LA FORMAZIONE DELLE RAPPRESENTAZIONI COLLETTIVE

Roberto Cipriani


Premessa


                Le rappresentazioni collettive sono un elemento fondamentale della vita sociale in quanto attraverso esse transitano diverse forme e molti contenuti che sono alla base degli atteggiamenti, cioè delle propensioni, e dei comportamenti, cioè delle azioni degli individui nelle società. C’è dunque uno stretto legame fra le rappresentazioni cui il soggetto fa riferimento ed il suo agire sociale. L’espressione “rappresentazioni collettive” è di origine durkheimiana e deriva in particolare dal suo concetto di “coscienza collettiva” distinto da quello di “coscienza individuale”, cui si contrappone. Oggi però si preferisce parlare di “rappresentazioni sociali”, anche per prendere le distanze dall’impostazione fornita da Durkheim e dalla vaghezza della sua idea di “coscienza collettiva”. Comunque se anche si continua a parlare di rappresentazioni collettive occorre intendere queste ultime essenzialmente come rappresentazioni sociali, dizione più diffusa e largamente accolta dalla letteratura sociologica contemporanea.


                Nel suo volume De la divison du travail social del 1893 Durkheim così definiva la coscienza collettiva: “l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri d’una medesima società forma un sistema determinato che ha una sua propria vita. Lo si può chiamare la coscienza collettiva o comune”[1]. Sono dunque le credenze ed i sentimenti la base costitutiva della coscienza collettiva, condivisa in larga misura da coloro che fanno parte di una società. Tali credenze e sentimenti danno di fatto luogo a dei valori comuni cui i soggetti sociali, cioè gli individui, aderiscono in modo sia razionale che emozionale.


                Successivamente nel saggio durkheimiano “Représentations individuelles et représentations collectives”, pubblicato postumo nel 1924 in Sociologie et Philosophie, emerge chiaramente un superamento della concezione legata alla coscienza collettiva, per lasciare spazio a quella di rappresentazioni collettive che si fondano sull’associazione degli individui, sul loro stare insieme. Esse però vanno bel al di là delle condizioni naturali dell’esistenza umana e producono nuove forme conoscitive e simboliche, credenze e riti[2], che esercitano un potere maggiore ed un’influenza più profonda, ad un livello comunque superiore rispetto a quello della coscienza collettiva.


                Infatti in termini più aggiornati si può essere d’accordo con lo psicologo sociale Gustave-Nicholas Fischer[3]: “la rappresentazione sociale è un processo d’elaborazione percettiva e mentale della realtà che trasforma gli oggetti sociali (persone, contesti, situazioni) in categorie simboliche (valori, credenze, ideologie) e conferisce loro uno statuto cognitivo che permette d’integrare gli aspetti della vita ordinaria con una ricollocazione delle nostre proprie condotte all’interno delle interazioni sociali”. Com’è facile desumere, si tratta di un recupero, al medesimo tempo, e della dimensione psichica (mediante la percezione) e della dimensione sociale (mediante la costruzione di un’interpretazione).


Il  concetto di rappresentazione


                Per cogliere appieno il senso sociologico di ciò che le rappresentazioni collettive (o, meglio, sociali) esprimono, conviene anche fare, sia pure in breve, un excursus sul termine “rappresentazione”. La sua matrice latina (da repraesentatio)segnala che si ha a che fare con l’idea di immagine, ritratto, descrizione, cioè con qualcosa che si mette dinanzi agli occhi, si fa comparire davanti, si esibisce, si evoca (ed anche rievoca), si riproduce, si disegna, si ripete, si rinnova, si imita, si pone in opera, si mette in essere. Da tali significati emerge chiaramente che la rappresentazione è anche una ricostruzione (come un dipinto, una scultura, una raffigurazione che ripropone le fattezze di una persona, il profilo di un paesaggio, il contorno di un oggetto, più o meno lontani nello spazio e nel tempo), ma altresì una riproposizione, una reinterpretazione, frutto di un’elaborazione cui partecipa direttamente lo stesso soggetto, l’attore sociale.


                La rappresentazione ha un carattere tipicamente simbolico, come quello di una carta geografica che sta ad indicare un intero territorio nazionale, mediante segni grafici convenzionali e proiezioni spaziali adeguate. Pure la rappresentazione teatrale rimanda a qualcosa d’altro di cui ripropone una sequenza di eventi agiti da attori-maschere che stanno al posto dei soggetti originari.


                In campo filosofico la rappresentazione è data da un insieme di percezioni che si presentano alla coscienza soggettiva (detta psiche); in particolare fu Leibniz (1646-1716) che fece della “monade” la sede dell’attività rappresentativa perché rifletteva in sé l’universo. Nell’ambito giuridico infine la rappresentazione può riguardare la sostituzione di un altro soggetto attraverso apposita delega ad altra persona oppure significare la successione ereditaria acquisibile da chi succede nei diritti in sostituzione di un altro che non voglia o non possa esercitare i medesimi diritti di successione.


