IL PUNTO DI VISTA DELL’UNIVERSITA’ SULLO SVILUPPO PROFESSIONALE

Roberto Cipriani

Ogni azione di sviluppo professionale a livello di risorse umane non può prescindere dal prendere in considerazione la percezione che ne possono avere sia i destinatari diretti, cioè gli operatori bancari nella fattispecie, sia quelli indiretti (ma non per questo meno significativi per l’intero sistema-banca) cioè i clienti-utenti.

Il problema – si dice oggi – è quello di gestire la conoscenza e ben vengano dunque i knowledge managers. Ma quando si parla di conoscenza non ci si può limitare alle metodiche, più o meno innovative, di addestramento, motivazione, ricompense, acquisizione delle competenze, scambi organizzativi, apprendimento delle best practices.

C’è un’operazione ancora più a fondo da condurre: l’approccio al fattore umano, non inteso in senso tradizionale in un’ottica di marketing, quanto piuttosto a livello di comprensione, condivisione delle esperienze, analisi compartecipata a livello interpersonale, sinergia orientata verso obiettivi comuni, consistenti per esempio in correttezza a livello di comunicazione e competenza nella prassi intersoggettiva.

Nella misura in cui si impara a conoscere le persone e le loro istanze diventa anche più agevole coglierne le istanze, le emozioni, le attese. Indubbiamente però “rumori” di varia natura interferiscono rispetto ad un corretto scambio interindividuale. Proprio tale interferenza è ormai un dato di fatto costante, con cui occorre abituarsi a convivere, si tratti di una notizia diffusa ad arte, di un semplice pettegolezzo, di una inside information o inside trading od anche di una informazione fondata e/o plausibile.

Sempre più la complessità appare essere una caratteristica dei nostri tempi e dunque una sorta di filo rosso senza soluzione di continuità. Con tale stato di cose si ha a che fare quotidianamente, ragion per cui conviene attrezzarsi adeguatamente, con un approccio per nulla superficiale ma attento, approfondito e continuo, scientificamente orientato e sensibile alle dimensioni umane e dunque etiche.

Un segnale importante giunge dal mondo dei mezzi di comunicazione di massa attraverso i quali passano gli orientamenti più diffusi tra la popolazione. Proprio da questi strumenti di interazione sociale arrivano indicazioni inequivocabili in merito alle preferenze del pubblico, non più orientato a lasciarsi attrarre da un messaggio qualunque ma più propenso a seguire ciò che in qualche misura rappresenta un valore. Ciò si verifica sia in riferimento a temi di grande richiamo quali l’anelito alla pace, la propensione ad un uso attento ed equilibrato delle proprie risorse anche economiche (come spiegare altrimenti il successo delle cosiddette banche etiche?), l’attenzione a problemi di carattere umanitario (come dimostra il notevole sviluppo delle forme di volontariato), la predilezione per riflessioni legate all’esperienza esistenziale (come mostrano, per esempio, i successi di pubblico e di critica di opere cinematografiche che vertono su problematiche di particolare pregnanza sociale).

Ecco dunque che una prima constatazione emerge da tutto questo: la conoscenza non può consistere in una semplice azione tecnica, meramente strumentale, tutta profit oriented. Sorge prepontemente la necessità di farsi carico del lato relazionale delle proprie condotte nei riguardi di soggetti altri, soprattutto di quelli che restano in ogni caso i nostri referenti in quanto ragion d’essere del nostro lavoro e della nostra stessa vita.

Per fare questo, ed altro ancora, diventa impellente imbastire progetti di largo respiro non legati al risultato effimero dell’oggi ma protesi verso risultati di lungo termine, quella fidelizzazione da molti propugnata in chiave strettamente redditizia mentre invece andrebbe considerata come esito prevedibile di una correttezza di rapporti in grado di far superare da una parte e dall’altra le difficoltà contingenti di mercato e di dinamica economica.

