Qualche risposta a “Studies on the Sociology of Religion: Review Essays on Roberto Cipriani, The Sociology of Religion: An Historical Introduction”

Roberto Cipriani

Tre recensioni in contemporanea per un solo libro sono già un buon risultato di cui essere grati agli Editors ed agli Advisory Editors dell’International Journal of Politics, Culture and Society, che nel volume 15, numero 4, estate 2002, ha dedicato un insieme di 33 pagine (591-623) all’analisi del mio volume The Sociology of Religion: An Historical Introduction (Aldine de Gruyter, New York, 2000, pp. 278).

Si deve essere grati per almeno quattro motivi: innanzitutto si tratta di una rivista non specialistica per le tematiche di sociologia della religione e che dunque ha dovuto sottrarre spazio ad altri argomenti più specifici nell’ambito di “politics, culture and society”; in secondo luogo la scelta editoriale ha inteso favorire l’attenzione ad un contributo di un autore non statunitense; inoltre ben due Advisory Editors (Peter Kivisto e Donald A. Nielsen) si sono cimentati nella discussione sul mio libro avviata da un autore ospite (Anthony J. Blasi); infine tutti i recensori sono competenti e abbastanza noti per i loro interessi in campo socio-religioso.

Di solito la tipologia di quanti recensiscono un libro contempla varie modalità di approccio: vi è chi si limita ad una descrizione puntuale dei contenuti; vi è poi chi parla piuttosto dei suoi punti di vista (e della sua bibliografia) che non del tema affrontato nel testo recensito; altri colgono l’occasione per muovere critiche a tutto spiano, anche su dettagli minimi, obliterando il discorso sostanziale del saggio in esame; qualche altro trova invece spunti stimolanti ed aggiunge osservazioni pertinenti e costruttive, tese a migliorare il livello della comunicazione scientifica all’interno della comunità degli studiosi; altri infine non leggono l’intero volume ma appena qualche pagina, magari su un aspetto che conoscono meglio, e sulla base di una lettura piuttosto parziale giudicano tutta l’opera.

Non sta a me stabilire se ed in che misura questi cinque modelli siano stati seguiti anche nel caso della triplice recensione di The Sociology of Religion: An Historical Introduction. Ognuno rileggendo gli scritti di Blasi (2002), Kivisto (2002) e Nielsen (2002) potrà verificare se la suddetta tipologia si attagli o meno anche al nostro caso. A me corre invece l’obbligo di fornire una risposta, che spero sia soddisfacente, ai quesiti sollevati, alle riserve avanzate, a qualche rimprovero più o meno larvato.

Innanzitutto devo dire che il mio lavoro è stato preso molto sul serio, così com’è anche avvenuto per opera di William A. Mirola (2002) nella rivista Sociology of Religion (vol. 63 – no.1 – Spring 2002) che in realtà è stata più lusinghiera, salvo qualche rilievo secondario.

Ovviamente non intendo soffermarmi sugli apprezzamenti positivi, che non mancano. Preferisco replicare sugli aspetti più problematici, per ragioni legate alla necessità di un dibattito scientifico aperto e franco e per un certo piacere che si può provare in una disputa appassionata a livello intellettuale.

Per poter meglio seguire l’andamento della querelle, procedo in modo ordinato e seguendo la successione delle pagine dedicatemi da Blasi prima, Kivisto poi e Nielsen infine.


A proposito delle osservazioni di Anthony J. Blasi

Anthony J. Blasi (2002: 591-602) ha due obiezioni di fondo da muovere: la prima concerne il criterio di raggruppamento degli autori in un medesimo capitolo e la seconda è relativa all’assenza di alcune protagoniste femminili del panorama sociologico attento ai fatti religiosi.

