamentali ed alle loro valutazioni, volte poi ad assumere decisioni.


La varietà dei valori umani è però quanto mai ampia, quasi onnicomprensiva, tanto da abbracciare vari ambiti: da quello conoscitivo a quello comunicativo, da quello giuridico a quello etico-morale, da quello politico a quello economico, da quello educativo a quello medico-sanitario, da quello religioso a quello secolare, dalla vita quotidiana al vissuto di genere.


Una distinzione ricorrente riguarda la differenza che intercorre tra valori applicati e valori finalistici (Rokeach 1973), dunque fra valori che riguardano pratiche individuali e sociali (Rokeach 1979) e valori che rappresentano delle vere e proprie finalità da raggiungere.


Un’altra distinzione piuttosto diffusa è quella fra valori universali e valori particolari. Ma su quali siano i valori da annoverare come universali la discussione è quanto mai aperta. In particolare il dibattito tende a scivolare verso una sovrapposizione fra valori universali e diritti universali, quindi fra valori umani e diritti umani.


Nell’ultimo secolo peraltro lo sviluppo dei diritti umani è andato di pari passo con il processo di “scientizzazione”, che ha visto un forte incremento della rilevanza sociale e pratica degli studi scientifici ed accademici. Soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale l’autorità e l’autorevolezza della ricerca scientifica sono state prese in maggiore considerazione (Drori, Meyer, Ramirez, Schofer 2003), segnatamente in campo medico, economico e manageriale.


Invece le dinamiche di democratizzazione, pur in crescita, non hanno raggiunto i tassi fatti segnare dai diritti umani, collocati al vertice della scala perché sono passati da un interessamento di pochissime nazioni ed organizzazioni agli inizi del Novecento sino a giungere ad oltre trecento organizzazioni e nazioni coinvolte direttamente alla fine del secolo. In proposito determinante è apparso il ruolo della cosiddetta alta educazione (Schofer, Meyer 2005).


Si può dire inoltre che l’espansione dei diritti umani è divenuto un fenomeno mondiale, costituendo perciò una modalità significativa nei più recenti processi di globalizzazione. I problemi dell’uguaglianza e dell’esclusione, per esempio, sono ormai un tema costante, quasi d’obbligo nell’agenda socio-politica internazionale.


Una forte spinta in favore dei valori dell’uguaglianza degli individui e della partecipazione democratica è operante da lungo tempo, grazie altresì alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani promulgata dalle Nazioni Unite. Ma c’è da chiedersi se non vi siano anche altri valori umani universali o presunti tali.


Il fatto è che non appare facile giungere ad un accordo generalizzato sui valori da considerare universali. Non c’è in merito una intesa fra le nazioni. Al massimo resta valida la citata proclamazione dell’ONU, che però non è stata debitamente sottoscritta ed implementata dalla totalità delle nazioni.


In mancanza di consenso sociologico sull’esistenza o meno di valori universali ci si limita di solito a rilevare empiricamente la presenza di valori maggiormente diffusi in ciascuna cultura o contesto socio-geografico-politico. Solo un’ampia, metodologicamente corretta e significativa indagine a livello mondiale ed in chiave comparata sarebbe in grado di fornire qualche indicazione di massima sulla presenza di metavalori largamente rintracciabili (sia pure con modalità differenziate) in varie realtà sociali e perciò suscettibili di essere riconosciuti, grazie alla loro  evidenza empirica, come universali.


Detto altrimenti, non è affatto scontato che valori come libertà, democrazia, rispetto della persona, “sacralità” della vita, uguaglianza fra gli individui ed altri valori ancora siano da considerarsi universali solo perché una certa parte dell’universo li considera preminenti. Esistono situazioni e condizioni, di varia natura, che sembrano sconfessare l’universalità dei suddetti valori, i quali risultano pertanto maggiormente conclamati e sostenuti solo in una data parte del mondo.


I valori universali


La questione dell’universalità dei valori non è di secondo momento: da essa dipende la necessità o meno, per talune organizzazioni e nazioni, di diffondere anche altrove i propri valori di riferimento. Per esempio c’è da domandarsi se sia corretto deontologicamente esportare il valore della libertà o della democrazia facendo ricorso ad uno strumento come la guerra che di per sé è già una negazione e della libertà e della democrazia.