Più che a togliere clienti agli altri conviene pensare a trattare bene quelli che già si hanno, i quali non solo possono offrire garanzie di stabilità ma divengono a loro volta altrettanti volani di buona immagine dell’azienda bancaria cui fanno riferimento e di cui si possono dichiarare soddisfatti per il trattamento ricevuto. Ognuno merita le medesime cure, indipendentemente dai capitali a disposizione, anche perché un rapporto stabilmente corretto rassicura il cliente-utente ed evita ripensamenti e decisioni drastiche di rottura. Insomma una predisposizione amichevole difficilmente favorisce soluzioni tendenti all’allontanamento ed alla mancanza di fiducia. Appunto la fiducia reciproca diventa allora la chiave di volta di un successo che si mantiene grazie alle continue conferme di garanzia e di protezione, come se l’altro rappresentasse nient’altro che un prolungamento della propria persona e dunque dei propri stessi interessi.

Oggi si parla, sempre più spesso, di “libertà della conoscenza, criteri di merito, sviluppo professionale”. Nella knowledge society contemporanea in cui sempre più si sta diffondendo, anche nell’imprenditorialità privata, la cultura del knowledge management, diventa sempre più strategica una formazione alla conoscenza adeguata agli obiettivi dello sviluppo nella democrazia e nella libertà, in un quadro di riferimento ben più ampio di quello nazionale, dunque in un contesto internazionale orientato a consolidare la spinta utopica (ma mobilitante e nobilitante) verso la realizzazione di una concreta società internazionale della conoscenza.

Forse anche per questo si sta assistendo in Europa ed altrove ad una lotta serrata per esercitare un forte controllo sociale e politico sulla conoscenza.

Ma in fondo quale partita si sta giocando? Secondo il sociologo tedesco Nico Stehr, autore nel 2003 di Wissenspolitik. Die Űberwachung des Wissens, edito a Francoforte sul Meno da Suhrkamp, vanno analizzate le ragioni per cui le istituzioni stanno mirando al controllo della nuova conoscenza scientifica. Non si tratta più di accertare solo il ruolo sociale della conoscenza, cioè del potere fondato sulla conoscenza, attraverso la trasformazione anche delle carriere di esperti, intellettuali ed élites cognitive. Neppure si tratta di porre attenzione esclusivamente alla produzione della conoscenza. Occorre invece guardare specificamente al consumo di conoscenza, cioè all’uso diffuso della conoscenza ed in particolare ad un uso specifico della conoscenza.

Insomma sarebbe ormai giunto il momento di considerare come primario il compito di interessarsi alla knowledge politics, come nuovo campo della conoscenza e della scienza e come nuovo settore di attività formativa.

Si potrebbero a questo punto invocare nuove capacità di azione conoscitiva e mobilitante (che per esempio in Francia come in Germania ed ora anche in Italia cominciano a riemergere dopo anni di quasi letargo), al fine di comprendere quali siano gli effetti delle nuove forme di conoscenza sulle relazioni sociali e soprattutto per cogliere la portata dei tentativi in atto per il controllo del loro impatto.

Poste tali promesse, la knowledge politics è destinata indubbiamente a guadagnare terreno nel prossimo futuro, specie in riferimento ai rapporti fra scienza e società, fra ricerca e società, fra università e società, fra sistema bancario e società. Si può anche distinguere fra scienza e conoscenza, ma il risultato del loro impatto congiunto ha un pregnante valore sul piano della formazione. Ecco perché ancor prima di accorgersi platealmente degli effetti prodotti conviene esercitare in anticipo un’azione formativa adeguata.