Sul mettere insieme degli autori in un’ipotetica linea di continuità, affinità e convergenza molto ed a lungo si potrebbe discutere. Qualcuno dei colleghi da me interpellati a livello internazionale ancor prima della pubblicazione del testo mi aveva suggerito qualche spostamento significativo dall’uno all’altro capitolo. In alcuni casi ho raccolto l’input, in altri ho trovato arduo accogliere la proposta. Ad esempio uno studioso francese trovava strano che Mauss precedesse Durkheim. Ed aveva certamente buone ragioni (fra l’altro, Mauss è morto nel 1950 e Durkheim già nel 1917). Ma in verità non ho mancato di sottolineare il legame fra i due sociologi francesi, ancor prima di parlare diffusamente di Durkheim. Infatti dei legami, soprattutto scientifici, fra i due (nipote e zio) già è detto a più riprese (Cipriani 2000: 56 e 59) nel capitolo dedicato a Mauss, proprio appena prima di dedicare un’ampia trattazione a Durkheim. Ma a me premeva in primo luogo sottolineare il nesso fra l’antropologia culturale ed il pensiero maussiano. Altrimenti come capire la rivisitazione di Lévi-Strauss (Cipriani 1988) del concetto maussiano di dono?

Come accettare poi la proposta di Blasi di spostare ancora nell’ordine di presentazione autori come Lévy-Bruhl e Evans-Pritchard? L’uno attraversa due secoli (nasce nel 1857, ma le sue opere più importanti vengono pubblicate fra il 1910 ed il 1938), l’altro vive anch’egli a lungo ma le sue opere maggiori risalgono al decennio 1956-1965. Dunque entrambi sono da considerare autori contemporanei a pieno titolo. Lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per van der Leeuw, il cui testo principale è del 1933. Al limite ed a rigore di successione cronologica dei testi più significativi, Lévy-Bruhl avrebbe dovuto essere collocato insieme con Troeltsch ed Otto, ma non certo addirittura molto prima. E Evans-Pritchard avrebbe potuto essere collocato solo dopo Eliade e de Martino. Quanto a van der Leeuw, avrebbe potuto al massimo precedere questi ultimi due, ma il suo approccio è troppo particolare per poter essere accomunato a loro.

Non mi è poi chiaro quel che Blasi dice quando scrive che “De Martino was a critic of Eliade who provided historicist accounts for the emergence of magic in southern Italy” (Blasi 2002: 596). Semmai fu de Martino a far questo. E poi Blasi fraintende il pensiero di de Martino affermando che “he saw institutional religion as an attempt to de-historicize the threats that magic would otherwise address” (Blasi 2002: 596). In verità non è la religione istituzionale che destoricizza il negativo, quanto piuttosto la stessa cultura e religiosità popolare che attribuiscono a forze metafisiche l’origine ineluttabile di ogni male. E comunque de Martino non fu mai un fenomenologo, come lascia capire Blasi accomunandolo per questo ad Otto ed Eliade, la cui propensione fenomenologica è tutta da dimostrare.

Per ritornare, tuttavia, alla discussione iniziale posso concordare sul fatto che certamente ogni accorpamento ha una sua dose di arbitrarietà. Ma quando degli autori sono contemporanei fra loro come stabilire chi debba precedere e chi debba seguire? Si deve tenere conto solo della cronobiografia di ciascuno o magari della sola differenza di qualche settimana fra i giorni di nascita?

Ogni storico della sociologia della religione potrebbe stabilire una sua organizzazione dello sviluppo della disciplina per parti e capitoli, trovando difficilmente l’accordo di tutti sulle sue scelte. L’importante è che comunque le opzioni non siano del tutto arbitrarie ma dovute ad intenzioni esplicite, ragionevoli e fondate.

Riconosco che in qualche caso l’agglomerazione degli autori è un po’ forzata, come giustamente rileva Blasi per il capitolo “socioanthropological perspectives” (Cipriani 2000: 153-163) ma il fattore che accomuna gli autori trattati non è solo la lingua inglese bensì anche il loro essere degli studiosi contemporanei, a metà strada tra l’antropologia, la psicologia e la sociologia e per di più viventi (con la sola eccezione di Herberg, che comunque occupa il paragrafo iniziale).

Invero il testo in lingua inglese è un po’ diverso dall’originale in lingua italiana, soprattutto nei titoli dei capitoli. Questi ultimi sono stati decisi non dall’autore ma dalla redazione editoriale della Aldine de Gruyter di New York, probabilmente per rendere il tutto più funzionale al mercato statunitense in particolare ed anglofono in generale. Non è la prima volta che ciò avviene. Persino Thomas Luckmann (1967) non è mai riuscito ad imporre alla sua casa editrice il titolo originale in tedesco (Luckmann 1963) che suonava ben diversamente da quello che è poi divenuto celebre in lingua inglese come Invisible religion.