D’altra parte se in un particolare contesto vige come valore un orientamento diverso (o valutato come superiore) da quello del rispetto della vita umana non è certo possibile immaginare di annoverare la “sacralità” della vita tra i valori universali.


Come si vede, non è facile sciogliere la questione relativa a quali siano i valori universali. Ogni affermazione in proposito rischia di essere destituita di fondamento empirico. In effetti sono i singoli e le strutture cui essi appartengono che giudicano della “bontà” di un valore facendovi ricorso nelle loro azioni sia quotidiane sia a più lunga gittata.


Solo in via ipotetica è possibile pensare a valori universali, di largo riconoscimento nelle diverse culture attive in tutto il pianeta. E l’ipotesi eventualmente formulata è pur sempre destinata ad essere confutata non appena si presenti un’evidenza empirica in senso contrario.


In termini provocatori (ma produttivi sul piano della conoscenza scientifica applicata alle dinamiche valoriali) si potrebbe dunque partire con il sostenere che la soppressione di una vita umana sia un valore ed andare poi a verificare se questo punto di vista sia o non sia rilevabile in ciascuna delle realtà sociali esistenti nel mondo. E così si scoprirebbe, ad esempio, che il sacrificio della propria vita risulta particolarmente apprezzato in determinati ambiti, alla luce di credenze culturali, ideologiche o religiose, che privilegiano una finalità diversa rispetto a quella che prevede un giudizio del tutto negativo sulla fine – voluta o procurata – di un’esistenza.


Per di più, in una medesima realtà sociale si può riscontrare una netta contrapposizione fra i valori della maggioranza e quelli della minoranza: è il caso tipico dei gruppi devianti o marginali, che seguono logiche valoriali assai diverse da quelle della maggioranza, ma senza che vi sia una sostanziale differenza per quanto riguarda l’influenza esercitata dai valori prescelti: la lealtà di gruppo in una banda criminale può essere ben maggiore di quella in atto in un team aziendale.


Forse una soluzione praticabile potrebbe essere quella di parlare di valori quasi-universali o para-universali, intendendo così che la classificazione suggerita non ha alcuna pretesa di esaustività e di generalizzabilità. In fondo appare conveniente evitare posizioni assolute, autoreferenziali, apodittiche. I valori in effetti non dipendono solo dalla capacità di un gruppo dominante nell’imporli anche ad altri individui e gruppi sociali.


Peraltro la capacità dei valori di essere rispettati o meno si lega a numerose variabili, non facilmente prevedibili e soppesabili. Soprattutto nel campo dei valori molte previsioni sono destinate al fallimento, tale e tanta è la mole dei fattori in gioco, a volte convergenti ed a volte divergenti, talora fortemente contrastanti fra loro e talora più disponibili, cioè meno belligeranti verso i “controvalori”.


La variabilità dei soggetti umani è anche variabilità di tenuta dei valori. Quest’ultima dipende altresì dal tasso di importanza che ciascun valore ha per il singolo e/o per il gruppo. Non a caso le decisioni più problematiche sono quelle che contemplano la messa in discussione di più valori, ugualmente presenti nel bagaglio culturale e personale, secondo una classificazione più o meno consapevole ma che diventa esplicita allorquando è in gioco una scelta da fare.


Tuttavia se anche uno specifico valore ha la meglio e fa pendere il piatto della bilancia in un senso non è detto che in una successiva occasione sia sempre il medesimo valore a prevalere. Insomma le circostanze, i condizionamenti contingenti ed altri fattori, anche affettivi, possono pesare in modo decisivo, pure indipendentemente da quella che è la scala di valori idealmente sostenuta dal singolo soggetto sociale.                     


I valori religiosi


Le cosiddette religioni universali, da quelle dette del libro (ebraismo, cristianesimo ed islam) a quelle di matrice orientale (taoismo, confucianesimo, induismo, buddismo, scintoismo), presentano tutte dei contenuti valoriali, che ruotano attorno ad una specifica concezione del mondo, del significato dell’esistenza, del destino umano.


