ALLE ORIGINI DELLA SALUTE URBANA

Roberto Cipriani


Qualità della vita e salute in ambiente urbano sono temi che sembrerebbero del tutto nuovi nel campo delle scienze sociali, ma in realtà affondano le radici ben lontano nel tempo, sino agli albori della sociologia se non ancora prima che essa sorgesse come disciplina accademica e come scienza legittimata.


Già Tocqueville (1994: 543) nel 1835 scriveva così del benessere: “In America la passione del benessere materiale non è sempre esclusiva, ma è generale e, se tutti non la provano allo stesso modo, tutti però la sentono. La cura di soddisfare i minimi bisogni del corpo e di provvedere alle piccole comodità della vita preoccupa universalmente gli spiriti. Qualcosa di simile si fa vedere sempre più anche in Europa. Fra le cause che producono questi effetti simili nei due mondi, ve ne sono parecchie che toccano il mio argomento e che debbo indicare. Quando le ricchezze sono fissate ereditariamente nelle stesse famiglie, si vedono molti uomini che godono del benessere materiale senza provare il gusto esclusivo di esso”. Il discorso non si applicava solo alle classi superiori ma toccava anche quelle inferiori (Tocqueville, 1994: 544): “Presso la nazioni in cui l’aristocrazia domina la società e la tiene immobile il popolo finisce per abituarsi alla povertà, come i ricchi all’opulenza. Gli uni non si preoccupano del benessere materiale perché lo possiedono senza fatica, l’altro non vi pensa perché dispera di acquistarlo o non lo conosce abbastanza per desiderarlo. In queste società l’immaginazione del povero è respinta verso l’altro mondo; infatti essa sfugge alle miserie della vita reale per cercare i suoi godimenti al di fuori di questa. Quando invece le classi sono confuse e i privilegi distrutti, quando i patrimoni si dividono e la civiltà e la libertà si diffondono, il desiderio di raggiungere il benessere si presenta all’immaginazione del povero e la paura di perderlo a quella del ricco. Si forma una grande quantità di fortune mediocri. Coloro che le posseggono hanno abbastanza beni materiali per concepire il gusto di essi, ma non tanto da contentarsene. Essi se li procurano a fatica e vi si dedicano con timore. Si danno quindi continuamente a perseguire o a mantenere questi godimenti così preziosi, così incompleti e così fuggevoli”. Inoltre: “se cerco una passione che sia naturale a uomini al tempo stesso stimolati e limitati dall’oscurità della loro origine e dalla mediocrità della loro fortuna, non ne trovo alcuna più appropriata del gusto del benessere. La passione del benessere materiale è propria essenzialmente della classe media, ingrandisce e si estende insieme con questa classe e diviene preponderante con essa. Di qui conquista le classi superiori e discende fino al popolo. Non ho trovato in America un cittadino tanto povero da non gettare uno sguardo di speranza e di invidia sui godimenti dei ricchi e la cui immaginazione non afferrasse in precedenza i beni che la sorte si ostinava a rifiutargli”.


In questi brevi ma densi passaggi di Tocqueville c’è una chiara distinzione delle percezioni di classe, in termini di benessere e dunque di qualità della vita. Se il ricco quasi non si rende conto del vantaggio di cui gode e quindi lo dà per scontato, altri non è insensibile all’attrattiva del benessere, che ricerca con grande dedizione, come si registra soprattutto nella classe media. Diverso è l’approccio da parte delle classi più povere, non abituate ad usufruire di una buona qualità di vita e dunque neppure messe in grado di aspirarvi. Nondimeno speranze ed invidie vengono sperimentate dai più bisognosi, che guardano agli altri augurandosi di poterli uguagliare. Sono però specialmente gli appartenenti alle classi medie che ricercano il benessere, tentando di migliorare la qualità della loro vita.


Ma certamente appare lucida e preveggente l’analisi di Tocqueville che individua oltre Atlantico l’inizio del processo di crescita del benessere e del miglioramento della qualità della vita, poi registrabile anche nel nostro continente europeo.