                In definitiva la rappresentazione ha un carattere di corrispondenza fra due entità differenziate, di cui si ri-presentano i dati essenziali, per fornire un’immagine che è comunque frutto di elaborazione, di costruzione. Il che comporta un’azione del pensiero, che comincia dalla percezione e prosegue nella sua riflessione: rispecchia ciò che ha ricevuto ma, almeno in parte, rivisita e rielabora quanto in forma prospettica gli è giunto.


Linguaggio e senso comune come vettori delle rappresentazioni


                Ogni rappresentazione si serve di un apposito linguaggio per potere essere comunicabile. Il linguaggio può essere verbale o gestuale e comunque è deciso, scelto, da chi lo usa come azione – frutto di atteggiamento -, al fine di far sapere ad altri qualcosa, in modo veritiero o simulato, mirando ad illudere, a soddisfare, ad ingannare, a convincere, a commuovere, a stupire. Però in genere si ricorre ad espressioni tipiche del senso comune, che non impegnano molto o affatto e che sbrigano qualsiasi problema con frasi fatte e gesti consuetudinari, abituali e di scarso significato sul piano operativo, cioè dell’agire concreto. Il senso comune non ha, di solito, alcun fondamento scientifico e risponde sovente ad interessi personali mascherati da attenzione verso gli altri. Come scriveva Tommaseo (3-I-103) si tratta di “comiche rappresentazioni …, nel promuovere i propri interessi mostrando aver mira agli altrui”. Inoltre le rappresentazioni del senso comune si basano sul sentito dire, sull’opinione diffusa, prevalente, in modo tuttavia indipendente dalla realtà di fatto. Questo genere di rappresentazioni confina con il pettegolezzo, con la diceria, con la nomea, con la voce pubblica. Eppure contribuiscono a costruire una certa idea su una persona, su un evento e su altro ancora.


                Ma il senso comune ha anche altre valenze collettive e sociali. Così come lo definisce Gallino[4], esso è un “complesso variamente sistematico e coerente di rappresentazioni della realtà dell’uomo, della società, della natura e della sovra-struttura, di giudizi morali ed affettivi sulle loro azioni e condizioni, di credenze sulla concatenazione di cause ed effetti tra eventi umani, naturali e sovrannaturali, di schemi interpretativi utili ad orientare ed a conferire ordine e significato alla vita quotidiana che ciascun essere umano si forma naturalmente ed inconsapevolmente nel corso della socializzazione primaria e secondaria e che costituisce il presupposto basilare delle sue azioni sociali, cioè di tutte le azioni intenzionalmente dirette verso altri soggetti; concezione elementare del mondo e dell’esistenza comune alla maggior parte dei membri d’una società, e utilizzata da quasi tutti loro con un grado minimo o nullo di consapevolezza, tale da permettere di predicare come “ovvi” e “dati” i più diversi stati e variazioni di oggetti, fenomeni, accadimenti naturali, sociali e culturali. Il senso comune è sempre un costrutto, o insieme di costrutti cognitivi e valutativi, fortemente selettivo e astraente, in quanto presceglie e coordina tra loro una serie limitata di “fatti” dalla congerie sterminata che costituiscono il mondo della vita”. Una simile definizione del senso comune chiarisce abbastanza bene quali siano le sue complesse valenze: esso abbraccia quasi ogni settore del vissuto e lo fa in modo sistematico e non necessariamente coerente ma continuo e coordinato in apparenza; in realtà tuttavia manca di fondamento, non procede per conoscenze accertabili ed accertate, dà per scontato ciò che non lo è, costruisce percezioni distorte e distorcenti della realtà, è portato ad esprimere giudizi senza cognizione di causa, si lascia condurre da moti momentanei di tipo emozionale, solitamente manca di consapevolezza, si basa su strutture logiche e raziocinative piuttosto deboli, sceglie alcuni elementi di riferimento e li enfatizza come spiegazione assoluta ed incontrovertibile. Nondimeno resta esso stesso, nella misura in cui opera, un dato sociale di cui tenere conto perché influente e diffuso.