Un tentativo sommario di sincretismo incentrato sui valori potrebbe vedere una certa convergenza fra la religione ebraica, quella cristiana e quella islamica, nonostante vari eventi della storia passata e contemporanea facciano escludere la praticabilità di tale esperienza comune. Ma tentativi non sono mancati, anche in forma ufficiale ed organizzata. Né mancheranno, probabilmente, anche in futuro.


Nel campo delle religioni cinesi ed orientali si deve registrare l’esperienza del Ju-Fu-Tao, che mette insieme confucianesimo, buddismo e taoismo, come se si trattasse di una medesima religione, praticata soprattutto dai cinesi moderni.


Altrove, in Giappone, si va oltre: non solo si hanno culti e riferimenti valoriali che pertengono a più religioni asiatiche (soprattutto scintoismo e buddismo) ma che inglobano pure talune sortite in campo cristiano, dando luogo ad un misto di valori e pratiche spesso in alternanza fra loro, secondo i momenti del vissuto personale dei soggetti, delle loro famiglie e delle comunità di appartenenza. Non a caso nei primi decenni del secolo scorso si è avuto un tentativo di unificare scintoismo, buddismo e cristianesimo.   


Tra i contenuti valoriali più diffusi in ambito orientale è da segnalare senz’altro la venerazione per le passate generazioni, che si estrinseca in un vero e proprio culto per gli antenati. Ne fa parte il valore massimo attribuito alla pietà filiale, che si allarga sino al rispetto dovuto ad ogni altro essere umano. In alcuni casi l’attenzione alle persone precede lo stesso amore verso la divinità, cosicché i grandi uomini, chiamati maestri, divengono più importanti degli esseri divini.


Rispetto al carattere etico-sociale del confucianesimo il buddismo sviluppa ancor più il valore della spiritualità di vita. Ma va anche detto che con la proclamazione della repubblica in Cina, agli inizi del secolo scorso, si è andato diffondendo il sistema proposto da Sun Yat-Sen, che si fonda su tre valori: nazionalismo, democrazia e socialismo. Quest’ultimo assume poi un carattere meno idealistico e più militare con l’avvento del maoismo.


Induismo e buddismo, dal canto loro, sono apparsi più sensibili alla questione escatologica, in particolare al destino degli esseri viventi una volta giunti al termine del loro ciclo esistenziale. Infatti i valori centrali degli induisti e dei buddisti sono connessi alla dinamica della trasmigrazione delle anime, in virtù della quale vengono enfatizzati gli aspetti spiritualistici.


Nell’ambito dell’induismo, però, la divisione in caste ha prodotto vari contraccolpi, con tentativi di rigetto che si sono concretizzati nella nascita di una nuova religione, il sikhismo, ad opera di Nanak, già cinque secoli fa. Quasi coevo fu il tentativo di Kabir di superare il ritualismo e l’idolatria, propugnando la fusione di induismo ed islam, poi riproposta in chiave politica dall’imperatore indiano Akbar, musulmano. Alla fine è l’islam che riesce ad aver la meglio, anche per ragioni di natura militare imposte dal sovrano mogol Shah Jahan.


L’induismo torna in auge a seguito di una svolta ancor più spiritualista (derivante dal brahamanesimo), che crea le premesse per la predicazione del valore della bontà, sostenuto da Devendranath Tagore, padre del famoso poeta, a sua volta anch’egli punto di riferimento fondamentale per la cultura induista.


Ulteriori spinte verso l’unione fra religioni diverse si presentano di tanto in tanto: dapprima con Ram Mohan Roy, fautore di un induismo definito unitario e favorevole al riformismo britannico in India; poi con Keshab, che prova ad incorporare il cristianesimo nell’induismo unitario; più tardi con Ramakrishna, che auspica un sincretismo totale fra le religioni.


La vivacità delle dinamiche interne all’induismo è confermata altresì dall’esaltazione del valore di una vita vegetariana, predicata da Dayananda Sgravati, attivo anche negli Stati Uniti ed in Europa. Vi è infine Mahatma Gandhi che predica i valori della non violenza, della  resistenza passiva, della purezza e della verità. E più avanti si farà strada anche il valore della tolleranza religiosa.