Per lo storico francese è l’ereditarietà dei beni all’origine di un atteggiamento di assuefazione alla vita agiata, senza che ci si renda conto delle condizioni altrui, di quanti cioè non godono del medesimo tipo di esistenza ed anzi soffrono in modo più o meno intenso – in relazione alle loro potenzialità economiche – per situazioni non floride, niente affatto promettenti, quasi prive di speranze per un futuro diverso e migliore.


L’osservazione tipicamente sociologica sull’abitudine come prassi di vita e dunque come accettazione dello status quo non concerne solo gli strati alti della popolazione ma investe anche i meno abbienti, che risulterebbero piuttosto propensi ad adattarsi alla cattiva qualità della loro vita, senza alcun sussulto di rivolta, di reazione, di tentativo di segno diverso volto a mutare il dato di fatto esistente.


Ai poveri, privati del benessere fosse pure minimo, è offerta la sola gratificazione di una speranza fondata sul continuo rinvio, dunque relegata infine nell’aldilà ed affidata alle promesse della religione ed alle sole gratificazioni ultraterrene, cioè ad una qualità della vita di gran lunga superiore a quella sperimentabilesulla terra ma non godibile al momento.


Ben diversa appare la situazione allorquando le classi privilegiate non sono più tali e quindi si affacciano nuove prospettive anche per i diseredati, finalmente in grado di capire quanto sia stato loro tolto da un sistema iniquo e punitivo. Nasce allora il desiderio di condizioni più agevoli, di vissuti più soddisfacenti, di comodità sempre maggiori. Ed inizia così una tendenza sempre più evidente verso un benessere sempre maggiore.


In fondo Tocqueville ci offre un suggerimento preciso: il problema della qualità della vita sorge e si espande soprattutto con l’avvento delle classi medie, quasi le sole in grado di apprezzare i vantaggi di comodità e servizi ma anche di poterne avere esperienza diretta ed immediata. Agli altri, meno fortunati, mancherebbe persino la consapevolezza di ciò che sarebbe possibile in una società diversamente organizzata e più orientata verso la soluzione delle problematiche sociali. E non sono certo i nuovi fruitori del benessere a voler cedere qualcosa del loro per favorire quanti non ne godono affatto: le classi medie non avrebbero un grande spirito egalitario ed aperto alle altrui esigenze. Ma la loro passione per una vita di qualità riesce ad essere diffusiva ed a coinvolgere in primo luogo le stesse classi alte, invitate così ad entrare nella competizione sempre aperta in merito a chi possa usufruire al meglio delle risorse offerte dal contesto di appartenenza.


Ma proprio le differenze di classe e degli stili di vita stimolano altresì l’attenzione di quelli che osservano dall’esterno il tenore di vita condotto dai ceti (o meglio dalle classi) più possidenti. E dunque invidia e speranza diventano elementi propulsori di una più accentuata sensibilità al livello qualitativo della vita e producono almeno un effetto di iniziale consapevolezza della privazione subita.          


Pochi anni dopo un altro francese, Villermé (1840), analizzava lo stato di estrema povertà e le condizioni disagiate dei lavoratori tessili. Ancora in Francia Buret (1842) si interessava in particolare alla qualità assai misera delle classi lavoratrici. Ma fu soprattutto Engels (1845) a parlare della precaria qualità della vita operaia, segnatamente in Inghilterra. Dieci anni dopo, Le Play (1855) completava il quadro.