Quanto alla scarsa presenza di sociologhe c’è da dire che non si tratta di omissioni volute. In primo luogo va notato che in sociologia come in altre scienze il contributo delle donne non è ancora maggioritario, per ragioni storico-culturali d’ordine generale. Ma non è questa l’unica motivazione. Nonostante le numerose letture (di riviste e volumi) e le costanti frequentazioni (anche più volte ogni anno) del contesto nordamericano non sarebbe stato facile stabilire delle priorità fra le diverse possibili “candidature” suggerite dai recensori o proponibili da me stesso in aggiunta. Quindi ho preferito non avventurarmi su un terreno che non conoscevo a sufficienza. Peraltro negli stessi manuali di sociologia della religione in circolazione negli Stati Uniti non mi pare che la sociologia femminile della religione riceva un trattamento decisamente migliore.

Blasi sostiene che io abbia ignorato qualche contestualizzazione storica già tentata in alcune pubblicazioni soprattutto degli anni più recenti, dal 1997 al 2000, in relazione alle attività della Society for the Scientific Study of Religion, della Société Internationale de Sociologie des Religions ed altre ancora. È da notare che la stesura del mio libro risale al 1995. La traduzione apparsa negli Stati Uniti nel 2000 è tratta direttamente dall’edizione italiana del 1997. Dunque va tenuto presente che non si poteva prendere in considerazione nel 1995 quel che ancora non era stato pubblicato.

Un rilievo ricorrente in Blasi ed in altri recensori – anche in Europa (Ferrarotti 1998: 171) – concerne la mancata contestualizzazione storica di alcune mie affermazioni e lo scarso approfondimento di alcuni dettagli presentati “cryptically” (Blasi 2002: 594). Il fatto è che ognuno degli autori presentati meriterebbe di per sé un’intero volume se non anche di più. Non è possibile dire tutto, spiegare tutto, motivare tutto. Occorre procedere per sintesi, anche in vista dell’uso didattico del libro, così come programmato sin dall’inizio della sua impostazione. Certo sarebbe anche stato necessario far capire che cosa intendessero per scienza gli studiosi dell’Ottocento e molte altre cose ancora. Anche a fronte di un’opera a carattere enciclopedico si potrà sempre obiettare che mancano degli elementi essenziali, delle informazioni basilari, delle specificazioni fondamentali.

Blasi ha ragione invece nell’obiettare che poco si parla delle religioni universali di Weber, in particolare di quelle indiane e cinesi. Vorrei però osservare che proprio in questi due ambiti il contributo di Weber mi pare più debole, anche per una conoscenza troppo indiretta di tali fenomenologie. Ed anzi persino il riferimento al buddismo è indebito nei titoli stessi della sua opera, perché solo poche righe sono dedicate alla complessa realtà buddista e non appaiono certo fra le più convincenti. Forse più convincenti sono le osservazioni sul giudaismo antico.

Ha ancora ragione Blasi nel rimarcare che in bibliografia sono assenti le opere di Simmel: indubbiamente è una svista editoriale, dato che nella mia curatela italiana dei suoi saggi (Simmel 1993) e nell’edizione italiana del mio testo (Cipriani 1997: 309) erano ben presenti almeno i riferimenti bibliografici alle edizioni originali di Simmel in tedesco. Purtroppo il mio volume in italiano era già pubblicato quando ho ricevuto in anteprima dal curatore stesso la bella versione inglese (Simmel 1997), uscita nel stesso anno 1997 e che ben conosco, anche per la preziosa aggiunta di un ulteriore saggio rispetto all’edizione tedesca, pure curata da Helle nel 1989; di questo itinerario dei saggi simmeliani sulla religione ero ben consapevole, non solo per la conoscenza e l’amicizia personale con Helle ma anche per aver curato io stesso l’edizione italiana dei Gesammelte Schriften zur Religionssoziologie nel 1993. Ma non si può certo sostenere che Simmel sia più un filosofo che un sociologo: centinaia di scritti suoi e su di lui stanno a dimostrare proprio il contrario. E sono fortemente convinto che Simmel sia un sociologo della religione, anzi un classico, certo sui generis ma pur sempre un gigante sulle cui spalle noi ci poggiamo (basti pensare alla sua memorabile distinzione fra religiosità e religione, per non dire della sua peculiare, ineguagliabile conoscenza dell’arte religiosa come forma straordinaria di comunicazione socialmente significativa). E da ultimo vorrei anche ricordare che Simmel concepiva esplicitamente la sua opera come un contributo alla sociologia della religione e che come tale essa era accettata anche in una prestigiosa rivista sociologica degli inizi del secolo scorso (Simmel 1905).

