IL BAMBINO OGGI: PROFILO SOCIOLOGICO E AFFETTIVITÀ

Roberto Cipriani


Premessa


                Per ragioni non agevolmente prevedibili e comunque non auspicabili, i bambini sono tornati al centro dell’attenzione pubblica, dei mezzi di comunicazione di massa, dei giuristi, degli uomini e delle donne di chiesa e di conseguenza anche dei sociologi.


                Sinora invero questa fascia così decisiva della società, se non per altro almeno per essere parte cospicua di essa e certamente il nerbo di quella futura, non ha goduto dei favori della ricerca sociologica. Ve ne sono poche tracce e non tutte affidabili sul piano scientifico.


                Una delle componenti più deboli del sistema sociale, privata talora dei diritti fondamentali della persona umana, quella dei bambini è una condizione che non può riuscire facilmente a promuovere in proprio delle azioni efficaci di autodifesa.


                Intanto si registra però un nuovo impulso dato al rispetto verso i minori. Il che sta creando una situazione più favorevole al mondo infantile, anche se non mancano nuove forme di coercizione e persino di sfruttamento più o meno palese.


Gli effetti sociali sull’affettività del bambino


                Le nuove generazioni non possono non subire gli effetti derivanti dalle particolarità delle strutture sociali esistenti. Si tratta di una serie di condizionamenti molteplici attraverso azioni plurime che incidono pesantemente sulla socializzazione infantile ed adolescenziale.


                Tra gli altri numerosi effetti se ne possono enucleare alcuni più significativi: “l’effetto Internet”, “l’effetto televisione”, “l’effetto metropoli”, “l’effetto valori”, “l’effetto tempo”, “l’effetto spazio”. Tutti questi effetti incidono sia a livello di genitori che di bambini. A volte in modo indipendente per ciascun soggetto, a volte con andamento a catena (o a cascata) dai genitori sui figli, più raramente in senso inverso cioè dai più piccoli verso gli adulti.


                “L’effetto Internet” concerne i genitori, soprattutto i padri, che dedicano gran parte del loro tempo in casa ed in famiglia a navigare su Internet od a leggere e/o scrivere posta elettronica, magari per completare o preparare il lavoro di ufficio. La già scarsa risorsa tempo si riduce quindi ancor più a danno delle relazioni intrafamiliari. I bambini vengono infatti privati delle occasioni di scambio affettivo, di rapporto intergenerazionale. Spesso ci si riduce ad un rapido, formale saluto. Per non dire, infine, dei problemi che possono nascere da qualche inconveniente di funzionamento dell’hardware o del software in uso. Il nervosismo per un lavoro rimasto in sospeso, per una scadenza che rischia di non essere rispettata, si riverbera sul contesto familiare, rende difficile l’interazione, mette vieppiù a rischio la tenuta dei legami interpersonali.


“L’effetto televisione” non è molto diverso dal precedente, ma in questo caso le madri sono coinvolte in misura non certo trascurabile. Soprattutto se esse sono anche impegnate in attività di lavoro al di fuori dell’abitazione reputano giusto – una volta tornate a casa – potersi riposare e “distendere” con il seguire in tivù uno spettacolo od un film. E magari il programma non è quello che preferirebbe il suo bambino o la sua bambina. Naturalmente si deve pure considerare che anche i bambini hanno spesso un loro televisore in camera. Ma questo non fa che accentuare il distacco tra loro e gli adulti di riferimento. Insomma la presenza dello strumento televisivo fa segnare di per sé un punto a sfavore della crescita umana e sociale in ambito familiare. Pur senza voler demonizzare i nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnologia moderna è evidente che la socializzazione di un bambino non può essere totalmente affidata alla televisione. D’altra parte l’affettività ha ben altri terreni su cui possa essere coltivata, con una relazione più diretta a livello umano. Nel frattempo però l’aumento dell’offerta televisiva che non è più solo generalista (cioè con ogni genere di programmazione) ma anche tematica (solo sport, solo musica e così via) tende ad occupare ogni spazio residuo dell’universo familiare ed infantile. Se poi si aggiungono le possibilità ulteriori legate alla televisione satellitare, alla tivù a pagamento ed alle cassette in VHS si comprende bene a quale assedio massmediatico sia sottoposto il nucleo familiare. Così il televisore diventa un rifugio per bambini poco curati dai loro genitori e la pubblicità eccessiva di alcuni canali commerciali orienta pesantemente i gusti ed i desideri del bimbo consumatore. Ma soprattutto il fanciullo è costretto ad autogestire, senza alcun indirizzo preliminare, le sue opzioni a tutto campo, con accesso illimitato ad ogni tipo di immagine e di contenuto, in assenza totale di adulti.