Orbene, in linea anche con le direttive a livello europeo, è necessario accrescere la collaborazione anche fra università e sistemi bancari per un orientamento verso la conoscenza, l’innovazione e la creazione, cioè più in generale verso il trasferimento e la divulgazione della conoscenza. Anche dal punto di vista della concorrenzialità è opportuno che il sapere dell’università si avvicini a quello delle aziende, anche bancarie, e della società. Le modalità principali di trasmissione diretta della conoscenza dall’università al mondo esterno sono infatti legate alla qualificazione delle competenze scientifiche ed alla formulazione di nuove proposte formative utili al sistema sociale. Ma in realtà le università mettono poco a disposizione le proprie ricerche e le proprie risorse scientifiche e dunque non utilizzano adeguatamente i frutti della loro attività cercando di stabilire forme di collaborazione con il mondo del lavoro e dell’impresa (inclusa quella bancaria).

Dalle “Statistiche sull’Innovazione in Europa” dell’Eurostat risulta che le principali fonti di innovazione per l’impresa non sono le strutture universitarie e della ricerca scientifica applicata alla formazione. In effetti le aziende innovative usano gli inputs provenienti dal mondo universitario (od anche da quello privato senza fini di lucro) in misura fortemente ridotta, ben al di sotto del 5% dei casi.

Occorre dunque evitare che vi sia un così grande spreco di risorse, favorendo invece il diffondersi del sapere scientifico e formativo, mediante opportune azioni promozionali dei rapporti università-aziende, per sfruttare quanto più possibile i risultati della conoscenza nel campo della formazione.

Ancora sussistono barriere, eppure occorre individuare i fattori che costituiscono ostacolo, per eliminarli, creando occasioni virtuose di collaborazione, moltiplicando i luoghi di confronto e di produzione della conoscenza, come nel caso di questa conferenza dell’European Bank Training Network.

C’è da attendersi risultanti probanti dall’affidamento di attività di ricerca e di formazione ad enti universitari che hanno il grado adeguato di know how teorico, metodologico e tecnico nel campo formativo. Si pensi soprattutto alle facoltà ed ai dipartimenti universitari di scienze della formazione e di scienze dell’educazione, che sono i luoghi deputati all’approfondimento di tali specifiche tematiche e dove dunque gli sviluppi conoscitivi sono presumibilmente up to date.

Vi è tuttavia un problema da risolvere. Si prenda proprio il caso della formazione aziendale in campo bancario. In ambito universitario non è facile reperire competenze specializzate e mirate al settore delle aziende bancarie. Neppure nei corsi di laurea in scienze bancarie si trovano opportuni insegnamenti che facciano della formazione un elemento qualificante in termini di metodi e contenuti. Ebbene è evidente che solo una frequentazione ed una dimestichezza accresciute fra università e banche possono dar luogo a circoli virtuosi di collaborazione, di scambio delle informazioni, di verifica delle procedure e di valutazione degli esiti.

Nell’attuale società globalizzata non è neanche da considerare vincente la prossimità fisico-geografica. Se è vero che molte ed importanti università sono allocate nel medesimo territorio in cui operano i principali istituti bancari è però altrettanto vero che oggi è possibile stabilire accordi e fattive collaborazioni anche fra soggetti piuttosto distanti fra loro in termini spaziali. Al di là delle potenzialità offerte dalla telematica e dunque dalla formazione a distanza, in molti ambiti di attività è possibile implementare sinergie indipendentemente dalla contiguità diretta fra università e banche. Anzi tale dato di fatto permette di godere dei vantaggi di una concorrenza sul piano della qualità dell’offerta formativa, non necessariamente legata alla vicinanza fra una sede universitaria e le agenzie bancarie orientate a svolgere attività formativa.

Certamente i centri universitari migliori hanno maggiori chances perché consentono di passare direttamente ed immediatamente dalla conoscenza avanzata raggiunta alla sua applicazione ai casi concreti di azione formativa.

C’è peraltro una questione non secondaria, nello scenario sinora descritto: la presenza di una sorta di reciproca diffidenza tra i due mondi: quello universitario e quello bancario. Ma qui conviene delineare un quadro fondamentale in funzione prospettica. Occorre cioè approfondire e capire il valore della conoscenza e dunque anche della conoscenza reciproca fra realtà universitaria e realtà bancaria.