Gli universi di significato, gli universi simbolici e gli universali culturali


                Di livello più elaborato sono gli universi di significato, cioè gli insiemi di valori, visioni, prospettive, considerazioni, che orientano l’agire individuale e sociale. In forma più specifica si parla di universi simbolici che secondo Berger e Luckmann[5] “sono corpi di tradizione teoretica che integrano diverse sfere di significato e abbracciano l’ordine istituzionale in una totalità simbolica”. Detto in altri termini gli universi simbolici sono il risultato di una trasmissione di contenuti conoscitivi che mettono insieme diversi ambiti, appunto sfere di significato (morale, economico, politico, religioso e di altro tipo), cioè vari insiemi di elementi (valori, atteggiamenti, predisposizioni, modi di sentire, teorizzazioni rudimentali, principi comportamentali, regole di condotta, stili di vita, che danno senso all’azione) riguardanti l’intera società, le sue strutture e le modalità d’interazione fra gli individui. Il tutto va a costituire un’unità simbolica, cioè significante, che coinvolge i soggetti sociali e li orienta all’agire. Ogni universo simbolico (politico o religioso od altro) fornisce motivazione e spiegazione all’esistenza. In tal modo favorisce un certo tipo di rappresentazione collettiva invece di un’altra, una particolare concezione della realtà (Weltanschauung, letteralmente: visione del mondo) preferita rispetto ad altre prospettive diversamente orientate. I soggetti sociali appaiono come incorporati negli universi simbolici, che tutto spiegano e motivano. Ma ogni universo simbolico è il risultato di un’oggettivazione sociale, cioè di una costruzione sociale che porta a considerare una certa idea o rappresentazione come unica, la sola credibile, non contestabile. Così dopo l’oggettivazione, gli universi simbolici si sedimentano, si accumulano e si cristallizzano. Ma sono anch’essi un prodotto storico, che proviene da un ordine creato nella storia, per cui tutti gli avvenimenti risultano coerentemente uniti e comprensibili a livello diacronico (attraversando dunque il tempo passato, il presente ed il futuro). La conservazione di tali universi passa attraverso la permanenza di rappresentazioni collettive poco mutevoli e tendenzialmente statiche.


                Anche gli universali culturali si possono far rientrare nel novero delle rappresentazioni collettive. Infatti essi si giovano della lunga durata, che consente una straordinaria stabilizzazione nel tempo e nello spazio, in quanto si ritrovano in ogni epoca storica ed in ogni luogo. Si pensi al tabú dell’incesto: la sua universalità è provata, il suo carattere quasi sacrale è agevolmente verificabile. La stessa idea di tabú ha a che fare con una rappresentazione collettiva, in particolare con la nozione diffusa della proibizione relativa ad un oggetto o ad una persona, che non si può toccare, usare e neppure nominare. Secondo i funzionalisti, in particolare Malinowski[6], è la cultura – in senso socio-antropologico (costumi comportamentali, modi di agire, maniere di esprimersi) -, che nel rispondere ai bisogni (essenzialmente di natura biologica) stabilisce alcuni universali, cioè imperativi di tipo funzionale che servono al mantenimento della società: ancora una volta si tratta di universali culturali che sono anche rappresentazioni collettive, le quali costituiscono, com’è evidente, una base fondante della realtà sociale.


Residui e derivazioni, attribuzione di senso, emico ed etico


                Un’altra fondamentale distinzione è quella di Vilfredo Pareto fra residui e derivazioni. I primi sono ciò che di fisso, costante, quasi immutabile, si ritrova nelle azioni dei soggetti, influenzati come sono da aspetti innati (per esempio gli istinti). Le seconde hanno un carattere più mutevole, più adattabile alle circostanze ed alle convenienze allorquando il soggetto ha la necessità di dare un carattere razionale, logico, anche ad azioni “non-logiche”. Questa operazione di mascheramento, di mistificazione, che in qualche modo è affine all’ideologia, serve a nascondere i residui (ad esempio le motivazioni istintuali) grazie appunto alle derivazioni che coprono con parvenza di logicità ciò che tale non è. Le derivazioni sono fatte di ragionamenti, considerazioni, riflessioni, motivazioni, giustificazioni, che danno luogo ad una sorta di messa in scena, volta a celare le ragioni profonde e reali. Nascono così le coperture a carattere ideologico (dette appunto derivazioni) che razionalizzano le “azioni non-logiche”, pervenendo ad una formulazione giustificatoria che però parte da elementi residuali, cioè proprio dai residui costituiti dagli elementi innati.


                In ogni caso è l’attribuzione di senso al vissuto individuale e sociale che risulta essere il requisito essenziale di ogni rappresentazione collettiva (e sociale). Ma le modalità di costruzione di tali rappresentazioni possono variare in base allo strumento di trasmissione che le rende operative. Secondo uno dei principali autori degli studi cognitivisti, Jerome S. Bruner[7], esse possono avere un carattere esecutivo, iconico e simbolico. Nel primo caso si apprendono attraverso la pratica, il concreto operare, l’esercizio dell’agire. Nel secondo caso la conoscenza e l’apprendimento seguono il percorso tracciato dalle immagini, mediante la segnalazione di affinità, di similarità, di analogie con quanto già sperimentato nell’ambito del fare. Il terzo modo ha una presa maggiore perché comporta un consolidamento sia delle azioni (momento esecutivo) che delle immagini (momento iconico) in una sintesi più efficace a livello simbolico, dove si stabilisce un vero e proprio codice linguistico, ricco di significati. Esecutivo, iconico e simbolico sono compresenti, sovrapponibili, intersecabili fra loro. Anzi si può dire che appunto questa loro flessibilità in termini di convergenza e di traducibilità dall’uno all’altro consente un rafforzamento delle rappresentazioni che ne derivano.