Il buddismo, dal canto suo, ha insistito nel corso dei secoli sul valore dell’assenza del desiderio, connesso al controllo del proprio corpo ed al principio dell’auto-aiuto.


Non è estranea a questi filoni plurisecolari delle religioni orientali la nascita stessa della società teosofica, che si basa sia sul buddismo che sull’induismo.


Nel frattempo numerose letture filosofico-religiose hanno costellato la storia dell’umanità: dall’arabo Averroè all’ebreo Maimonide ed al cristiano Tommaso d’Aquino. In campo letterario Chaucer ha esaltato i valori della vita comune dell’umanità e della fratellanza sociale nei suoi Racconti di Canterbury. Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro hanno parlato del valore della semplicità di vita. Rousseau ha insistito sulla libertà del pensiero. I filosofi Lessing ed Herder hanno intravisto le capacità di sviluppo dell’uomo in ogni genere di religione. Wordsworth ha notato il carattere spirituale della vita in comune. Felix Adler ha fondato la Società Etica di New York e Stanton Colt la Società Etica Inglese. Horace Bridges poi ha avuto a che fare con la Società Etica di Chicago. Tolstoi e Kropotkin hanno propugnato i valori della giustizia sociale e della fratellanza umana. Rauschenbush è da ricordare per il suo “vangelo sociale”, John Dewey per Una fede comune e J. Middleton Murry per il “socialismo religioso”. Anche Albert Einstein è da menzionare per il suo rispetto dei valori insiti nella vita umana e nell’etica. Martin Buber infine ha dato grande rilievo al valore della dimensione individuale. Poste tali premesse non giunge inattesa l’idea di realizzare, nella seconda metà del secolo scorso, il primo congresso internazionale sull’umanesimo e la cultura etica.                


Hans Küng, che ha completato la pubblicazione della sua trilogia sulle tre religioni del libro (Küng 1993, 1997, 2005), evidenziandone i numerosi punti di contatto, ha ribadito altresì che “c’è una base comune: non uccidere, non torturare, non violare; non rubare, non corrompere, non tradire; non mentire, non dare falsa testimonianza; non abusare sessualmente. Questi sono principi che si trovano in tutte le religioni. In generale i cattolici sono assolutamente d’accordo. Il problema sorge quando si incomincia  ad identificare il rispetto per la vita con la condanna degli anticoncezionali, se si ha una posizione rigida sull’aborto, se si ha un atteggiamento discriminatorio verso l’omosessualità e se non si capiscono i problemi associati all’eutanasia”.  E poi conclude: “abbiamo bisogno di un fondamento morale. Ma questo non può essere il laicismo, né può essere il clericalismo, non può essere la restaurazione di un’Europa cristiana come la vedeva papa Wojtyla, e neanche può essere la restaurazione di uno Stato ateo come dopo la Rivoluzione francese. Abbiamo bisogno di un fondamento etico, ossia l’accettazione di norme etiche di base, sostenute da tutte le religioni importanti e dalle tradizioni filosofiche, che possono accettare anche i non credenti”.     


Al di là dei valori religiosi


I valori religiosi per il loro essere innervati all’interno di un apparato necessariamente ideologico, inteso come insieme di idee fondanti ed irrinunciabili, vengono spesso a fungere da veicoli per condanne, precetti, proibizioni. Questa loro caratteristica non impedisce tuttavia che possano rientrare in un novero di accettabilità sufficientemente condivisa. Talora capita che in nome di una religione confessata e praticata si intenda proporre il proprio orientamento di valore, chiedendone pure il riconoscimento giuridico a livello costituzionale, nella normativa corrente e nella regolamentazione dei culti, con estensioni sino a comprendere aspetti lontani da quelli peculiari di una credenza religiosa.