Un contributo fondamentale resta tuttavia quello di Mary e Charles Booth (1889-1901) che studiarono i lavoratori londinesi in una monumentale analisi in diciassette volumi, che descrivevano livelli e modi di vita presenti fra i prestatori d’opera nella capitale britannica; con una metodologia affine anche Seebohm Rowntree (1901) studiava nel 1897-1898 attraverso i budgets di consumo la situazione di York, connotata da una grave situazione di povertà, derivante da ragioni monetarie, da motivazioni soggettive e da specifiche condizioni di vita. Charles Booth esaminò le origini della povertà, dovute essenzialmente ad un basso livello dei salari, per di più pagati irregolarmente, nonché alla numerosità dei nuclei familiari. Si interessò anche al venire meno dei principi morali ed ai problemi dovuti alla depravazione, strettamente connessa alla deprivazione economica (un terzo dei londinesi viveva in condizioni di povertà, in termini di alimentazione, abbigliamento, riscaldamento, elettricità, attrezzature, alloggio, lavoro, salute, educazione, ambiente, attività familiari, divertimenti, relazioni sociali). Propose inoltre l’assegnazione di pensioni di vecchiaia per tutti e non solo per i soggetti a basso reddito (anche Rowntree pensò a soluzioni pensionistiche, nonché alla settimana corta ed alla partecipazione degli operai ai dividendi derivanti dai profitti). Il lavoro di Booth (ma pure quello di Rowntree) fu un’opera che divenne presto un classico, cui si ispirarono in seguito alcuni dei più significativi esponenti della cosiddetta Scuola di Chicago, in primo luogo Robert E. Park (1925), che la considerava un vero e proprio documento storico, da cui prese spunto per far sì che la scienza sociale non fosse più distante dalla realtà ma immedesimata in essa, quindi più legata alla pratica della ricerca sul campo.


Park non era certo un benefattore, anzi prendeva le distanze da certi operatori tutti volti ad attività di assistenza paraumanitaria. Egli propugnava una forte integrazione fra ambiente urbano chicagoano ed università proprio per creare un circolo virtuoso di indagini scientifiche serie e metodologicamente rigorose. Park peraltro pensava ad un contesto territoriale urbano come punto di incontro tra habitat ed esigenze umane, anticipando dunque le attenzioni che avrebbero portato vari decenni dopo alla nascita dei movimenti ambientalisti. Egli si preoccupava dell’equilibrio fra l’uomo e l’ambiente, fra la qualità della vita e la sostenibilità dello sviluppo, come si direbbe oggi. Il tutto peraltro nasceva dall’impatto di forti flussi migratori verso la città di Chicago con la creazione di quartieri molto caratterizzati dalle appartenenze di classe e da marginalità accentuate. L’obiettivo sotteso era quello di migliorare la qualità della vita per favorire una migliore socializzazione ed una più efficace integrazione delle classi di età più giovani.      


Il problema centrale tuttavia restava quello dell’ambiente inteso come punto di equilibrio fra uno spazio territoriale ben individuato e definito come habitat, da una parte, e la qualificazione dei soggetti individuali che vi risiedono, gli abitanti appunto, dall’altra. A Park era ben chiaro il rischio di andare ad intaccare l’equilibrio della natura.


Ma a dire il vero non appare facile misurare il livello di tale rischio e stabilire che cosa sia indispensabile per garantire la salute psico-fisica degli individui sociali. Ma proprio su tale questione si gioca gran parte del futuro destino dell’umanità tutta.


Bibliografia di riferimento


Charles Booth, 1891-1903, Life and Labour of the People in London, Macmillan, London, 17 volumi.


Eugène Buret, 1842, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, Paulin, Paris, 2 volumi.


Alexis de Tocqueville, 1994, La democrazia in America, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.


Friedrich Engels, 1845, Die Lage der arbeitenden Klasse in England, Leipzig; Dietz Verlag, Berlin, 1952; La condizione della classe operaia in Inghilterra, volume IV, in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1972 e seguenti.


Frédéric Le Play, 1855, Les ouvriers européens, Paris; Mame, Tours, 1877-1879, II edizione, 6 volumi.


Robert E. Park, E. W. Burgess, R. D. Mc Kenzie,1925, The City: Suggestions for the Investigations on Human Nature in the Urban Environment, Chicago University Press, Chicago; La città, Comunità, Milano, 1967.


Benjamin Seebohm Rowntree, 1901, Poverty: A Study of Town Life, Macmillan, London.


Louis René Villermé, 1840, Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de soie, Jules Renouard et Compagnie, Paris, 2 volumi.