                Sorge a questo proposito un ulteriore problema, legato alla contrapposizione fra emico ed etico. La questione concerne il rapporto fra particolare ed universale. Si potrebbe anche dire fra rappresentazione particolare e rappresentazione universale. In effetti la prospettiva emica tiene conto quasi unicamente del punto di vista specifico dei soggetti che sono protagonisti di una cultura e lo considera il riferimento essenziale per la validità di un’analisi scientifica. L’approccio etico presuppone invece l’esistenza di elementi universali condivisi da tutte le culture e sulla base di questi presupposti prende in esame una cultura specifica, senza dare rilevanza all’orientamento espresso dai soggetti stessi operanti in quel medesimo contesto culturale. Detto altrimenti la soluzione emica pone in evidenza la peculiarità di una situazione, definita e limitata, e la considera autoconsistente, autonoma, non dipendente da fattori condivisi, cioè universali, operanti al di fuori del suo ambito. Al contrario la versione etica tenta di applicare al caso specifico alcuni criteri che si danno per scontati e dunque validi in ogni società, grande o piccola che sia. Entrambe le modalità conoscitive presentano carenze: quella emica non sempre è in grado di riportare fedelmente lo spirito di una comunità, di un gruppo, di un’etnia, di un’intera società, mentre quella etica può essere soggetta a visioni autoreferenziali, etnocentriche, cioè largamente ispirate dalla propria matrice culturale di provenienza, la quale, consapevolmente o meno, condizionerebbe l’operazione conoscitiva. Ebbene in entrambe le situazioni si ha a che fare con rappresentazioni collettive: nell’emico con quelle proprie di una popolazione (e con il convergente adattamento dello studioso alle concezioni individuali e sociali della realtà secondo la sola prospettiva dei soggetti studiati), nell’etico invece con le idee che gli scienziati sociali hanno già accumulate nel loro bagaglio conoscitivo. A proposito di tutto questo, sullo sfondo rimane pur sempre la necessità di stabilire il livello di consapevolezza sia da parte degli attori sociali investigati sia da parte degli stessi sociologi in merito alle rappresentazioni collettive e sociali.


Simboli e legittimazione


                La rappresentazione simbolica è indubbiamente la modalità che esercita il maggiore influsso a livello comunicativo. Essa si giova del suo carattere sintetico, immediatamente allusivo ed evocativo. Una bandiera, un’immagine sacra ed un inno sono altrettanti richiami forti che ottengono risultati maggiori di qualunque discorso ben congegnato e motivato. Attorno ad essi si è coagulato nel corso del tempo un insieme vario e coordinato di contenuti valoriali che ispirano milioni di soggetti sociali, i quali costruiscono le loro concezioni della realtà senza prescindere dai riferimenti di fondo che li orientano. Il rafforzamento proveniente dai simboli si avvale di esperienze pregresse, di socializzazioni previe, di convincimenti radicati.


                Il simbolo è un segno di riconoscimento, che contraddistingue gli appartenenti ad un medesimo insieme. Tale appartenenza tende a produrre prospettive simili, condotte comuni, modelli condivisi di azione. In fondo il simbolo connota le rappresentazioni sociali di coloro i quali vi si rifanno, considerandolo loro espressione fondante. L’identificazione con il simbolo è anch’essa una forma di rappresentazione sociale, nella misura in cui a partire da esso si costruisce una certa visione del mondo che sia in linea con i contenuti valoriali del simbolo, con la sua storia, con le strutture sociali, le associazioni, i movimenti, i gruppi che ne dipendono in maniera più o meno formalizzata, più o meno diretta.


                Il simbolo non è mai casualmente rappresentativo di qualcosa ma è frutto di una scelta oculata e ben motivata. Alla base della costruzione simbolica, attraverso la quale si perviene a stabilire che un certo oggetto, ad esempio, divenga un simbolo, vi è una teorizzazione più o meno raffinata che considera opportuna una certa scelta simbolica invece di altre. Si stabilisce così uno stretto, solido legame fra simbolo e realtà, fra ordine simbolico ed ordine sociale. In tal modo il simbolo rappresenta, cioè sta al posto di qualcosa d’altro, sta per. In pratica il simbolo è anche una interpretazione della realtà, dunque una sua rappresentazione. Ciò è tanto vero che la stessa interpretazione dei sogni (e dei simboli che li attraversano) conduce, secondo Freud, a cogliere nessi significativi con i diversi elementi del vissuto di un individuo: in definitiva i simboli corrispondono quasi perfettamente alla realtà, almeno a livello intenzionale.