La riserva relativa a Simmel si allarga di fatto anche a James e Freud. A me pare che questo tipo di chiusura all’interdisciplinarietà neghi la possibilità di un confronto fra approcci diversi ma su tematiche comuni. Del resto sia per James che per Freud il nucleo essenziale del discorso resta la religione: per il primo è emblematica e fertile sul piano scientifico la dicotomia fra religione individuale e religione istituzionale, per il secondo è proprio nella religione la radice di molte psicopatologie.

Sul rapporto fra Parsons e Sorokin viene osservato da Blasi che manca “a comparison of their respective functionalist systems” (Blasi 2002: 596). Ma questo sarebbe oggetto di un’opera di sociologia generale o di teoria sociologica comparata. E comunque non è un caso che il mio capitolo su Sorokin inizi significativamente con una citazione di Parsons sul modello sorokiniano (Cipriani 2000: 120).

Non aver citato gli allievi di Parsons non è poi una semplice dimenticanza: è l’impossibilità di farlo perché la schiera è troppo grande e prenderebbe pagine e pagine (da Merton a Luhmann e non solo da Joseph P. Fitzpatrick a Joseph H. Fichter). Anzi colgo l’occasione per rispondere ad una simile critica mossami, a proposito dei seguaci di Weber, da José Casanova (altro Advisory Editor dell’International Journal of Politics, Culture and Society) in occasione della presentazione del mio libro al meeting annuale dell’Association for the Sociology of Religion (Anaheim, agosto 2001). Come rendere conto di ciò che Max Weber ha rappresentato e tuttora rappresenta per l’intera sociologia mondiale? La lista di quanti sono stati influenzati dal sociologo dell’Etica protestante rischia di confondersi con un indirizzario sociologico. In realtà nell’edizione italiana vi era stato un primo tentativo sommario che per Durkheim contemplava un elenco di quarantaquattro nomi (Cipriani 1997: 83), mentre per Weber (Cipriani 1997: 97) si era preferita una formula generica con una polarizzazione attorno a quindici nomi. Solo questi ultimi sono rimasti nell’edizione statunitense (Cipriani 2000: 76) più che altro a titolo esemplificativo. Sono stati invece quasi del tutto eliminati i nomi degli studiosi influenzati da Durkheim, ridotti a soli nove autori nel Synoptic outline. Qualche collega che aveva letto le bozze italiane del mio testo era stato piuttosto critico sulla presenza di una sfilza di nomi che nella misura in cui erano troppi nulla aggiungevano e poco facevano capire della capacità di influenza di un autore, specialmente se è un classico.

Capisco la difficoltà di uso di un testo complesso come The Sociology of Religion: An Historical Introduction, ma l’aggiunta di ulteriori elementi di rimando avrebbe ancor più appesantito il testo. Ecco perché in molti casi ho cercato di fornire sintesi, più che resoconti dettagliati. Perciò quando dico che Houtart è stato un missionario (Cipriani 2000: 151) lascio intendere che ha svolto un’azione di proselitismo, diretta soprattutto nei paesi del terzo mondo, appunto dove solitamente si recano i missionari.

A proposito di Bryan Wilson, il sociologo-recensore di Nashville trova che avrei trascurato l’opera sui movimenti religiosi innovativi contro il colonialismo. Non so a quale libro Blasi si voglia riferire e comunque non mi pare che esso abbia avuto mai una qualche particolare risonanza scientifica.