Specialmente a fronte di una conclamata crisi dei valori, si invoca talora il ripristino di quelli religiosi come soluzione vincente e rimedio ineludibile. Ma le conoscenze fornite dagli studi sociologici dicono chiaramente che nessun valore, religioso o laico (o secolare) che sia, è in grado da solo di soddisfare in toto quanto necessario per la convivenza sociale. Lo stesso dicasi per ogni insieme di valori religiosi appartenenti ad una specifica confessione religiosa. Il diritto, l’organizzazione statale e le procedure hanno una tale complessità che non può essere risolta da un solo quadro di riferimento valoriale. Va considerato principalmente il fatto che le situazioni evolvono, si presentano in modo imprevedibile, offrono articolazioni complicate ed inestricabili. Informare una legislazione ad un gruppo di valori religiosi specifici e conformare ad essi tutto l’ambito dell’agire sociale non paiono opzioni adeguate ad affrontare le differenze insite nel sociale, a risolvere a monte ogni contrasto, a prevedere ogni sviluppo delle dinamiche democratiche, a prefigurare scelte politiche di ogni tipo.


E peraltro i valori, religiosi o meno, non esauriscono la loro funzione e la loro influenza, in un particolare ordinamento normativo. Essi vanno ben oltre e perciò comportano un riferimento più ampio, un fondamento più saldo, dato dagli stessi attori sociali, al di là di semplificazioni scontate e con un forte esercizio critico nei riguardi delle scelte da operare.


I valori non sembrano di fatto una ricetta applicabile ad ogni evenienza. La loro messa in pratica richiede di solito un’accorta analisi della realtà sociale. Per di più i valori rappresentano un orientamento di massima e non riescono a sostituire l’azione riflessiva dell’individuo, privandolo completamente della sua libertà di azione. I valori, inoltre, più che una difesa appaiono come un viatico, un accompagnamento per agire nel mondo, con accortezza ma senza paure predeterminate. In pratica i valori sembrano avere una certa somiglianza con le teorie scientifiche: sono di guida ma non tendono ad obbligare, lasciano certamente autonomia ma non a dismisura, usano la “trascendenza” non nel senso strettamente religioso bensì in chiave di superamento di una base esclusiva, immutabile, indefettibile. Insomma anche i valori mutano, si adattano, fanno i conti con la realtà sociale.


Non si tratta tuttavia di una sorta di relativismo diffuso da utilizzare ad ogni costo, quanto piuttosto di un approccio attento ed accurato, che in effetti si fa carico pure del pluralismo ma nel contempo risulta consapevole della relatività delle diverse posizioni esistenti e praticabili.


Si giunge dunque a postulare, da parte dell’attore sociale, non tanto una flessibilità dei valori quanto invece una loro debolezza di partenza perché destinati comunque a scontrarsi con i dati del reale sociale e con il loro divenire.


Non a caso anche la legge fondamentale di uno stato, la costituzione appunto, per quanto considerata “sacra”, fondamentale, pure necessita di aggiornamenti, revisioni, anche in ragione della ricerca di valori tendenzialmente universali, cioè abbastanza consensuali in merito a quanto è ritenuto imprescindibile al momento e per una comunità ben individuata.


Per questo ogni tentativo di religione di stato, o di patto fra un’organizzazione religiosa ed un’istituzione politica, mostra poi la corda perché gli individui sociali sono abbastanza abituati e propensi a rielaborare a livello personale quanto è codificato, dunque a fornirne una propria interpretazione e, soprattutto, un’applicazione misurata, critica e mirata. Le pattuizioni fra chiese ed amministrazioni pubbliche, se anche portano a risultati concreti, con vantaggi ed agevolazioni soprattutto a favore delle organizzazioni religiose, però nel medesimo tempo costituiscono una remora per l’accettazione incondizionata da parte dei cittadini, che si riprendono i loro diritti individuali esercitandoli a prescindere dalla normativa concordata fra i vertici religiosi e quelli politici: la religione perde allora il suo carattere di contenitore di valori disponibili per tutti, viene percepita essenzialmente come ideologia e come potere e viene appaiata a forme non partecipate aventi un carattere impositivo. Di conseguenza vengono giudicati meno credibili i suoi aneliti valoriali per il rispetto dei diritti umani e civili, per l’affermazione della libertà, per la lotta alla schiavitù e per il rifiuto di ogni totalitarismo.    


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