                Il simbolo come rappresentazione socialmente accettata si pone a mezza strada fra l’immaginario, quasi senza fondamento concreto, ed il reale, che comunque è assai più fondato di tutto quanto è solo immaginato. Inoltre la comunicazione mediante simboli presuppone che i soggetti posti in relazione (cioè chi trasmette e chi riceve) conoscano i significati dei simboli, altrimenti non sarebbero in condizione di interagire l’uno nei riguardi dell’altro e viceversa.


                A livello simbolico passano molte giustificazioni e spiegazioni. Il che avviene non solo in termini linguistici e retorici, ma mettendo in campo radici culturali, personaggi carismatici, valori di largo richiamo. Per esempio la stessa richiesta di riconoscere e legittimare (in forma giuridico-costituzionale) il carattere cristiano della cultura europea si fonda sulla larga presenza di documenti e testimonianze che fanno memoria di una lunga tradizione, mediante chiese e croci, statue ed oggetti di culto, che arrivano a caratterizzare un ambiente talora in modo iper-rappresentativo, come nel caso della regione tirolese dove la numerosità dei crocifissi lungo le strade aveva attirato l’attenzione critica di Sigmund Freud: “la frequenza dei crocefissi campestri qui in Tirolo, dove sono più numerosi di quanto lo fossero fino a poco tempo fa i turisti, mi ha indotto a studi sulla psicologia delle religioni”[8].


                Com’è noto, Freud ha visto la religione come un’illusione. Infatti “le rappresentazioni religiose sono scaturite dallo stesso bisogno che ha generato tutte le altre acquisizioni della civiltà, ossia dalla necessità di difendersi contro lo schiacciante strapotere della natura”[9]. Tali rappresentazioni vengono dunque costruite quasi per necessità autoprotettive da parte di individui assediati dalle forze della natura. Sarebbe questo, in qualche modo, il motivo della larga presenza di crocefissi in Tirolo: l’espressione del desiderio di difendersi dall’imponderabile della natura ricorrendo a soluzioni apotropaiche, cioè di allontanamento del male, servendosi di simboli difensivi ma anche esplicativi dell’appartenenza culturale di una popolazione e della sua rappresentazione collettiva (o sociale) del mondo. Del resto, proprio parlando di tali forme di rappresentazione, ancora Freud precisa che “si tratta di assiomi, asserzioni riguardanti fatti e rapporti della realtà esterna (o interna) le quali ci comunicano qualcosa che non abbiamo trovato in noi e che pretendono da parte nostra un atto di fede. Poiché ci informano su ciò che più di ogni altra cosa è importante e interessante nella vita, attribuiamo a questi assiomi e asserzioni un valore particolarmente elevato”[10]. Quest’ultimo in effetti è così elevato che diviene il senso stesso da attribuire all’esistenza, una sorta di rappresentazione totale del mondo, il significato globale della realtà. Ed in fondo anche la credenza religiosa ha gli stessi connotati, i medesimi contenuti.


                Da qui al riferimento agli universi simbolici il passo è breve, anzi c’è una sostanziale consonanza se non proprio identificazione, grazie al carattere tendenzialmente totalizzante della rappresentazione. Invero, come affermano Berger e Luckmann, “l’universo simbolico fornisce la legittimazione definitiva dell’ordine istituzionale conferendo a questo il primato nella gerarchia dell’esperienza umana”[11]. Peraltro è “ampiamente provato che la legittimazione simbolica ha come suoi tramiti costanti la dimensione religiosa e quella politica, passa poi attraverso le trame ripetitive del vissuto quotidiano, trova espressioni significative nei prodotti più tipicamente legati alle manifestazioni estetiche”[12]. In definitiva il processo di simbolizzazione e di legittimazione-riconoscimento-accettazione seguono strade talora diverse ma di fatto convergenti nell’esito finale. Un ruolo decisivo è giocato dalla consuetudine e dall’assuefazione che derivano dalla quotidianità di gesti, stili di vita, comportamenti, che divengono un habitus mentale e sociale, difficile da dimettere perché quasi “concresciuto” in connivente connubio con lo sviluppo psico-fisico corrispondente alla socializzazione primaria (familiare) e secondaria (scolastica e gruppale) degli attori sociali. Completano il lungo itinerario di simbolizzazione-legittimazione i prodotti artistici (dalla musica alla pittura, dalla letteratura all’architettura) che corroborano le rappresentazioni collettive e sociali dominanti, le confermano e le dilatano ulteriormente, favorendo una sorta di colonizzazione onnipervasiva.