Così come non mi pare siano da rilevare come fattori decisivi, ai fini dell’approccio sociologico alla religione, l’esperienza politica ed il carisma intellettuale di Franco Ferrarotti in Italia.

I miei colleghi italiani Macioti e Tomasi, ma anche altri, non sono inseriti nel novero degli autori esaminati perché deliberatamente, come enunciato esplicitamente nell’edizione italiana (Cipriani 1997: 287-288), ho lasciato ad ulteriori, futuri approcci un esame ad hoc, che non fosse condizionato da un mio coinvolgimento troppo soggettivo e basato sull’andamento dei miei rapporti interpersonali con ciascun collega.

Italiani a parte, è evidente che la lista degli esclusi potrebbe continuare ancora a lungo, sia per uomini che per donne. Ma ripeto, ancora una volta, che il mio obiettivo non era una sorta di enciclopedia. E del resto, se anche l’avessi compilata, indubbiamente ci sarebbe sempre stato qualcuno a lamentare non solo le assenze di Richardson e Robbins, Bastide e Métraux, Paul Douglas e Fichter ma pure di tantissimi altri.

Quanto ai nomi al femminile indicati da Blasi, io stesso ne avre altri da aggiungere: Helen Rose Ebaugh, Grace Davie, Nancy Ammerman, Barbara Hargrove e non solo.

Sulle proposte relative a Jane Harrison ed Elizabeth Nottingham confesso di non aver trovato sinora molte tracce della loro peculiare influenza.

Sono d’accordo che una maggiore contestualizzazione avrebbe giovato al testo, piuttosto centrato sulle opere degli autori e persino troppo sintetico sulle biografie dei singoli studiosi. Una trattazione più dettagliata avrebbe però nuociuto all’economia complessiva del testo, già di per sé abbastanza articolato. Ed in proposito l’esempio di Lambert, Michelat e Pierre (1997), citato da Blasi (2002: 600), è giunto solo qualche anno dopo il compimento del mio excursus

Da ultimo voglio ringraziare Anthony Blasi per il suo cortese sollecito a proseguire la storia appena cominciata.


In merito alle critiche di Peter Kivisto

Dei tre recensori il più agguerrito è segnatamente Peter Kivisto (2002: 603-611), che partendo dalla sua vasta ed articolata conoscenza della bio-bibliografia di Max Weber prepara un vero e colpo di teatro per giungere a scoprire una menda nella presentazione da me curata del pensiero weberiano.

Dunque io ho scritto che Weber partecipò nel 1893 al “first Parliament of the World’s Religions” (Cipriani 2000: 82). Ebbene ammetto subito che questo è stato un mio errore, ma spiego anche in quali circostanze esso è nato. Giusto nel 1993, a cento anni dal celebre incontro di Chicago, organizzai a Roma un convegno internazionale a carattere interdisciplinare e multitematico (ovvero con un approccio attento alle religioni universali, weberiane e non). Ebbene in quella occasione uno dei relatori principali, che comunque continuo a stimare, esordì nel suo paper con una “rivelazione”: esattamente cento anni prima il grande Max Weber aveva partecipato ad una convention simile alla nostra ma con un taglio più confessionale che scientifico. Qualche mese dopo quella affermazione pubblica mi accingevo a scrivere il capitolo del mio libro (Cipriani 2000: 82-84) cui Peter Kivisto fa riferimento. E malauguratamente tenni conto di quanto era stato detto in modo così solenne da non farmi avere alcun dubbio in proposito, tanto che non provvidi ad una verifica documentata (sapevo bene che il 1893 era l’anno delle nozze di Weber con Marianne ma supposi che la partecipazione all’incontro chicagoano potesse coincidere con una sorta di viaggio di nozze). Quando finalmente riuscii a pubblicare anche gli atti del convegno internazionale Religions sans frontières? (Cipriani 1994) mi accorsi che il collega il quale con tanto sussiego aveva proclamato la presenza di Weber a Chicago nel 1893 nulla aveva messo per iscritto a tal proposito nel suo paper pubblicato. Non diedi particolare importanza alla questione ed ora sono grato a Peter Kivisto per aver sciolto il mio dubbio (en passant, prima d’ora nessun altro collega mi aveva segnalato l’errore). Dunque tengo conto della precisazione per le prossime edizioni del testo (in cinese, spagnolo e francese). E tuttavia non posso non sottolineare che si tratta di un particolare minore, che a mio modesto avviso non inficia la sostanza della mia illustrazione dell’opera weberiana. In fondo de minimis non curat praetor (gli aspetti minori non decidono del giudizio globale).