                “L’effetto metropoli” riguarda lo stress cui vengono sottoposti i genitori che vivono in una grande città, non rientrano in famiglia per l’ora di pranzo, lavorano in posti lontano da casa, restano isolati dai loro figli per gran parte della giornata, rientrano piuttosto tardi nelle loro abitazioni e sono troppo stanchi (anche per il lungo tragitto di andata e di ritorno), per cui talora nemmeno vedono i loro figli, che sono andati a dormire o si sono recati a casa di amici. Il risultato di tutto ciò è un’evidente ghettizzazione del bambino nell’asilo o nella scuola, con pochi contatti con i genitori e con i fratelli e le sorelle. Per di più viene eliminato sempre più dall’esperienza quotidiana quel momento fondamentale che è rappresentato dalla convivialità, cioè dallo scambio di riflessioni, valutazioni e considerazioni quando si è seduti attorno ad un tavolo.


                “L’effetto valori” è forse la conseguenza più evidente di tutto questo stato di cose. Sembrano venute quasi del tutto meno le classiche agenzie di socializzazione primaria e secondaria: famiglia, scuola, chiesa, gruppo di pari età. In verità la cosiddetta crisi dei valori investe in primo luogo gli adulti stessi, che dunque in difficoltà con se stessi non riescono ad avere punti di riferimento utilizzabili in campo educativo per la trasmissione di contenuti ai propri figli e preferiscono rinunciare alla loro funzione pedagogica o limitarla all’essenziale. Lo stesso ripensamento della propria esperienza precedente di bambini sottoposti quasi sempre a ferrei insegnamenti paterni e materni conduce a soluzioni attendiste, se non proprio lassiste. Così si interrompe il flusso di continuità fra i cicli di vita. Inoltre nuovi valori si affacciano e prendono piede, entrando in conflitto con i parametri etici già noti. Aumenta perciò l’incertezza dei riferimenti morali di base. L’effetto finale è un’assenza di attività educativa mirata, per cui senza l’iniziale inculturazione in ambito familiare cominciano a prevalere i modelli in uso fra i coetanei e si fanno confronti estemporanei fra le diverse modalità di comportamento degli adulti nei riguardi dei figli.


                “L’effetto tempo” si congiunge abbastanza con quello successivo, legato allo spazio. Oggi più che nel passato il tempo è irreggimentato secondo regole numerose e rigide. Si timbra il cartellino quando si entra e si esce dal luogo di lavoro. Per spostarsi da un posto ad un altro si devono rispettare (e conoscere) gli orari di treni, aerei, autobus, tram. Gli stessi tempi di lavoro sono previsti e verificati puntualmente: vi provvede l’addetto al controllo dei tempi e metodi lavorativi. La freneticità di una sala scambi in una Borsa valori è l’indice più macroscopico della necessità di interventi rapidi e precisi: pena la perdita di enormi capitali, si deve vendere ed acquistare nel giro di qualche secondo; ogni ritardo potrebbe comportare crolli catastrofici. Come se poi non bastasse il peso del lavoro in fabbrica od in ufficio va sempre più diffondendosi la pratica del lavoro domiciliare, che certo lascia ben poco spazio di tempo per la famiglia e le sue incombenze. Si lavora a casa anche per evitare i lunghi tempi di percorrenza per raggiungere la località dove svolgere l’attività lavorativa. Molte volte l’impegno di lavoro si protrae al di là dei giorni feriali e si allarga al sabato ed alla domenica, tempi calendariali che dovrebbero invece essere esenti da prestazioni professionali o affini. Tutto questo insieme di situazioni ha dei riflessi immediati sull’esistenza del bambino, che appare ingabbiato entro ritmi che non sono suoi ma di altri: la permanenza a scuola si prolunga ben oltre il necessario, qualche volta neppure l’orario scolastico ufficiale è sufficiente, giacché lo scolaro resta sovente da solo o in compagnia di qualche bidello o suora, nel suo istituto di frequenza, in attesa dell’arrivo di un genitore puntualmente in ritardo. In tal modo il bambino viene deprivato altresì di qualcosa che gli compete, cioè un tempo adeguatamente libero dalla scuola ed in cui sia possibile esercitare al massimo la fantasia e la creatività senza sottostare a schemi preordinati come quelli scolastici. Il tempo della scoperta libera, della ricerca non debitamente finalizzata e dell’esplorazione individuale e sociale andrebbe debitamente restituito a coloro che ne sono stati espropriati.