Ideologia, opinione pubblica, mentalità, coscienza e conoscenza


                Si deve a Karl Mannheim il contributo più significativo sul tema dell’ideologia, da lui contrapposto a quello di utopia[13]. Innanzitutto va chiarito che il sociologo di origine ungherese usa il termine ideologia in senso del tutto neutro, cioè senza attribuirgli l’abituale significato negativo. L’ideologia è un insieme, un sistema di significati, di valori, che esprimono le rappresentazioni tipiche di una collettività, di una società o di un gruppo, di un movimento. Significati, valori e rappresentazioni sono un tutt’uno che concerne atteggiamenti (orientamenti, propensioni) e comportamenti (prassi, azioni). Per Mannheim c’è una distinzione fondamentale da operare fra ideologia totale ed ideologia parziale. Quest’ultima è data dal mascheramento posto in essere da chi intende offrire una visione distorta della realtà per difendere i suoi interessi. L’altra, quella totale, è oggetto di studio della sociologia della conoscenza e rappresenta un quadro più ampio della realtà sociale, ne offre una descrizione-interpretazione complessiva, una concezione intellettuale di grande respiro. L’obiettivo specifico della sociologia della conoscenza è


di analizzare i rapporti fra queste rappresentazioni generali della realtà e le loro condizioni storico-sociali di sfondo, di scenario. La contrapposizione, infine, fra ideologia ed utopia nasce dal fatto che l’una tende a legittimare lo status quo mentre l’altra è più innovativa, critica, tesa al cambiamento ed al superamento dell’esistente.


                Lo studio della costruzione delle ideologie come rappresentazioni porta a considerare il peso delle strutture sociali. Così una società capitalista risulta strettamente legata ad un’ideologia liberale, cioè di libertà di mercato, in cui domina il cosiddetto individualismo possessivo. Indipendentemente dalla fondatezza di una particolare prospettiva di lettura della società, l’ideologia dominante arriva ad informare di sé le dimensioni simboliche, le attitudini comportamentali e le norme che i soggetti hanno introiettate nel corso della loro esistenza. Tutto ciò è dovuto alla loro continua esposizione ai modelli della socializzazione familiare ed extra-familiare, alle propensioni prevalenti nei gruppi di loro riferimento principale, alla forza della tradizione, all’influenza della memoria storica, al peso di leaders più o meno carismatici, all’azione dei mass media tesi alla conservazione delle identità esistenti o a crearne delle nuove attraverso un riferimento comune. Questo non solo si interiorizza ma si trasmette, di generazione in generazione, di società in società. Né si può dimenticare il cosiddetto effetto Pigmalione (derivato dall’omonima opera di George Bernard Shaw e dal mitico re greco che la ispirò), che consiste nel comportarsi secondo le attese degli altri, dunque quasi specchiandosi negli altri ed immedesimandosi in loro e nelle loro concezioni.


                Spesso si invoca l’opinione pubblica come base certa per sostenere una certa linea di pensiero, cioè una rappresentazione diffusa in merito ad una questione cruciale di particolare attualità. Si tratta di volontà individuali convergenti verso un medesimo orientamento. Ma anche in questo caso c’è da chiedersi come nasca una specifica opinione pubblica. All’origine ci può essere l’influenza dei cosiddetti opinion leaders, ma anche uno stretto interesse personale, familiare, lavorativo, politico, religioso od altro. L’opinione pubblica ha un carattere sommario, ma dipende dal collegamento con i singoli che la esprimono. Ciò significa che la sua durata è tendenzialmente limitata e contingente: lo dimostrano bene i diversi risultati di un referendum sulla medesima questione, che a volte raccoglie dissensi a volte ottiene consensi, o comunque registra quantità e qualità di volta in volta differenziate all’interno stesso dell’espressione di favore o di contrarietà.


                La differenza fra opinione e mentalità è costituita dal fatto che mentre l’opinione si basa su valutazioni e rappresentazioni consapevoli ed articolate ma mutevoli, estemporanee, invece la mentalità pur altrettanto ambigua è fortemente salda nelle sue rappresentazioni, nelle sue credenze, nelle sue convinzioni. In altre parole la mentalità appare più statica e duratura dell’opinione pubblica. Ovviamente la sua longevità permane a prescindere dall’orientamento prevalente, sia esso conservatore o innovatore. In qualche momento si può registrare qualche incertezza o doppiezza. Ma si tratta di capire quali siano le motivazioni di fondo che presiedono a tale ambiguità. A ben guardare si scoprirà che la mentalità mantiene una sua coerenza a lunga gittata, per l’abitudine acquisita a navigare lungo il corso della storia ed a scegliere gli obiettivi più opportuni momento per momento, caso per caso. C’è poi sempre da fare i conti con l’equilibrio fra reale ed immaginario, onde mantenere in piedi e far sopravvivere nel tempo la mentalità propria del gruppo, della classe sociale, dell’etnia, della comunità o della confessione religiosa cui si appartiene.