Ma Kivisto non è d’accordo neanche sull’impostazione complessiva del libro. Mi pare di capire che egli avrebbe preferito, com’è d’uso nella letteratura statunitense di testi introduttivi alla sociologia della religione, un’organizzazione per argomenti più che per singoli autori. Non contesto questa preferenza, ma trovo, per esperienza didattica e scientifica, che in tal modo l’apporto del singolo studioso venga a perdersi, diventando irriconoscibile o quasi nella miriade di riferimenti, rinvii, comparazioni. In pratica secondo me è più utile capire che cosa ha veramente detto Durkheim sulla magia nell’ambito del suo pensiero complessivo invece di collocarlo insieme con molti altri (Malinowski, Mauss, Frazer, ecc.) sotto la medesima rubrica del magico. Insomma da specialista di studi biografici ed autobiografici sono troppo convinto dell’unitarietà (e/o contraddittorietà) del pensare individuale da svilirlo in pezzi e residui sparsi su diversi fronti. In ogni caso la contestualizzazione corre il rischio di una collocazione forzata di autori ed opere entro correnti non sempre ben delineabili e delineate, per non dire poi di certi percorsi tortuosi che vedono questo o quell’autore trasmigrare da un fronte all’altro, da una prospettiva teorico-metodologica ad una diversa. Tanto vale avere almeno un quadro, un profilo preciso del singolo studioso e della sua produzione.

Un altro punto di discussione è la doppia entrata di influenze ricevute e di influenze esercitate da ogni autore. Ribadisco ancora che soprattutto dei grandi nomi ogni esercizio di elencazione a monte ed a valle risulterà piuttosto precario e parziale. Così è di Tocqueville, ma anche di Marx. Se per caso poi provo a fare almeno un esempio dell’influenza di Marx e cito il ruolo esercitato da Otto Maduro (con la sua produzione in lingua spagnola, ben nota in America Latina e non lontana da legami con la Teologia della Liberazione) subito mi si rimprovera di aver dimenticato Desroche e magari anche Bauman, aggiungo io stesso. Insomma nel gioco di “chi c’è e chi non c’è” si sono sbizzarriti in molti e per secoli, fosse a proposito di un libro o di un convegno, di una ricerca o di un dizionario, di una rivista o di un riconoscimento pubblico. Insomma il fatto che nel “Synoptic outline” su Comte (come su altri ancora) non risulti alcun nome di autore che lo influenza o che è stato da lui influenzato non significa affatto che manchino del tutto degli inputs e degli outputs. Per dirla in termini più espliciti e spero definitivi: non è immaginabile che io pensi avere un Gabriel Le Bras influenzato quattro sociologi e che invece Weber sia rimasto un illustre sconosciuto, senza seguito e senza riprese del suo pensiero. Non credo peraltro che un qualsisasi studente universitario non colga da solo quale e quanto peso abbia avuto ed abbia ancora il sociologo di Heidelberg per la nostra disciplina.

Coglie nel segno Kivisto quando vede nella mia presentazione degli autori una propensione alla descrizione più che alla valutazione critica. Ritengo in effetti che il mio testo abbia un carattere introduttivo, conoscitivo a livello iniziale di primo approccio. Per la parte critica ci sono ben altre sedi nelle quali ho avuto modo di sottoporre Bellah e Luckmann, Acquaviva e Martin ed altri ancora a rilievi di dissenso, che tuttavia in modo soft non mancano neppure in The Sociology of Religion: An Historical Introduction.

Un cenno a parte merita la mancata inclusione di Werner Stark. Ne conosco l’opera sin dal 1967, allorquando preparavo la mia tesi di laurea in sociologia. Ed in effetti ne redassi una scheda sommaria nel volume Sociologia del fenomeno religioso (Ferrarotti, Cipriani 1974: 209). Non ho difficoltà a motivare la sua non inclusione: per il semplice fatto che la sua produzione non mi è mai parsa particolarmente significativa, il suo impact factor è del tutto trascurabile, il suo contributo teorico è poco utilizzato ma, soprattutto, la sua opera è attraversata da molte venature confessionali, dovute forse al fatto di essere Stark un convertito al cattolicesimo.