                “L’effetto spazio” si correla, come già detto, a quello relativo al tempo. E viene subito da chiedersi quale spazio occupino i bambini nella società contemporanea. O meglio quali spazi concreti (campi di gioco, verde attrezzato, ludoteche, strutture a misura di bimbo) sono specificamente previsti nei piani urbanistici, nella programmazione comunale, provinciale, regionale e nazionale, in favore esclusivo dell’età più verde? Perché anche i piccoli, al pari dei grandi, devono pagare caro (in chiave di risorsa scarsa e difficilmente accessibile) quel poco di spazio messo a loro disposizione? Perché le stesse abitazioni sono tutte progettate a misura di adulto? Senza richiamare alla memoria i suggerimenti della Montessori e senza voler limitare il discorso all’altezza della maniglia delle porte, perché questa nostra società è pensata, organizzata e sviluppata quasi cose se i bimbi non ci fossero o avessero poca rilevanza? Sono essi forse cittadini senza diritti? Perché devono passare gran parte della loro giornata fra quattro anguste mura? Perché la conoscenza della città in cui vivono deve limitarsi ai dintorni di casa e della scuola? Soprattutto nelle metropoli non è raro il caso di ragazzi e ragazze che non hanno mai visitato il centro storico. Un’ultima non secondaria annotazione riguarda la qualità e l’entità degli spazi distinti per genere. Come nelle abitazioni gli uomini sembrano avere diritto agli ambienti migliori (lo studio, la sala hobby, ecc.) perché anche le bambine devono pagare lo scotto in quanto gli ambienti più appetibili vengono di solito riservati ai maschietti? 


Il bambino come spot


                Oggi in verità i bambini sono sotto i riflettori. Si fa un gran parlare di loro. Ma essi non sono i protagonisti. Al massimo sono i deuteroagonisti di un prodotto da pubblicizzare, di una trasmissione che li usa come specchietto per le allodole per poi far sorbire ai telespettatori decine e decine di minuti di propaganda di ogni genere (dal promo di un film o di una trasmissione futura al discorsetto ammaliatore del politico di turno). Li si fa persino discutere su temi più grandi di loro (ovvero che non fanno parte del loro mondo abituale) per suscitare – con le loro risposte ed argomentazioni – l’ilarità degli adulti ma soprattutto per fare da traino al telegiornale che segue e togliere così punti all’audience della concorrenza.


                Altre volte, anzi più spesso, i riflettori sono puntati su di loro per situazioni patologiche. Il recente incremento del dibattito sulla pedofilia ha dato adito pure a strumentalizzazioni politiche di ogni tipo, in cui però i bambini sono restati una volta di più delle vittime inconsapevoli ed innocenti.


                Da anni invece è sotto gli occhi di tutti una normalità – se possibile – ben più spaventosa: l’annientamento degli spazi orientati ad un uso peculiare da parte dei bimbi, la mancanza di proposte serie ed efficaci in campo educativo e scolastico (non a caso all’assenza dello Stato deve supplire il volontariato religioso e laico), l’orientamento di molti discorsi sull’infanzia e sull’adolescenza come se si dovesse guardare solo all’adultità dei ragazzi attuali trascurando di fatto le loro problematiche presenti, la cui soluzione – questa sì – potrebbe portare ad una diversa e migliore società futura.


                La difficoltà stessa nell’usare termini univoci in questo campo segnala una difficoltà di fondo, che però può essere risolta dalla definizione che l’ONU dà del bambino: un cittadino a pieno titolo sebbene non maggiorenne. Il limite di diciotto anni fissato per indicare la maggiore età non è casuale ed enfatizza in tal modo il riguardo che occorre avere nei confronti di chiunque non sia ancora diciottenne, quasi a dire che senza alcuna differenza di età ogni infante ed adolescente merita la medesima cura, un approccio debitamente calibrato, una prudente cautela.


                Qualche volta capita di dover sentire definire gli appartenenti ad una certa classe di età con degli appellativi che connotano subito delle caratteristiche diverse. Per esempio nella successione di tre classi di età e dunque di tre gruppi diversi di classe scolastica vengono detti “piccoli” quelli che hanno un minor numero di anni, “grandi” quelli che possono avere un’età superiore di quasi una dozzina di mesi o poco più, mentre sono detti “mezzani” coloro che si trovano nell’età intermedia. Orbene queste denominazioni possono apparire improprie ma seguono un criterio di base: i tre gruppi non sono composti da persone con le medesime problematiche; da un anno all’altro molte cose cambiano; le dinamiche di una classe non sono affatto quelle della classe che precede o dell’altra che segue. Insomma le peculiarità ci sono e vengono rispettate anche sul piano nominalistico, che di fatto riconosce e legittima le differenze esistenti.