                Tra le appartenenze che favoriscono il sorgere di rappresentazioni sociali largamente condivise è da annoverare quella di classe sociale. La coscienza di classe, poi, rappresenta il punto di partenza per la costruzione dell’idea di conflitto di classe, che si sviluppa dalle considerazioni relative alle proprie condizioni materiali di vita. Nella prospettiva marxista l’opzione è quella per la classe operaia, ma evidentemente anche la borghesia ha una sua consapevolezza di classe dominante. Nella coscienza di classe prevale un contenuto ben diverso dalla coscienza collettiva di Durkheim, impostata invece su valenze valoriali, credenze ed immagini rese comuni dalla tradizione o dal consenso.


                Quanto detto sinora sulla formazione delle rappresentazioni collettive, o sociali che si voglia dire, rientra nel campo peculiare di quel ramo specialistico della sociologia che va sotto il nome di sociologia della conoscenza e che ha una lunga e gloriosa storia di contributi e ricerche. Val dunque la pena di chiarire segnatamente che cosa si debba intendere per conoscenza in chiave sociologica, anche per capire meglio come si costruiscano le rappresentazioni, le quali altro non sono che forme di conoscenza del sociale.


                Le nostre rappresentazioni della realtà si formano a poco a poco sin dal nostro ingresso nella società umana. Quindi l’educazione familiare e quella scolastica danno un contributo fondamentale al nostro sapere, alla nostra conoscenza. Ma è soprattutto il vissuto quotidiano che scava un po’ per volta, ponendo le basi del nostro approccio al vivere ed all’agire sociale. La conoscenza ha una matrice essenzialmente genitoriale ed intergenerazionale. I contenuti trasmessi riguardano le visioni di ordine politico ed economico, etico e religioso, professionale e valoriale. La stessa concezione dello spazio e del tempo deriva dalla duplice socializzazione di base (in famiglia e fuori).


Teorie delle rappresentazioni collettive


                Fra le teorie maggiormente attente alle rappresentazioni collettive e sociali c’è la fenomenologia, che si interessa in particolare al vissuto quotidiano e lo considera fortemente significativo. Essa cerca il senso, l’essenza delle azioni, la loro valenza comunicativa. E lo fa guardando agli aspetti solitamente trascurati dalle grandi teorie sociologiche, protese quasi esclusivamente all’analisi delle macro-strutture politiche ed economiche. L’approccio fenomenologico non si limita ad un’indagine superficiale ed impressionistica, ma va al fondo degli eventi e ne considera l’effervescenza un carattere sintomatico. Alla fenomenologia si rifanno l’interazionismo simbolico e l’etnografia, che mirano soprattutto ad interpretare caratteri e segni del comportamento umano, piuttosto che a spiegarli. In tale prospettiva non si cercano motivi originari, cause, matrici genetiche, quanto invece la coscienza del mondo, ovvero la coscienza che il soggetto ha di sé e del mondo che lo circonda, insomma la sua autorappresentazione in relazione al mondo e la rappresentazione che egli si fa del mondo. Si potrebbe dire che l’attore sociale acquista in tal modo la duplice visione di sé e del mondo.


                Il cognitivismo, dal canto suo, si rivolge ai processi della conoscenza per esaminarli nel loro concreto sviluppo, giovandosi altresì dell’ausilio di altre scienze come la psicologia, la neurologia, la linguistica, l’informatica ed altre ancora. La corrente cognitivista si interessa più agli atti conoscitivi che non alle credenze collettive, insomma guarda alle ragioni addotte, alle argomentazioni, alle giustificazioni, alle motivazioni, alle riflessioni. Si collega al cognitivismo anche la soluzione teorica della scelta razionale (rational choice) diffusa specialmente nel mondo statunitense. Secondo quest’ultima impostazione le rappresentazioni della realtà sarebbero condizionate dall’individualismo utilitaristico dei soggetti umani, i quali sceglierebbero il mezzo considerato più efficace per raggiungere i loro scopi, calcolando costi e benefici.


                Una forma affine di cognitivismo è praticata soprattutto in ambito socio-antropologico, coniugando insieme lingua, cultura e percezione come dimensioni fondamentali delle rappresentazioni ed enfatizzando al massimo l’approccio emico, cioè localistico. Le rappresentazioni che ne risultano sono un interplay, cioè una rete di relazioni fra modalità linguistiche, informazioni percettive, utilizzo di oggetti, caratteri ambientali, prospettive culturali. Anche in questo caso hanno un ruolo importante i simboli, come riferimenti sintetici e complessivi.