La conoscenza è indubbiamente, in chiave sociologica, la base fondamentale del nostro modo di pensare, delle nostre modalità di agire ed in fondo delle nostre scelte decisive. Se non si conoscono i meccanismi della costruzione sociale della conoscenza si rischia di operare a caso, di produrre effetti indesiderati, di sprecare risorse umane ed economiche. Un’utile lettura potrebbe essere quella dell’opera di Peter Berger e Thomas Luckmann su La costruzione sociale della realtà (Doubleday, Garden City; il Mulino, Bologna; Méridiens-Klincksieck, Paris).

D’altra parte è bene considerare che la conoscenza si va sempre più diversificando e specializzando. Pertanto risulta evidente che la stessa formazione nel settore bancario ha necessità di un’azione ad hoc. Dal che emerge, inoltre, che l’università ha bisogno di far ricorso ad un approccio interdisciplinare a carattere socio-economico, orientato allo sviluppo professionale ma anche allo sviluppo sostenibile, alla gestione del rischio ma anche della fiducia. Ecco dunque le nuove sfide che il mondo universitario e quello bancario hanno di fronte: riorganizzare la conoscenza ben oltre il quadro abituale di riferimento, piuttosto inner oriented.

In tale prospettiva vanno superate le barriere fra ricerca fondamentale e ricerca applicata, coniugando per quanto possibile l’attività scientifica di base e quella applicativa, in modo da avanzare proposte finalizzate a trasformare le conoscenze in altrettanti contenuti e modalità da implementare in campo formativo.

Nella misura in cui l’università acquista credibilità ed attira l’interesse del sistema formativo bancario, quest’ultimo può orientarsi a far ricorso più di frequente all’offerta universitaria. L’obiettivo da perseguire resta comunque quello di un corretto equilibrio fra necessità profit oriented, esigenze di deontologia scientifica, autonomia della ricerca, orientamento e contenuti dell’attività formativa.

Lo stesso apprendimento lungo tutto il percorso esistenziale dei soggetti umani, ormai qualificato come un must in più sedi ed a più riprese, consente di sperimentare percorsi permeabili tra contesti universitari e bancari, tra scienza e conoscenza, tra ricerca e formazione. Insomma l’università si può aprire non solo a svolgere corsi formativi in contesti bancari ma anche accogliendo presenze di soggetti bancari nel contesto delle strutture universitarie, per iniziative di formazione condivise con altri interlocutori sociali. In tal modo l’auspicata apertura delle università al mondo esterno (e viceversa) può aver luogo in modo virtuoso, con un miglioramento dei servizi resi reciprocamente, con una differenziazione delle proposte formative, con un’interazione efficace tra le varie categorie di utenti-destinatari dell’offerta formativa, con un incremento del dibattito socio-culturale tra università e banche.

Uno dei punti cardine di tale dibattito è dato proprio dalla natura, dalla committenza, dall’utenza, dalla finalità e dall’efficacia dei corsi di formazione e di ogni altra azione avente un carattere formativo o para-formativo.

Ovviamente una prima distinzione si ha allorquando l’attività formativa è proposta dall’azienda bancaria. Essa si rivolge di solito a gruppi ristretti e selezionati dalla dirigenza, con obiettivi principalmente orientati verso un migliore rendimento operativo ed anche economico delle strutture operanti sul territorio. Ben diverso è il caso di iniziative formative previste da normative contrattuali e/o sollecitate da organizzazioni sindacali, in linea di massima più dirette a sensibilizzare i destinatari verso problematiche di interesse sociale e professionale insieme. In entrambi i casi si parte dal presupposto che lo sviluppo professionale non è un elemento che si dà di per sé o che si autoalimenta anche indipendentemente dalla volontà e dall’agire del singolo. Lo status di bancario o bancaria non garantisce nulla in proposito. Ogni progresso, ogni innovazione è il precipitato concreto di una esplicita volontà di aggiornamento, perfezionamento, adeguamento.