Conosco altrettanto bene i contributi di Steve Bruce (forse un po’ discontinuo, con qualche tendenza all’autoemarginazione), un po’ meno quelli di R. Stephen Warner. Mi riprometto di prenderli in maggiore considerazione al più presto.

Non condivido affatto il giudizio liquidatorio su Luhmann. Io stesso non sono mai stato simpatetico con lui, ma l’ho invitato ed incontrato più volte, ho avuto anche qualche contrasto in merito alla sua visione cibernetica della realtà umana, ma il fatto che egli non abbia avuto grande influenza nell'”English-speaking world” non fa testo. In Europa il suo pensiero, anche socio-religioso, è ben presente anche se criticato a più riprese.

Kivisto è un lettore assai attento ed acuto, giacché nota una svista editoriale a proposito proprio di Luhmann. Il sociologo dell’Augustana College dice che non riesce a comprendere l’ultima parte di una frase relativa al pensiero luhmanniano (Cipriani 2000: 228). Purtroppo mentre nella versione italiana (Cipriani 1997: 278) il riferimento è ad una lettura di Enzo Pace, nella versione inglese è stato posto un punto lì dove andavano invece due punti. Dunque il pensiero riferito non è di Luhmann ma di Pace. Del resto subito dopo ho citato un’espressione di Luhmann che contraddice in pieno il punto di vista di Pace.

In merito a Guy Swanson è necessaria qualche precisazione. Che fosse piuttosto marginale nell’accademia e nel dibattito mi è stato riferito da qualche collega statunitense. Qualcuno ha anche aggiunto, a mo’ di prova, che al funerale di Swanson c’era poca gente (ovviamente ho dato scarso peso a tale informazione: Mozart docet; se dovessimo misurare la sua fama dal numero dei partecipanti alle sue esequie ci sbaglieremmo di molto). Ed invece ho voluto appositamente recuperare il suo contributo e la sua originalità scientifica. Quanto alla preziosa “voce” di Lechner su Swanson (1998: 503) ricordo una volta di più che non ne potevo tenere conto in quanto la mia stesura risale al 1995.

Un’ultima osservazione, di cui ringrazio Kivisto, riguarda il titolo “the universe of religions” (Cipriani 2000: 84). So bene che più accuratamente occorreva dire religioni universali. Invece il titolo dato non corrisponde ai contenuti reali.

Rivendico tuttavia la legittimità di proporre agli studiosi ed agli studenti di sociologia della religione una visione meno arroccata disciplinarmente. Sono profondamente convinto che James non è tout court un sociologo della religione, come non lo è Freud e neppure questo o quell’esponente della Scuola di Francoforte. Ma la mia lettura della realtà sociale mi porta ad aprire e non a chiudere le porte del confronto fra discipline e correnti scientifiche. Questo non solo dico ma anche faccio. Non a caso ho curato in Italia, nella collana di sociologia della religione che co-dirigo per la casa editrice Borla, la traduzione dei saggi di Simmel sulla religione (Simmel 1993) e, in un altro volume, quelli dei francofortesi (Cipriani 1986); inoltre sto seguendo con particolare interesse una ripresa degli studi su William James (Costa 2002), non a caso tradotto in Italia sin dal 1904, cioè appena due anni dopo l’edizione statunitense di Varieties of Religious Experience, la cui nuova edizione italiana (James 1998) è stata voluta dal sociologo Carlo Prandi per la collana di “Scienze delle religioni” da lui co-diretta.

Un’ultima riflessione: il mio tentativo di gettare un ponte fra le due sponde scientifiche dell’Atlantico può essere ed è di fatto ancora incerto e bisognoso di ulteriori, decisivi apporti. Spero che questo dibattito avvii una migliore conoscenza reciproca a tutto vantaggio dell’intera comunità scientifica, senza ricorrere a marchi e stigmi dall’una o dall’altra parte.