                Il costruttivismo infine parte dal presupposto che tutta la percezione della realtà sia frutto di operazioni costruttive, in atto senza soluzione di continuità nel tempo. L’analisi sociologica che ne consegue è aperta a soluzioni non dicotomiche ed abbastanza problematizzate e quindi flessibili a livello interpretativo. Così il quadro sociologico che ne emerge è variegato, articolato, frammentato, proprio come appare la stessa realtà sociale. Ovviamente la conoscenza è parte essenziale di ogni processo costruttivo. Berger et Luckmann[14] sono i maggiori fautori dell’idea che la società sia caratterizzata da molteplici fasi di continua creazione. Anche la posizione teoretica che va sotto il nome di individualismo metodologico ha un carattere costruttivista perché assegna al singolo individuo la possibilità di effettuare le sue scelte al di fuori di condizionamenti dualistici e contrapposti. In effetti le stesse fenomenologie collettive (ivi comprese le rappresentazioni sociali) deriverebbero dalle azioni individuali.


                Il decostruttivismo, da ultimo, mira a rompere la continuità con il passato e con la forme tradizionali di razionalità e di spiegazione, preferendo l’idiografico, cioè la dimensione individuale, unica ed irripetibile, al nomotetico, cioè alla dimensione universale generalizzabile. Esso contesta dunque le interpretazioni fondate sull’analisi delle strutture e delle funzioni, sulle tassonomie formali, sui requisiti universali. Mira perciò a riscoprire il valore del segno, o meglio ad evidenziare che le componenti essenziali del sociale sono date dai valori e dai significati. Pertanto è necessario mettersi dalla parte dell’attore sociale, delle sue definizioni, del suo punto di vista, senza cercare fuori di lui altre spiegazioni che tendono a prescindere dal suo orientamento, dalla sua rappresentazione del mondo. In definitiva la chiave di volta per analizzare la formazione di un pensiero, di una percezione, è da cercare nello stesso soggetto sociale, ricostruendo in primo luogo i significati non espliciti presenti nelle sue concezioni, cioè nel suo immaginare se stesso e la sua vita sociale.


Riferimenti bibliografici


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[1] Emile Durkheim, De la division du travail social, Alcan, Paris, 1893; PUF, Paris, 1996, p. 46; tr. it., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano, 1971.


[2] Emile Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, Alcan, Paris, 1912; tr. it., Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Edizioni di Comunità, Milano, 1963; Newton Compton Italiana, Roma, 1973, p. 59.


[3] Gustave-Nicholas Fischer, Les concepts fondamentaux de la psychologie sociale, Dunod, Paris, 1994, p. 118.


[4] Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1978, p. 604.


[5] Peter L. Berger, Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday, Garden City, N. Y., 1966; tr. it., La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1969, p. 136.


[6] Cfr. Bronislaw Malinowski, A Scientific Theory of Culture, University of North Carolina, Chapel Hill, 1944; tr. it., Teoria scientifica della cultura e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1962.


[7] Cfr. Jerome S. Bruner, On Knowing. Essays for the Left Hand, Harvard University Press, Cambridge, Ma., 1964; tr. it., Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Armando, Roma, 1968. Cfr. Jerome S. Bruner, Rose R. Olver, Patricia M. Greenfield, Studies in Cognitive Growth. A Collaboration at the Center for Cognitive Studies, John Wiley & Sons, New York, 1968; tr. it., Studi sullo sviluppo cognitivo, Armando, Roma, 1972. Cfr. Jerome S. Bruner, Actual Minds, Possibile Worlds, Harvard University Press, Cambridge, Ma., 1986; tr. it., La mente a più dimensioni, Laterza, Bari, 1988.


[8] Károly Kerényi, “Introduzione” in Sigmund Freud, Totem e tabú, Boringhieri, Torino, 1969, p. 10. Il testo riportato è tratto da una lettera scritta da Freud a Ludwig Binswanger il 10 settembre 1911.


[9] Sigmund Freud, L’avvenire di un’illusione, in Opere 1924-1929, a cura di Cesare Musatti, vol. X, Bollati Boringhieri,Torino, 1978, p. 451.


[10] Op. cit., p. 455.


[11] Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, op. cit., p. 140.


[12] Roberto Cipriani, “La dimensione simbolica della legittimazione”, in Roberto Cipriani (a cura di), La legittimazione simbolica, Morcelliana, Brescia, 1986, pp. 99-100.


[13] Cfr. Karl Mannheim, Ideologie und Utopie; Cohen, Bonn, 1929; tr. it, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna, 1956.


[14] Cfr. Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, op. cit.