Per di più è ben raro che il compito di un operatore o di un’operatrice di banca si riduca a procedure solo ripetitive. Anche quando sembra che tutto sia nella norma si possono scorgere spunti di novità: si tratti della firma su un assegno o su un mandato o su una reversale, oppure dell’intestazione di un conto, od ancora della valuta estera da prendere in considerazione per il suo cambio giorno per giorno. Anzi, com’è noto, proprio l’assuefazione a pratiche abituali è occasione frequente di errore e dunque comporta un’attivazione massima dell’attenzione ad ogni dettaglio. Lo specialismo di uno sportello o di una serie di operazioni (dal settore titoli a quello delle cambiali) fa sì che vi sia un’approfondita conoscenza di un ambito abbastanza particolare, ma anche in questo caso nulla si può dare per scontato perché le novità sono continue ed imprevedibili.

La non soluzione di continuità dei mutamenti in atto comporta una costante disponibilità ai corsi di formazione ma tale accondiscendenza va verificata di volta in volta, in quanto se l’istanza formativa parte dai diretti interessati la partecipazione è naturalmente più sentita ed anche cospicua sul piano numerico, se viceversa è l’azienda a richiedere una prestazione a carattere formativo non mancano resistenze, a meno che non si tratti di collegare tale iniziativa a prospettive di miglioramento economico e gerarchico nella banca. Non solo varia la percentuale delle adesioni all’una o all’altra forma di attività ma muta anche il tasso di assiduità, in termini di frequenza ai corsi offerti. Va poi segnalato il fenomeno peculiare della ridotta presenza femminile, rispetto a quella maschile, indipendentemente dalle quote effettive di donne presenti negli organici bancari, ripartiti tra personale maschile e femminile. In pratica già le donne sono di per sé meno numerose in banca ma lo sono ancor meno quando si tratti di prendere parte ad occasioni formative.

I dati empirici provano che l’intensità della frequenza dei corsi di formazione è direttamente proporzionale al livello professionale raggiunto, alla posizione nella scala gerarchica della gestione bancaria, alla progressione di carriera ottenuta sulla base di criteri di merito, alla maggiore età anagrafica (ed anche di presenza nell’azienda).

Però risulta che il giudizio è complessivamente meno positivo per la formazione promossa a livello sindacale ed è tendenzialmente più favorevole per quella voluta dai vertici bancari. Appare dunque più qualificata e qualificante la formazione di marca prettamente aziendalistica, forse pure per una più attenta preparazione ed accurata scelta di formatori e metodi.

Non vi è dubbio, in pari tempo, che le offerte formative da parte della dirigenza bancaria, professionalmente più orientati verso obiettivi di sviluppo economico, mirino a privilegiare la selezione di soggetti consensuali nei riguardi della linea politico-economica della banca, dunque più corrivi, meglio identificati con la propria azienda, i cosiddetti “tipi adatti”. Nei corsi di impostazione sindacale l’affluenza è motivata invece da un’esigenza di maggiore conoscenza dei propri diritti e dal bisogno di unirsi in situazione di controparte rispetto al sistema bancario.

Vi è da ultimo un forte desiderio di sviluppo della professionalità che non trova sbocco nella formazione di matrice sindacale (per la propensione ad escludere alcuni contenuti) e neppure nella proposta formativa di provenienza strettamente bancaria (per la propensione ad escludere alcuni soggetti): proprio questo è un bacino di utenza che vale la pena di prendere in massima considerazione.

Infine, a titolo di conclusione, si può forse proporre una provocazione un po’ utopica ma indubbiamente non infondata e non fuor di luogo: a quando un’attività formativa (ed informativa) rivolta non solo agli operatori bancari ma anche alla stessa clientela delle banche? Ne guadagnerebbero le stesse banche, soprattutto in termini di affidabilità, un bene talmente prezioso che nessuna costosissima campagna pubblicitaria riuscirebbe mai a garantire.