Sui rilievi di Donald A. Nielsen

Obiettivo principale di Donald A. Nielsen (2002: 613-623) sembra quello di mettere in campo una sociologa della religione ante litteram, Jane Ellen Harrison, autrice di un saggio sulla religione greca agli inizi del ‘900 (Harrison 1903) cui seguirono altri studi sulle origini sociali di quella religione nonché sull’arte ed il rituale e, in chiave più strettamente sociologica, uno breve scritto di tre pagine come recensione delle Forme elementari della vita religiosa di Emile Durkheim. Se si eccettua qualche pubblicazione piuttosto specialistica, non trovo molte tracce di questa studiosa, che manca tra gli autori da me analizzati. Sarà pure una mia lacuna ma evidentemente sono in buona compagnia se anche in altre sedi Donald A. Nielsen non fa che insistere sulla necessità di recuperare la memoria di Jane Ellen Harrison. Faccio ammenda ed anche in questo caso sono grato per la segnalazione, che mi consente di conoscere qualcosa di nuovo.

Se però l’invito di Nielsen è stato circostanziato e preciso sulla studiosa a lui cara quando però egli lascia intendere che varrebbe la pena di presentare anche gli studiosi non occidentali non fa alcun nome e resta dunque nel generico (Nielsen 2002: 615). Da parte mia sarei ben lieto di andare oltre le due sponde dell’Atlantico ma per il momento le informazioni a mia disposizione sono insufficienti, rese difficili da ottenere anche per ragioni di barriere linguistiche. D’altro canto agli inizi del terzo millennio forse le tecnologie telematiche abbatteranno ancor più le distanze e ci consentiranno di interloquire direttamente e più spesso con Asia, Africa ed America Latina, meglio di quanto abbiano potuto fare in modo approssimativo nel passato autori quali Durkheim e Weber, mai recatisi né in Australia né in altre zone dell’oriente.

Per quanto concerne invece la presenza femminile, da me limitata a sole quattro studiose (Douglas, Hervieu-Léger, Voyé, Barker), mi domando se abbia una particolare rilevanza scientifica il fatto che nessuna di esse sia una sociologa del feminist camp (Nielsen 2002: 616). Ma poi che cosa vuol dire in ambito sociologico evidenziare l’appartenenza ad uno schieramento di militanza sociale, di genere per di più? Del resto se avessi avuto la possibilità di conoscere meglio la produzione di alcune sociologhe del feminist camp avrei ben potuto discernere fra dato plausibile e carica ideologica. E tuttavia lo schieramento socio-politico di genere non mi avrebbe certo impedito di discutere l’opera e l’apporto di studiose militanti.

Lo stesso discorso può valere per la richiesta che viene da Nielsen (2002: 617-618) di volgere l’attenzione a Jane Ellen Harrison. Vorrei però sommessamente notare che neppure in trattazioni a carattere enciclopedico sulle scienze della religione, pubblicate proprio negli Stati Uniti, compare la sociologa classica della religione rievocata ed invocata da Nielsen. Anche in questo caso – lo ripeto – farò il possibile per ampliare le mie conoscenze, evidentemente ancora limitate.

Sono molto d’accordo, comunque, con Nielsen (2002: 619), quando egli rileva che Durkheim usa di fatto sia una definzione sostanziale sia un approccio funzionale alla religione. Infatti lo dico anch’io in modo molto esplicito (Cipriani 2000: 3): “Durkheim also seems to conceive of a possibly more functional sort of religion”. E, guarda caso, Nielsen cita in proposito la medesima pagina di Durkheim (1995: 44) alla quale io stesso già rinviavo!

Probabilmente con David A. Nielsen sono molto più in sintonia di quanto appaia dalla sua recensione, che peraltro non presenta in cauda venenum, il veleno alla fine, ma anzi coglie nel segno, comprendendo in pieno il significato del mio lavoro ed aprendo ulteriori prospettive, per le quali ringrazio molto cordialmente lui come pure, a diverso titolo, Blasi e Kivisto.


*Department of Sciences of Education, Rome Three University, via Castro Pretorio 20, 00185 Roma, Italy. E-mail: rciprian@uniroma3.it


REFERENCES

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