                In definitiva se per un verso torna conveniente ricorrere ad un’unica categoria giuridica del bambino da zero a diciassette anni per un altro verso non pare utile mantenere la medesima tassonomia in chiave sociologica e psico-affettiva. Anzi si può dire che quanto più si valorizza la distinzione tanto meglio si risponde alle istanze della persona che ci è dinanzi, come individuo sociale a tutti gli effetti, bambino soggetto-oggetto di diritti.  


Le convenzioni internazionali


                Il 5 ottobre 1961 venne firmata a L’Aja la Convenzione sulla protezione dei minori. Nove anni dopo, precisamente il 28 maggio 1970 sempre a L’Aja venne redatta la Convenzione europea sul rimpatrio dei minori. Devono passare altri dieci anni prima di avere un’altra convenzione, quella sulla sottrazione dei minori, ancora a L’Aja il 25 ottobre 1980.


                La Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia fu sottoscritta il 20 novembre 1989 (e fatta propria dall’Italia solo un paio di anni dopo). Essa recita all’articolo primo che “bambino è ogni essere umano al di sotto del diciottesimo anno di età”. Ciò significa che in ogni caso il bambino resta sempre una persona, ma che ha uno statuto speciale fino a quando non abbia compiuto la maggiore età. Tale norma è posta a salvaguardia della speciale condizione di minorenne che non può e non deve lavorare prima di divenire adulto.


                Altre convenzioni sono poi seguite. Il 29 maggio 1993 ancora una volta a L’Aja si ebbe una nuova Convenzione sulla protezione dei minori, a trentadue anni dalla prima formulazione.


                Nel 1996, il 25 gennaio, giunse la Convenzione europea sui diritti dei minori, stilata a Strasburgo.


                A completamento del discorso giuridico sull’infanzia va rilevato che anche la nuova “Carta europea dei diritti fondamentali”, la cui approvazione è prevista per il dicembre del 2000, prevede – in uno dei suoi 53 articoli ed in particolare nel capitolo sull’uguaglianza, all’articolo 24 – che “i bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere” e che “essi possono esprimere la propria opinione, che viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità”. Inoltre “l’interesse del bambino deve essere considerato preminente” ed “ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo quando ciò sia contrario al suo interesse”. In forma categorica poi l’articolo 31 pone un divieto preciso: “il lavoro minorile è vietato. L’età minima per l’ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo”.


Il bambino assente


                Come la sociologia anche la storia ha trascurato il ruolo dei bambini nelle vicende umane del nostro universo. Di essi si parla pochissimo. Si cita qualche episodio edificante ma ben poco si ricorda e si cita quale sia stata la condizione infantile nell’Atene di Pericle, nella Roma di Augusto, nella Firenze di Lorenzo dei Medici. Persino le statistiche di demografia storica sorvolano sulle quantità di bimbi presenti in una certa epoca in un dato contesto topografico.


                In società dominate da strutture patriarcali (e da pene corporali inflitte per un nonnulla) era difficile che il ruolo di un bambino emergesse sino ad ottenere dignità di menzione storica. Se ne parla semmai – ancora una volta – per un evento drammatico, quale la presunta dedica di sacrifici umani di bimbi alla dea punica Tanit, come testimoniano in Italia ed altrove i cimiteri pieni di tophet, la tomba tipica dei bambini. Una fama altrettanto funesta ha la rupe Tarpea, dalla quale si gettavano gli individui nati con qualche deformazione.


                Non è un caso peraltro che anche nell’arte i bambini siano assenti come soggetti principali. Vi è qualche eccezione. Per esempio Goya nel secolo XIX dipinge figure di piccoli insieme con adulti od anche da soli: ma si tratta pur sempre di probabili futuri regnanti. Dunque prevale anche in questo caso l’orientamento più all’avvenire da adulti che non al presente di fanciulli.


                Secondo la tradizione cristiana vanno nel Limbo i nati morti prematuramente senza ricevere il battesimo. Questa è forse una delle poche espressioni di valorizzazione di individui che non hanno raggiunto l’età della parola e della ragione.  


                L’attuale situazione sociologica di giovani adulti che restano in famiglia fino ai trent’anni di età indurrebbe persino a ritenere praticabile un’estensione della qualifica di minorenne ben oltre i diciotto anni di età. Forse la minore età potrebbe considerarsi conclusa al momento del matrimonio. Ma questa ipotesi confliggerebbe con lo statuto di cittadino che si acquisisce quando si diventa maggiorenni. Tuttavia il problema della permanenza presso la famiglia di origine senza passare ad una famiglia di procreazione estende certi caratteri della minorità e della minore età. La questione non è affatto trascurabile. Per non dire poi di certi legami che permangono anche a matrimonio avvenuto. Si pensi a certe nuove coppie che abitano nello stesso condominio dei genitori se non proprio sullo stesso pianerottolo o nel medesimo appartamento. L’affettività in questi casi è ben più che un sentimento congiunturale.


Il bambino come obiettivo economico


                Nel passato un figlio maschio costituiva una ricchezza per la famiglia agricola perché poteva essere un sostegno in più per il futuro bilancio del nucleo. La figlia invece creava problemi perché le si doveva preparare una dote adeguata per consentirle di sposarsi. Oggi queste distinzioni non sembrano avere più molto peso. Ed in effetti l’obiettivo più diffuso è quello di una buona istruzione superiore sia per i ragazzi che per le ragazze, mirando se possibile al livello più alto, quello della laurea.


                Intanto però nuove spinte provengono dal mondo genitoriale: verso gli studi di lingue straniere, verso l’apprendimento delle procedure informatiche, verso le professioni più redditizie. Alla base di tali comportamenti sembra evidente la motivazione di natura economica, per il raggiungimento di migliori proventi.


                In questa logica della rincorsa economica si inseriscono le prime esperienze della globalizzazione più avanzata, che comprende al momento attuale la moda dei Pokémon (come nel passato c’era quella della bambola Barbie), del fast food, della macdonaldizzazione di molti ambiti dell’esperienza del bambino.


                Il problema ora non è più quello di non accettare caramelle da uno sconosciuto come si avvertiva nel passato. Oggi ben altre sono le cautele da esercitare. Tanto per cominciare appunto sul tema della sessualità occorre un’adeguata presa di posizione. Un’educazione precoce in merito non è mai uno sbaglio, specie se gli interlocutori sono i genitori, gli insegnanti, gli educatori. In mancanza di tale preparazione oculata e rispettosa saranno ben altri gli approcci ed i tentativi irriguardosi della personalità non ancora giunta alla maggiore età. Detto altrimenti un’educazione sessuale anticipata è sempre preferibile ad un’istruzione maldestra da parte di soggetti sprovveduti e magari miranti ad una strumentalizzazione più o meno celata.


                La privatizzazione del rapporto con i figli ancora bambini non deve però impedire più ampi legami con la società nel suo complesso. Il bimbo deve poter fare esperienza di ciò che lo riguarda direttamente, nella sua attività quotidiana, senza troppi slanci in avanti verso un futuro che non è detto sarà comunque di un certo ed unico tipo, quello fortemente voluto dai genitori per la loro prole.


                In pratica non appare conveniente ed utile che gli adulti ripensino di continuo alla loro infanzia e che i bambini siano sempre e solo proiettati verso la loro adultità. Giova a tutti vivere al massimo e bene il proprio presente, senza fughe in avanti (o indietro, che fa lo stesso).


                In termini di spazio poi occorre guardare sia al livello locale che a quello globale. Infatti non rientra in un’azione educativa efficace costringere l’orizzonte personale del bambino entro la sola dimensione di appartenenza. Egli, pur continuando a vivere intensamente il suo ambiente e le offerte che ne derivano, deve potersi abituare a guardare al di là del suo quadro topografico di riferimento. La sua condizione è condivisa da varie altre centinaia di milioni di bimbi nel mondo.


                In fondo il bambino finisce sovente per essere quello che gli altri vogliono che sia. Una volta che gli viene affidato un ruolo, egli si lascia prendere completamente da questo e trascura molte altre possibilità.


                D’altro canto una delle dimenticanze più frequenti ha a che vedere con le competenze che il soggetto non ancora adulto tuttavia già possiede. Tale errore di prospettiva da parte degli adulti comporta conseguenze gravissime per il minore: mancanza di autostima, venire meno della fiducia in se stesso, tendenza a rassegnarsi ad un ruolo passivo, delega ad altri di quello che egli è di solito in grado di compiere, rinunzia ad ogni progettualità immediata e successiva.


                Le attuali politiche in favore della famiglia sono tuttora carenti. A tale situazione sottosta un pregiudizo di fondo che colpisce in primo luogo il bambino: non lo si reputa dotato di volontà precise, di sentimenti consapevoli, di affetti duraturi.


                Ma forse il dato più macroscopico è che l’attaccamento degli adulti ai propri personali obiettivi non si coniuga felicemente con la crescita del loro interesse per l’infanzia e l’adolescenza.